Il contributo di Karl Mannheim all’analisi delle generazioni

Maurizio Merico

Ci sembra particolarmente interessante tentare di “Leggere le immagini” e più in generale le Nuove Fonti, in relazione alla trasmissione del Patrimonio Culturale Intangibile tra Storia e Memoria, alla luce del pensiero di Karl Manheim. Un tentativo che, ancora in fase di definizione sistematica, potrebbe consentire, nell’ottica della Nuova Storia, di ampliare i settori di indagine per studiare in che modo il Patrimonio si trasmette da una generazione all’altra. E ciò anche perché, da un lato, le nuove tipologie di fonti costituiscono il prodotto dell’evoluzione tecnologica degli ultimi due secoli e, dall’altro, esprimono le modalità di comunicazione tra i diversi soggetti, caratterizzando le principali forme di interrelazioni umane, sul versante politico, sociologico, economico, antropologico nelle società contemporanee. Inoltre, esse costituiscono, tra gli altri, «un referente particolarmente significativo proprio per le molteplici direttrici di ricerca che da esse si dipartono, nonostante la difficoltà da parte di queste nuove fonti, quali la fotografia, il cinema e la fonte orale e la fonte audiovisiva, a dotarsi di un proprio statuto riconosciuto come tale dagli studiosi (Calanca 2009, 2).

Introduzione

Sono trascorsi più di ottant’anni dalla pubblicazione, nel 1928, di Das Problem der Generationen (Il problema delle generazioni) di Karl Mannheim (1893-1947). Inizialmente “sottovalutato” perché ritenuto marginale all’interno della corposa e complessa produzione scientifica dell’Autore1, il saggio è divenuto nel tempo, in particolare a partire dagli anni Sessanta, con l’esplosione della protesta studentesca, un riferimento essenziale per la riflessione sociologica sulle generazioni e il mutamento sociale (Pilcher 1994; Demartini 1985). Più in generale, Il problema delle generazioni sembra offrire elementi di riflessione e suggestioni ancora estremamente attuali. In questa direzione, nelle pagine che seguono, dopo aver ricostruito brevemente la collocazione della riflessione sulle generazioni nel più ampio percorso intellettuale di Mannheim, cercheremo di delineare il percorso di analisi presentato nel saggio e di individuare gli aspetti di maggiore interesse per la ricerca sociale contemporanea.

Il problema delle generazioni e la sociologia della conoscenza

Nato in una famiglia ebraica (padre ungherese e madre tedesca), Mannheim si forma a Budapest, dove partecipa attivamente al processo di rinnovamento intellettuale che si realizza nei primi anni del Novecento. Si avvicina, dapprima, alla “Società per le Scienze Sociali” guidata da Oscar Jászi, con posizioni vicine al positivismo, e, poi, al circolo che si riuniva attorno al giovane filosofo György Lukács, sensibile alla filosofia idealistica tedesca e al marxismo. Quando Lukács diventa Commissario per l’istruzione della Repubblica popolare ungherese, Mannheim, che rifiuta di assumere cariche politiche, viene nominato professore di filosofia all’Università di Budapest. Una nomina che, con la caduta nel luglio del 1919 del regime dei soviet e l’instaurarsi del Terrore Bianco, gli costa l’esilio (Coser, 1971).

Mannheim si rifugia in Germania, dove, dopo la laurea, aveva già trascorso un anno per approfondire gli studi di filosofia e aveva seguito i corsi di Georg Simmel. L’esilio determina una svolta decisiva nella sua biografia intellettuale: alla passione per la filosofia, che ne aveva caratterizzato la formazione in Ungheria, si affianca e sostituisce progressivamente l’interesse per le scienze sociali e la sociologia. Segue le lezioni di Heidegger e Husserl, subisce l’influenza di Alfred e Max Weber e di Rickert, collabora con Elias ed entra in contatto con Max Horkheimer e gli esponenti dell’Istituto per le Scienze sociali di Francoforte, approfondisce lo studio del marxismo. Questo percorso costituisce la base sulla quale Mannheim elabora il proprio approccio alla “sociologia della conoscenza”, sino alla pubblicazione, nel 1929, di Ideologia e utopia2.

È all’interno di questa prospettiva che si colloca la riflessione di Mannheim sulle generazioni (Kecskemeti, 1952)3, la quale, come è stato sottolineato, può essere intesa come un’“applicazione del metodo della sociologia della conoscenza” (Izzo 1988, 64) o come la descrizione empirica di “alcune condizioni sociali che influenzano lo sviluppo del sapere” (Sciolla 2000, XV). Il saggio sembra, infatti, aderire perfettamente al progetto tracciato da Mannheim in Ideologia e Utopia:

Da queste indagini risulterà sempre più chiaro come le forze vitali e le disposizioni concrete che stanno alla base degli atteggiamenti teoretici non siano per nulla il semplice prodotto di una natura individuale, non abbiano la loro origine nel processo con cui il singolo diventa consapevole dei suoi scopi. Piuttosto, esse nascono dai fini collettivi del gruppo, su cui il pensiero individuale si fonda e alla cui generale tendenza esso partecipa. Ne segue che una grande parte del pensiero e del sapere non può venire correttamente interpretata, finché il suo legame con l’esistenza e le implicazioni sociali della vita umana non sono state prese in considerazione (Mannheim 1929, 263).

L’obiettivo che Mannheim persegue negli anni trascorsi in Germania è quello di studiare il pensiero nella sua “relazione” con le strutture sociali e storiche in cui ha origine, al fine di analizzare le condizioni esistenziali o sociali della conoscenza. Alla base di tale riflessione vi è la rielaborazione del concetto marxiano di ideologia, lungo la distinzione tra concezione “particolare” e “totale” (Mannheim, 1929). Ma il suo nucleo centrale si articola attorno a uno dei temi più contraddittori e criticati dell’elaborazione teorica di Mannheim, quello di “determinazione sociale della conoscenza”. Con il chiaro intento di estendere il percorso tracciato da Marx ed Engels ne L’ideologia tedesca, rileggendolo alla luce della lezione dello storicismo, il sociologo evidenzia che il pensiero e la conoscenza non possono essere intesi come mere attività individuali, né come il risultato dell’azione di forze estranee all’esperienza del gruppo sociale:

il pensiero è sempre condizionato socialmente e storicamente. Le condizioni sociali in cui i gruppi umani vivono influenzano il loro pensare: gli uomini pensano inevitabilmente in termini condizionati dalla loro posizione nella società. Vi è sempre nel pensiero la presenza di fattori extrateorici, extrarazionali, esistenziali. Il pensiero degli uomini è sempre in rapporto con la loro esistenza (Izzo 1991, 241).

Mannheim intende dimostrare che, oltre alla classe, vi sono altre unità sociali capaci di condizionare la produzione e riproduzione della conoscenza: “i ceti, le sette, i gruppi di lavoro, le scuole” e, per quanto qui interessa specificamente, le generazioni (Mannheim 1929, 270). Ed è questo il nodo problematico a partire dal quale si snoda il percorso tracciato ne Il problema delle generazioni.

Per argomentare la propria tesi, l’autore segue il metodo che gli è più congeniale: passa in rassegna il contributo offerto all’argomento studiato dai differenti approcci teorici e disciplinari, con l’obiettivo di giungere ad una propria “sintesi”. Nel caso specifico delle generazioni, ferma la propria attenzione sul positivismo e la prospettiva “romantico-storicistica”.

Per il primo, sospinto dall’“aspirazione di trovare una legge generale del ritmo storico” e all’interno di una “concezione lineare del progresso”, la successione delle generazioni è misurabile esclusivamente in termini quantitativi:

Il problema affascina il positivista poiché egli ha qui la sensazione di essersi inoltrato fino alle realtà ultime dell’esistenza umana. Nel fatto che vi è vita e morte ed una durata della vita limitata e numericamente comprensibile, nel fatto che le generazioni si avvicendano a determinati intervalli, il positivista crede di capire la forma generale del nostro destino, anzi di poterla fissare numericamente (Mannheim 1952, 323-324).

L’obiettivo perseguito dagli esponenti principali di questo approccio è quello di giungere a individuare la durata media degli intervalli all’interno dei quali una nuova generazione sostituisce la precedente:

Il nocciolo del problema […] sembra consistere solamente in quanto segue: trovare il tempo medio nel quale una generazione precedente viene sostituita nella vita pubblica da una nuova e soprattutto trovare l’inizio naturale che costituisce nella storia il punto dal quale deve iniziare il nostro calcolo (Mannheim 1952, 326).

Al contrario, secondo l’irrazionalismo romantico, la dinamica generazionale può essere valutata solo attraverso un approccio spirituale:

con il pensiero tedesco storico-romantico […] si cerca di trovare nel problema delle generazioni una prova contro la linearità dello sviluppo temporale. Il problema delle generazioni diviene in questo modo problema dell’esistenza di un tempo interiore non misurabile e comprensibile solo in termini qualitativi (Mannheim 1952, 329).

Nella prospettiva “romantico-storicistica”, dunque, le generazioni non si succedono secondo un ritmo predeterminato, ma si costituiscono quando si afferma un’entelechia, una nuova visione del mondo condivisa da soggetti che esprimono un fine interiore unitario (Bettin Lattes 1999).

Degli orientamenti teorici analizzati, Mannheim evidenzia le rispettive articolazioni, gli elementi condivisi e quelli che rifiuta, per giungere a “una definizione unitaria al problema”, la quale si rivelerà nel tempo un approccio fecondo di molteplici approfondimenti. E, in coerenza con la direttrice teorica intrapresa negli anni trascorsi in Germania, individua nella sociologia la disciplina che può e deve svolgere questo compito. In particolare, fa proprio il metodo della “sociologia formale”, cercando però di sfuggire alla dimensione statica per aprirsi ad una prospettiva dinamica, sempre attento a situare storicamente i fenomeni studiati.

Sebbene legato al costante tentativo di integrarne l’approccio con le altre prospettive con cui veniva confrontandosi, il debito nei confronti dello storicismo (e in particolare di Dilthey) è determinante e definisce la cornice entro la quale Mannheim colloca la propria analisi della successione delle generazioni:

Individui che maturano nello stesso periodo, vivono negli anni della massima capacità di assimilazione, ma anche più tardi, l’esperienza delle medesime influenze determinanti sia da parte della cultura intellettuale dominante sia da parte delle situazioni politico sociali. Essi rappresentano una generazione, una contemporaneità, poiché queste influenze sono unitarie (Mannheim 1952, 330).

Dalla prospettiva “romantico-storicistica” Mannheim mutua un ulteriore elemento: la “non contemporaneità del contemporaneo”. Secondo lo storico dell’arte Wilhem Pinder, in ogni epoca (con)vivono più generazioni, ciascuna delle quali è caratterizzata da un “tempo interiore” diverso dalle altre:

Ognuno vive con coetanei e con non coetanei in un complesso di possibilità contemporanee. Per ciascuno lo stesso tempo è un altro tempo, ossia un’altra epoca di se stesso, che egli ha in comune solo con coetanei (Pinder 1926, 21).

Pur non nascondendo di apprezzarne alcune suggestioni, Mannheim si dimostra molto cauto anche rispetto a questa prospettiva, in quanto, a suo avviso, “passa da un piano che tendeva a mutarsi in una mistica aritmetica al campo di una temporalità interiore comprensibile solo con l’intelletto” (Mannheim 1952, 330). Se, cioè, non è possibile determinare a priori il succedersi delle generazioni, non si può neppure sostenere che la contemporanea esposizione ai medesimi fattori determini oggettivamente un sentire comune.

In altri termini, considerati nella loro formulazione originaria, i due approcci analizzati non riescono, secondo Mannheim, a rendere conto della complessità del fenomeno delle generazioni. Fare riferimento esclusivo al vitale, inteso come agglomerato di memorie accumulate, significherebbe, infatti, tralasciare l’idea che quest’ultimo è pur sempre soggetto al “ritmo biologico”. Allo stesso modo, se si considerasse soltanto la dimensione “naturale” della successione delle generazioni esisterebbe soltanto “il nascere, l’invecchiare, il morire”.

Occorre però prestare attenzione: la proposta elaborata da Mannheim non si risolve nella semplice integrazione delle due prospettive. Egli ritiene, invece, necessario partire dalla considerazione secondo la quale “fra la sfera naturale e quella intellettuale vi è un livello di esistenza al quale operano le forze sociali” (Mannheim 1952, 332). Ed è solo all’interno di quest’ultimo che può prendere forma, e assumere rilevanza sociologica, la dinamica storica delle generazioni.

Collocazione, legame e unità di generazione

Nel delineare la propria “sintesi” sociologica, Mannheim parte da una considerazione: la nascita di una generazione non può essere assimilata alla formazione di un “gruppo concreto” in quanto manca del presupposto fondamentale della “conoscenza reciproca” tra i membri che si determina in virtù del “rapporto fisico di vicinanza”. Al tempo stesso, “la generazione non è […] paragonabile a formazioni sociali – ossia a gruppi costituiti per uno scopo –, che hanno come caratteristica l’atto cosciente di fondazione, l’esistenza di uno statuto e la revocabilità” (Mannheim 1952, 337).

Piuttosto, il fenomeno delle generazioni presenta alcuni caratteri tipici della condizione di classe: la generazione e la classe possono essere infatti intese come l’esito di una particolare “collocazione” nella struttura sociale, la quale “non è revocabile per mezzo di un atto volontario e razionale come l’appartenenza ad un’associazione”. Inoltre, sia nell’uno che nell’altro caso, “questa collocazione può essere lasciata soloper mezzo di un’ascesa o una discesa individuale o collettiva”. D’altro canto, in una specifica collocazione generazionale o di classe “ci si trova ed è anche secondario se se ne sia coscienti o no, se si voglia o meno riconoscere questa appartenenza” (Mannheim 1952, 338). Più in generale:

I membri di un generazione hanno una collocazione affine in primo luogo per il fatto che partecipano in modo parallelo alla stessa fase del processo collettivo. Ma ciò produrrebbe soltanto una determinazione puramente meccanica ed esteriore del fenomeno della collocazione […]. Non il fatto di essere nati nello stesso momento cronologico, di essere divenuti giovani, adulti, vecchi contemporaneamente, costituisce la collocazione nello spazio sociale, ma solo la possibilità che ne deriva di partecipare agli stessi avvenimenti, contenuti di vita, ecc. e ancor di più di fare ciò partendo dalla medesima forma di “coscienza stratificata” (Mannheim 1952, 346-347).

Allo stesso modo della classe sociale, la collocazione derivante dall’appartenenza a una generazione definisce “uno spazio limitato di esperienze possibili”: circoscrive, cioè, gli orizzonti a disposizione degli individui che ne fanno parte e produce “una tendenza a determinati modi di comportarsi, di sentire e di pensare”.

Se, da un lato, consentono di individuare e studiare il processo attraverso il quale si definisce l’ancoraggio storico dei processi culturali, nella prospettiva avanzata da Mannheim, le generazioni rappresentano soprattutto un fattore sociale capace di favorire la formazione di nuovi stili di pensiero e concezioni del mondo. A tal proposito, il sociologo di origine ungherese insiste ripetutamente sul fatto che la collocazione di generazione costituisce una potenzialità, la quale, nel processo storico, può poi realizzarsi, come anche essere annullata o trovare articolazione “in altre forze socialmente attive”.

Per chiarire questo aspetto, egli introduce la distinzione tra collocazione, legame e unità di generazione. A differenza della collocazione, il legame di generazione non esprime la semplice esposizione contemporanea alle medesime esperienze: rappresenta, invece, “un’unione reale tra gli individui che si trovano nella stessa collocazione”, i quali partecipano consapevolmente alle trasformazioni che investono il loro tempo, ovvero quanti si confrontano esplicitamente con il destino storico-sociale della propria epoca.

All’interno di ogni legame generazionale possono poi sorgere differenti unità di generazione

 

caratterizzate dal fatto che non comportano soltanto una partecipazione di diversi individui a un contesto di avvenimenti vissuti in comune, ma individualmente dati in modo diverso, ma anzi significano un reagire unitario, una pulsazione e una configurazione affine di individui all’interno della generazione (Mannheim 1952, 356).

È, quindi, nelle unità di generazione che la potenzialità intrinseca alla collocazione generazionale e condivisa all’interno del legame diviene forza concreta di trasformazione sociale e culturale. Si può, quindi, sostenere che, se è necessario considerare il dato biologico come punto di partenza per lo studio delle generazioni, nella prospettiva sociologica l’analisi della dinamica generazionale può essere condotta – ed è questa la tesi sostenuta da Mannheim – solo prestando specifica attenzione ai processi storico-sociali entro i quali le generazioni nascono e si succedono (O’Donnell 1985; Pilcher 1994). Come ha puntualmente rilevato Philip Abrams, “il problema delle generazioni consiste – quindi – nella sincronizzazione reciproca di due calendari diversi: quello del ciclo vitale dell’individuo e quello dell’esperienza storica” (Abrams 1982,293).

Tra memoria e presente

In virtù della sua radice biologica, l’avvicendarsi delle generazioni è inteso da Mannheim come un “processo continuo”, nel quale

la cultura viene sviluppata da uomini che accedono ogni volta di nuovo al patrimonio culturale accumulato. Nella natura della nostra struttura spirituale questo “nuovo accesso” significa sempre un nuovo rapporto di distanza con l’oggetto, una nuova impostazione nella assimilazione, elaborazione e perfezionamento dell’esistente. Il “nuovo accesso” è un fenomeno che è sempre rilevante nella vita sociale e trova qui solo una sua specifica realizzazione (Mannheim 1952, 342).

Il “nuovo accesso” che si determina quando emerge una nuova generazione produce, tuttavia, effetti molto più radicali di quello che coinvolge il singolo individuo, in quanto “il nuovo atteggiamento si realizza in nuovi partecipanti al processo culturale per i quali ciò che è stato assimilato in un momento storico precedente non ha più la stessa importanza” (Mannheim 1952, 343). La dinamica generazionale rivela, cioè, l’esigenza di rimettere continuamente in discussione il patrimonio culturale:

l’emergere di uomini nuovi comporta (…) la necessità inconsapevole di una nuova selezione, di una revisione nel campo del presente, ci insegna a dimenticare ciò di cui non abbiamo più bisogno, a desiderare ciò che non è stato ancora ottenuto (Mannheim 1952, 344).

Da questa considerazione non deriva, tuttavia, un diniego del ruolo e del contributo della memoria nella dinamica generazionale. Occorre, però, riconoscere che “gli avvenimenti e le esperienze del passato hanno importanza solo se esistono effettivamente nel presente” (Mannheim 1952, 344), soltanto se sono capaci di offrire agli individui modelli in base ai quali, consapevolmente o inconsapevolmente, orientare il proprio agire nella contemporaneità.

Per cogliere la complessità del percorso delineato da Mannheim, proviamo ad osservare la medesima questione da un altro punto di vista: se una società fondasse la propria riproduzione esclusivamente sulla memoria, indipendentemente dal fatto che quest’ultima sia trasmessa o acquisita con uno sforzo personale da parte degli individui e dei gruppi, potrebbe trovarsi di fronte al “pericolo che i modi precedenti di possesso e di acquisizione ostacolino ogni acquisizione posteriore di conoscenza”. In altri termini, se è vero che l’esperienza è spesso un vantaggio, la stessa può diventare un ostacolo nella misura in cui “ogni nuova esperienza possibile ha una forma e una collocazione in una certa misura determinate a priori” (Mannheim 1952, 345-346). Al contrario, la mancanza di esperienza, pur privando l’individuo della possibilità di fare affidamento su modelli di riferimento condivisi e consolidati, “facilita la […] vita in un mondo che cambia”.

A questo proposito, è interessante il parallelo che Mannheim stabilisce tra vecchiaia e giovinezza: “si è vecchi soprattutto per il fatto che si vive in un contesto specifico, personalmente acquisito, di esperienze valide del passato […]. Nella gioventù invece, dove esiste una vita nuova, le forze plasmanti sono appena in divenire e le intenzioni fondamentali possono ancora accogliere in sé la forza determinante delle nuove situazioni” (Mannheim 1952, 346). Ritroviamo qui un tema cui ha dedicato attenzione Walter Benjamin, il quale, poco più che ventenne, ha sostenuto che una piena valorizzazione della giovinezza può compiersi solo a patto di sollevare “la maschera dell’adulto”. Per Benjamin, quella maschera, “inespressiva, impenetrabile, sempre la stessa”, coincide con l’esperienza, facendo perno sulla quale l’adulto “svaluta in anticipo gli anni che viviamo, trasformandoli in anni di dolci cretinate giovanili, in ebbrezza infantile che prelude alla lunga sobrietà della vita seria” (Benjamin 1972, 64). Indubbiamente, Mannheim non cede al rischio di una idealizzazione della giovinezza, come invece sembra fare il giovane Benjamin. E tuttavia, anch’egli riconosce la forza dirompente che si cela in quella età della vita. La giovinezza rappresenta, infatti, il momento in cui sorge nell’individuo la “capacità di porsi questioni in modo autonomo”, e dunque in cui prende forma la consapevolezza della propria collocazione sociale e storica. Qui assumono un ruolo determinante le “prime impressioni”. Queste ultime rappresentano per gli individui la “concezione naturale del mondo”, il riferimento a partire dal quale si definirà il rapporto con le esperienze future, che non si sommeranno loro semplicemente, ma saranno orientate e interpretate dialetticamente sulla base delle prime (Mannheim 1952, 347). Ciò significa che adulti e giovani vivono in modi completamente diversi il rapporto con la contemporaneità e il presente. I primi lo affrontano a partire dalla propria “stratificazione delle esperienze”, dunque mettendolo in relazione a ciò che è già stato vissuto e ai modelli di riferimento sedimentati nel corso del tempo. Per i secondi, invece, quel presente costituisce la base a partire dalla quale affronteranno il futuro, il riferimento entro cui si definirà la “successiva configurazione dei contenuti di coscienza”. Ecco, allora, che:

L’essere fino in fondo nel presente della gioventù significa […] vivere come antitesi primaria proprio ciò che non è più stabile, tradizionale, e legarsi gli uni agli altri proprio in questa lotta, mentre la vecchia generazione si irrigidisce in quello che nella sua gioventù era un nuovo orientamento (Mannheim 1952, 349-350).

Nel tempo, tuttavia, a quelle prime impressioni se ne sommerà un secondo strato, poi un terzo, ecc., trasformandole progressivamente in memoria e tradizione e aprendo, così, alla possibilità (e alla necessità) dell’emergere di nuove generazioni, ad un rinnovato rapporto con il presente e ad una inedita stratificazione delle esperienze. In altri termini, in assenza di un ricambio generazionale, il patrimonio culturale di una data collettività resterebbe imprigionato nell’esperienza del passato e della memoria. Mancherebbe, cioè, di quella spinta decisiva alla trasformazione che è possibile individuare quando si considera l’elemento sociale come luogo di sintesi tra la dimensione biologica e quella storica.

Generazioni e mutamento

Sulla scorta delle considerazioni svolte, possiamo verificare che la riflessione sviluppata sul tema delle generazioni consente di cogliere la stretta interconnessione che Mannheim individua tra storie di vita, strutture sociali e tempo storico (Pilcher 1994). Infatti, quasi rifacendosi alla proposta di intendere la generazione come un “compromesso dinamico” (Ortega y Gasset 1923), egli insiste ripetutamente sulla necessità di considerare il mutamento sociale come l’esito del rapporto dialettico tra individui, gruppi e contesto storico-sociale (Cristofori 1997), delineando così i presupposti che consentono di analizzare il rapporto tra identità e problema delle generazioni entro la prospettiva di una sociologia storica, nell’ambito della quale “la società deve essere intesa come un processo costruito nella storia da individui che sono costruiti storicamente nella società” (Abrams 1982, 277).

Questa duplice dinamica ci introduce ad un ultimo aspetto del percorso tracciato ne Il problema delle generazioni. Interrogandosi sulle modalità attraverso le quali le successive generazioni possono diventare consapevoli della propria unità, Mannheim osserva: “Sembra verosimile che la frequenza del divenire attivo di questa potenzialità dipenda dalla velocità della dinamica sociale” (Mannheim 1952, 358). In questa direzione, non tutte le generazioni sviluppano un’identità propria capace di segnare una discontinuità rispetto al passato. Infatti,

i fattori vitali (l’essere giovane e l’essere vecchio) non implicano per nulla i contenuti del comportamento spirituale (giovane non corrisponde necessariamente a progressista e così via), ma soltanto delle tendenze formali che possono diventare rilevanti solo nell’elemento del sociale e dello spirituale (Mannheim 1952, 407).

Seguendo questa prospettiva, nelle comunità statiche, in cui il mutamento sociale segue un processo cumulativo fondato sulla tradizione, non si assiste alla progressiva differenziazione tra unità di generazione sempre nuove, in quanto la socializzazione dei nuovi membri si realizza gradualmente all’interno della cultura già sedimentata. Il mutamento, che pure si verifica, è graduale e non subisce repentine accelerazioni.

Al contrario, nelle società dinamiche, nelle quali il mutamento sociale assume un ritmo più intenso, il patrimonio culturale accumulato (e trasmesso) dalla vecchia generazione perde “evidenza, forza d’attrazione, vigore imperativo” (Ortega y Gasset 1923). La nuova generazione non riconosce il carattere “sacro” della tradizione, in quanto quest’ultima non è capace di fungere da quadro di riferimento e orientamento nella nuova situazione. Lungo questo meccanismo, nei momenti in cui la trasformazione è più intensa, le giovani generazioni, mancando di un patrimonio sedimentato, possono costruire la propria identità in piena sintonia con quella trasformazione: ne assorbono gli aspetti di maggiore innovazione, traducendoli in nuovi atteggiamenti, stili di vita, valori e modelli culturali condivisi. In questo processo, le unità di generazione costruiscono la cifra distintiva del proprio patrimonio culturale e definiscono, così, la propria coscienza collettiva (Berger 1960). Si può, quindi, sostenere che

i nuovi stili di identità si creano soltanto all’interno delle specifiche possibilità effettive, costruite storicamente, presenti nel mondo nel momento in cui ciascuna generazione biologica vi fa il suo ingresso. Perché emerga una nuova generazione sociologica, una nuova configurazione dell’azione sociale, bisogna che il tentativo degli individui di costruire identità coincida con importanti e tangibili esperienze storiche in rapporto alle quali sia possibile assemblare nuovi significati (Abrams 1982, 311).

Indubbiamente, Mannheim non chiarisce sino in fondo le modalità attraverso le quali la potenzialità intrinseca ad una collocazione di generazione contribuisca concretamente alla produzione e riproduzione del mutamento (Corradini 1976). Occorre però ricordare che egli non intendeva individuare la direzione lungo la quale si concretizza il rapporto tra successione delle generazioni e mutamento. Piuttosto, voleva evidenziare come questo legame si definisca all’interno di una dinamica complessa, attraversata da relazioni, processi e meccanismi articolati, nella quale “il mutamento storico-sociale produce il fenomeno delle generazioni” ma è poi, a sua volta, “reso possibile dal metabolismo generazionale” (Cavalli 1994, 239). Qui ritroviamo il senso più innovativo della proposta di Mannheim: la “continua modificazione della situazione” e la “continuità nella successione delle generazioni” sono strettamente interdipendenti, in quanto l’una è possibile solo in ragione dell’altra.

Conclusioni

Quando Mannheim pubblica Il problema delle generazioni esiste un numero consistente di riflessioni sul tema. Come abbiamo provato ad evidenziare nelle pagine precedenti, egli non si limita a ripercorrerne le complesse articolazioni. Rifacendoci all’etimologia del termine, potremmo dire che Mannheim “genera” un nuovo approccio: ricombina in modo originale orientamenti teorici e categorie interpretative, “dando vita” a un qualcosa che prima non esisteva (Chisholm 2002).

Il risultato complessivo è ormai generalmente ritenuto l’analisi più sistematica e articolata delle generazioni da una prospettiva sociologica (Bengtson, Furlong, Laufer1974). Quello di Mannheim, pur se analizzato trascurandone spesso (forse troppo spesso) la matrice storica e teorica in cui è stato elaborato, è divenuto, infatti, un riferimento paradigmatico per la “sociologia delle generazioni” (O’Donnell 1985; Attias-Donfut 1988; Bertocchi 2004), ma anche per ambiti di ricerca a questa affini, quali la sociologia delle età e la sociologia dei giovani. Allo stesso modo, i temi affrontati nel saggio sulle generazioni si sono prestati (e si prestano ancora oggi) ad approfondimenti in molteplici ambiti della ricerca sociologica, pure non immediatamente riconducibili ai suoi interessi: dalla sociologia storica (Abrams 1982), alla sociologia politica (Bettin Lattes 1999), allo studio dei processi di socializzazione (Berger, Luckman 1966) e del mutamento sociale (Canta 2006). Ed è, allo stesso tempo, un approccio con il quale sono stati chiamati a confrontarsi studiosi della musica, dell’arte e della letteratura, scienziati della politica, psicologi e storici (Jager 1985).

Indubbiamente, come ogni innovazione, la proposta di Mannheim porta con sé, inevitabilmente, i germi della contraddizione e lascia irrisolti molti nodi, comunque connaturati ad un concetto – quello di generazione – oggettivamente polisemico (Kertzer 1983).

Nonostante queste considerazioni, a distanza di oltre ottant’anni dalla sua pubblicazione e a sessanta dalla scomparsa del suo autore, il percorso di analisi presentato ne Il problema delle generazioni conserva il fascino e la forza dei classici. Evidenziando un’indiscussa carica di anticipazione, Mannheim ci invita a fare i conti con una realtà plurale, molteplice, nella quale si intrecciano dimensioni e identità profondamente differenti. In questa direzione, la stringente attualità del percorso qui delineato non risiede, e non potrebbe risiedere, esclusivamente nel merito specifico dei contenuti sviluppati. Come tutti i classici, egli ci pone interrogativi e ci offre un metodo di lavoro, la cui cifra distintiva va rintracciata, a nostro avviso, nella cautela e nell’attenzione che costantemente accompagnano la sua analisi. Per alcuni, questo è uno dei limiti più evidenti di tutta la sua opera, ritenuta asistematica e contraddittoria anche perché costantemente pronta a dialogare con prospettive teoriche molteplici, ad aprirsi a campi del sapere e a temi di riflessione sempre nuovi, a utilizzare metodi di indagine differenti.

Siamo invece convinti che la capacità di riconoscere e accettare le contraddizioni, intimamente connaturate all’esperienza e alle relazioni sociali, sia un elemento imprescindibile per una scienza sociale che voglia essere in sintonia con il proprio “oggetto” di studio, tanto più quando è interessata all’analisi dei processi storici e sociali. Possiamo allora sostenere che l’invito di Mannheim a studiare il rapporto tra generazioni e società in modo non episodico, riconoscendo e accettando le contraddizioni, conferma la profonda attualità del suo approccio, che offre suggestioni e spunti di ricerca ancora oggi attuali, non solo per la sociologia. In questa direzione, il problema delle generazioni restituisce stimoli e suggestioni anche per la storia e la storia sociale in particolare, laddove le immagini fotografiche documentano l’intreccio tra la successione delle generazioni e i processi di trasformazione del Novecento.

Biografia

Maurizio Merico è ricercatore in Sociologia presso l?Università degli Studi di Salerno dove insegna Sociologia della cultura e Analisi dei modelli e delle politiche culturali. Le sue ricerche vertono intorno ai temi della condizione giovanile e del mutamento socio-culturale. Tra le sue pubblicazioni: Giovani come (Napoli, 2002), Giovani e società (Roma, 2004), Il tempo in frammenti (Calimera, 2007). Ha curato I giovani nella società americana di T. Parsons (Roma, 2006).

Biography

Maurizio Merico is a sociology researcher at the University of Salerno, where he also teaches sociology of culture, and cultural models and policies analysis. His researches revolve around issues such as the condition of the youth and socio-cultural change. Among his publications: Giovani come (Naples, 2002), Giovani e società (Rome, 2004), Il tempo in frammenti (Calimera, 2007). He was the editor of T. Parsons’s I giovani nella società americana [Youth in the Context of American Society] (Rome, 2006).

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  1. Woldring (1997) offre una breve ma efficace ricostruzione della biografia e dell’opera di Karl Mannheim. Per approfondimenti rinviamo a: Canta 2006; Corradini 1976; Coser 1971; Izzo 1988; Kettler, Meja, Stehr 1984; Loader 1985; Remmling 1975; Santambrogio 1997a; 1997b; Woldring 1986; Wolff 1971.  []
  2. Con l’avvento del Nazismo, nel 1933 Mannheim sarà costretto ad un secondo esilio, questa volta a Londra. Per una efficace ricostruzione del percorso biografico e intellettuale di Mannheim in Inghilterra si veda Canta (2006).  []
  3. A tal proposito è opportuno evidenziare che il saggio è stato incluso da Paul Kecskemeti nel volume Essays on the Sociology of Knowledge[1], che raccoglie i principali saggi dedicati da Mannheim al tema della “sociologia della conoscenza” tra il 1921 e il 1929 (dunque, prima della pubblicazione di Ideologia e Utopia): L’interpretazione del concetto di Weltanschauung (1921-22), Storicismo (1924), Il problema di una sociologia della conoscenza (1925), Il problema delle generazioni (1928) e Il significato della concorrenza come fenomeno culturale (1929). A questi si aggiunge Essenza e significato dell’ambizione economica (pubblicato originariamente nel 1930). I saggi di Sociologia della conoscenza sono stati tradotti per la prima volta in italiano da Dedalo edizioni nel 1974. Nel 2000 ne è stata presentata una seconda edizione per i tipi de Il Mulino, che ha poi pubblicato, nel 2008, il testo Le generazioni in edizione autonoma.  []