di Giuseppe Barbalace
Abstract
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The Technocratic Movement e democrazia parlamentare1
All’inizio del 1930 si accentua, nel socialista Virgilio Dagnino (1906-1997), l’attenzione verso i “cartelli industriali” (dopo aver frequentato i corsi universitari dei professori Attilio Cabiati e Carlo Rosselli, presso l’Ateneo di Genova, ove nel 1927 si laurea in Scienze economiche) per poi passare al Technocratic Movement, uno dei principali argomenti di dibattito culturale e politico del New Deal.
Il 1933 è l’anno di pubblicazione del suo volumetto Tecnocrazia. Certamente trovarsi a Milano, presso la segreteria della direzione commerciale della Montecatini, aiuta Dagnino a raccogliere articoli e bibliografia sull’argomento e, nello stesso tempo, a passare più inosservato tra le maglie delle “leggi eccezionali” già in vigore dal novembre 1926 (d’altra parte Dagnino ha sperimentato il carcere in seguito alla soppressione della rivista “Pietre”, da lui fondata). A Milano altri giovani socialisti – Rodolfo Morandi, Roberto Tremelloni, Lucio Luzzatto, Guido Mazzali, Lelio Basso – trovano “copertura” presso alcune case editrici.
Il Technocratic Movement rientra – con diverse declinazioni politiche – nelle International Plan Conferences, anni 1934-1937, alle quali Dagnino non partecipa (invece, sono presenti Carlo Rosselli ed Angelo Tasca all’incontro di Pontigny del 1934). Il Technocratic Movement vive una significativa effervescenza con il primo mandato del presidente Roosevelt e una ripresa di interesse, con James Burhnam, nel 1941 (i cui riflessi si proiettano in alcune riviste socialiste italiane dell’immediato secondo dopoguerra).
Passando dalla rivista “Pietre” – molto più di un periodico – ma vero e proprio movimento antifascista, in prevalenza studenti universitari, ramificato al centro-nord, Virgilio Dagnino si cimenta con il Gar (Gruppo Amici della Razionalizzazione). Da queste preliminari esperienze si può seguire Virgilio Dagnino, dirigente d’azienda e socialista atipico. Non a caso due caratteristiche che lo accomunano a Dino Gentili con il quale Dagnino stabilisce una lunga collaborazione manageriale (ed insieme apriranno il primo ponte commerciale europeo, non ufficiale, con la Cina Popolare). Ulteriori tappe nel successivo lungo percorso di Dagnino: il Centro socialista interno, l’esperienza partigiana nelle “Matteotti”, il Clnai – in qualità di direttore generale del comitato Industria – e il gruppo dei tecnici socialisti della rivista “L’Edificazione Socialista”.
Nella formazione universitaria di Virgilio Dagnino vanno inquadrati i due volumi I cartelli industriali ed internazionali (1928) e, con più scioltezza e brillantezza, Tecnocrazia (1933), offrendo un essenziale quadro d’insieme, “senza pretese dottrinarie”, sul Technocratic Movement2 negli Stati Uniti. Proprio questi interessi culturali rendono Dagnino un socialista atipico. Una originale strada di ricerca che contiene potenziali implicazioni con almeno altri due temi all’ordine del giorno di quei primi anni Trenta: il planismo di Henri de Man e la Carta di Atene, ovvero l’architettura funzionale e la “città regionale” di Geddes e Mumford.
The Technocratic Movement si caratterizza per una sua peculiare battaglia contro i monopoli che, nel 1916, mobilita gli “ingegneri dell’efficienza” H. L. Gantt e Morris L. Cooke, e nel 1919-1920, con metodologie che rispecchiano le rispettive collocazioni professionali, l’ing. Howard Scott (1890-1970) e Thorstein Veblen (scomparso nel 1929). A New York, nel 1919 la Technical Alliance di Scott e, nel medesimo anno, i saggi di Veblen per la rivista “The Dial”, raccolti nell’antologia Gli ingegneri e il sistema dei prezzi, edita, a stampa, nel febbraio 1921 (citata da Dagnino 1933, 5 e 86).
Non soltanto Technocratic Movement. Le premesse di Dagnino si collocano alle origini della crisi economica del 1929 e proseguono con capitoli dedicati alle fonti di energia, il macchinismo, i salari e la disoccupazione. È il quadro d’insieme che Roosevelt deve risolvere: “[…] Questa nazione esige che si agisca e che si agisca subito”, così Roosevelt il 4 marzo 1933.
Anche negli Stati Uniti, come in tutto il mondo, precisa Dagnino, “gli avvenimenti di questi ultimi anni hanno posto all’ordine del giorno le ricerche delle cause e le conseguenze di una crisi senza precedenti qual’è quella in cui si dibatte l’organizzazione economica esistente”. Ma, nello stesso tempo, Dagnino va alla diversa evoluzione e tradizione storica dei partiti politici: “[…] mentre, in Europa, la critica radicale dell’organizzazione esistente fa parte della dottrina dei grandi partiti di massa e si muove su un terreno politico che non può prescindere da elementi storici, culturali , ecc., negli Stati Uniti tutto ciò non accade […] negli Stati Uniti non si sono mai avuti grandi movimenti di masse radicali e chi critica la società attuale non rientra, quindi, necessariamente, nel solco di una tradizione politica, ma può fare, semplicemente, del lavoro sperimentale, pura ricerca di laboratorio, allo stesso modo del fisico che demolisce vecchi principii e ne elabora dei nuovi. […] purtroppo, mancando l’apporto, la selezione e l’esperienza storica di forti partiti innovatori, i risultati che tali studiosi conseguono rimangono, spesso, sterile astrazione dottrinaria, priva di riflessi nel campo della realtà politica” (1933).
Il dibattito teorico sulla tecnocrazia nord-americana riceve sollecitazioni da alcune interviste, tra fine 1932 ed inizio 1933, dell’ing. Howard Scott ai quotidiani “New York Times” e “New York Herald Tribune” (citate da Dagnino 1933, 2-5). Scott, nel 1932, dà vita con Walter Rautenstrauch alla Committee on Technocracy presso la Columbia University. Infine, nel 1933, propone un’organizzazione più razionale ed efficiente del sistema produttivo con Technocracy Incorporated.
Molteplici interpretazioni e realizzazioni pratiche del concetto di tecnocrazia. Infatti, nei primi anni Trenta, Stuart Chase, economista, F. J. Schlink, fisico-ingegnere meccanico, e Arthur Kallet, ingegnere elettrotecnico, fondano la Consumers’ Research Inc. per la tutela dei cittadini-consumatori e l’analisi dei principali prodotti commerciali. Una sorta di “scuola dei consumatori”. Il fabiano Stuart Chase scrive, nel 1932, il volume A New Deal, subito identificato come il programma economico di Roosevelt. Le iniziative legislative del primo mandato presidenziale di Roosevelt, con il supporto di tecnici, sono alla base del superamento della crisi economica del 1929.
La tecnocrazia statunitense assume i contorni di “una organizzazione di ricerche”, si compone di scienziati, tecnici, fisici, biochimici, e può contare sul sostegno della Columbia University e del California Institute of Technology. E se Veblen propone un “Comitato di ingegneri” per governare gli Stati Uniti, ancor prima, negli anni Ottanta dell’Ottocento, Lester Frank Ward (1841–1913) invoca l’intervento statale come risposta alle sfide dell’industrializzazione e dei monopoli, proponendo una sorta di governo di scienziati sociali. La versione “sociocratica” di Ward enfatizza le “competenze” e trova sintesi in Dynamic sociology (questo il titolo dei due volumi pubblicati da Ward, a New York, nel 1883). Tuttavia, in Ward “ […] poco o nessun spazio alla presenza di opinioni politiche diverse o di interessi contrastanti. […] sostanziale sfiducia nei confronti delle capacità delle istituzioni democratiche americane di fronteggiare le gravi problematiche sociali scaturite con lo sviluppo economico” (Condoluci 2012, 301-331). Invece è questo l’intento di Roosevelt.
Tecnocrazia, tendenza in via di espansione (Gallino 1978; Bobbio-Matteucci-Pasquino 1990). E prosegue Dagnino: “ […] la tecnocrazia è una creazione tipicamente americana e soltanto con riferimento al particolare clima spirituale e sociale in cui è sorta noi dobbiamo quindi studiarla e guardarla. […] Sarebbe grave errore, tuttavia, il non vedere nella tecnocrazia un valore di sintomo, una parziale espressione di tendenze che, senza dubbio, sia pure per altra via, non mancheranno di influenzare il prossimo avvenire degli Stati Uniti” (1933, 17-18).
Prima di Tecnocrazia Dagnino fonda il Gar (Gruppo Amici della Razionalizzazione), nella Milano dei primi anni Trenta, con Guido Mazzali e Roberto Tremelloni (quest’ultimo dirige la Casa Editrice Aracne, specializzata in testi di scientific management). Scopo del Gar coinvolgere dirigenti d’azienda e capiufficio nelle novità meccanografiche e in tutti gli aspetti del sistema Taylor (Carotti 2001, 67-91). Ma anche il settore pubblicitario. Collegata al Gar la rivista “L’Ufficio moderno” ove, tra l’altro, trovano spazio analisi teoriche: Marx, Sombart e Keynes. Per iniziativa di Fernando Di Fenizio e di Roberto Tremelloni la Montecatini riporta in vita la rivista milanese “L’industria”, considerata “uno dei veicoli fondamentali per la diffusione e la conoscenza di Keynes in Italia” (Pinto 2008, 24-25). Nel 1943 Dagnino (Marcenaro 2013, 15-26) è tra i promotori del Mup e, poi, del Psiup.
Burnham nell’Italia del secondo dopoguerra
Termina l’età di Roosevelt, ma non il dibattito teorico sul problema dei tecnici. È James Burnham a rilanciare il problema con la prima edizione di The managerial revolution (1941, II trad. it. La rivoluzione manageriale 1947). Burnham prevede come la “burocrazia politica apparirà (e già appare) troppo irresponsabile, troppo dedita al peculato e allo spreco, troppo instabile”. Invece i tecnici “dimostreranno di possedere il più alto grado di stabilità e raccoglieranno, nelle loro mani, in modo sempre più decisivo ed ambiguo, tutta la realtà del predominio sociale” (1947, 183).
Ambiguità di ruoli. Una perdurante attualità già nell’Italia che si prepara al “triplice voto” del 1946 (se ne fa portavoce Saragat nell’introduzione ad una nuova edizione di Minghetti sull’ingerenza dei partiti nella vita pubblica, riflettendo sul logoramento dei partiti come cantieri di cultura politica, strumenti di formazione dell’opinione pubblica, mobilitazione collettiva e andando al di là della circoscritta fase delle campagne elettorali). Preoccupante attualità nel momento in cui la diffusa insoddisfazione verso la capacità di rappresentanza sociale dei partiti3 (Bigazzi 1997, 382-383), nel rinnovare ed esercitare la trasparenza delle proprie funzioni costituzionali, sembra offrire – ai tecnici e alle alte burocrazie – opportunità di “supplenza di comando”, perfino politiche sociali, agganciate ad un susseguirsi di decreti–leggi e in una logorante riconversione legislativa. E, poi, si confida in provvidenziali distrazioni delle commissioni parlamentari senza passare per quelle che taluni considerano “lungaggini” del dibattito in assemblea plenaria.
Ormai, rispetto alle tendenze tecnocratiche intraviste, nel 1933, da Dagnino e, nel 1941, da Burnham, viviamo nell’età delle tecnostrutture.
Espressamente di tecnostrutture parla Angelo Panebianco nella prefazione al volume di Robert A. Dahl, Democrazia o tecnocrazia? (però siamo nel 1987). La traduzione italiana del titolo non esprime al meglio la versione orginale di Dahl, Democracy versus guardianship (1985), chiaramente alludendo al “governo dei guardiani” nel dialogo platonico La Repubblica. A conferma di una nuova fase, Robert Dahl, ed egualmente Panebianco, non fanno riferimento, in bibliografia, a Burnham. Non certo perché ignorino l’autore di La rivoluzione manageriale, ma, probabilmente, per evidenziare inediti e più vasti livelli di strategie geopolitiche (infatti, Dahl prende spunto dalla politica nucleare, a scopi militari, negli Usa).
Burnham è consapevole che il passaggio dalla “burocrazia politica” al cosiddetto “ordine nuovo” dei manager potrebbe assumere contorni “totalizzanti”.
Nel 1942 Paul M. Sweezy , in un saggio per la rivista “Science and Society”, confuta – “con argomenti teorici e dati statistici” – il libro di Burnham, partendo dalla sua origine politica (infatti Burnham é un ex seguace di Lev Trotski). Sweezy riconosce come La rivoluzione manageriale abbia avuto “entusiastiche recensioni sulla stampa” ponendo “una serie di problemi realmente fondamentali” e soluzioni “sufficientemente plausibili”. Ed allora? La risposta di Sweezy è, testualmente, la seguente: “Una teoria, qualunque sia la sua fonte, ma che attrae l’interesse e l’attenzione di un numero importante di persone, deve essere sottoposta ad una critica approfondita da un punto di vista marxista” (1962, 44-70).
Antonio Valeri (proveniente dall’esperienza del Gar milanese) affronta, nelle pagine di “Critica Sociale”, 16 giugno 1946, il testo di Burnham, con una preliminare osservazione: per una maggiore aderenza al titolo originario, sarebbe stato auspicabile tradurre La rivoluzione dei dirigenti.
Subito Valeri sgombra ogni forma di equivoci: “ […] Non v’è problema tecnico che non si risolva in economia e, quindi, in politica. D’altra parte non vi è ordinamento politico che non sia espressione di uno stadio dell’evoluzione dei mezzi di produzione e, quindi, della tecnica. Il tecnico, posto a dirigere l’apparato produttivo, diventa, anche se non ha immediata coscienza, un politico e la sua azione implica, necessariamente, un indirizzo, una scelta, e si trasferisce dal piano tecnico a quello politico. […] a mano a mano che si passa dalle forme classiche dell’economia capitalistica e borghese a forme di transizione , ancora caotiche ed embrionali tra queste, e una nuova economia in formazione , avviene una separazione sempre più pronunciata del ceto tecnico e dirigente dalla vecchia classe dominante”.
Fenomeno già chiaramente percepito, nel 1932, dal prof. G. D. H. Cole della Oxford University, di cui Valeri riporta alcune dichiarazioni: “[…] Il declinare dell’azionista, come attivo fattore dell’impresa, tende a creare la funzione del dirigente industriale e dell’amministratore. […] I dirigenti industriali sono oggi meno interamente al servizio degli azionisti e più a quelli dell’industria di quanto non lo fossero nella precedente generazione. […] la produzione sotto controllo statale, lo sviluppo di una economia a piani multipli, la convivenza delle imprese private e delle imprese collettive. Questo tende a conferire ai dirigenti un punto di vista più liberale ed umano circa i problemi dell’industria; diminuisce in loro la sensazione di essere in conflitto con i lavoratori, nella loro veste di rappresentanti del denaro, e favorisce in essi lo sviluppo di un codice professionale e di pubblica utilità. […] Il potere dei dirigenti industriali è grandemente aumentato. Ad una maggiore autorità si accompagna, in una certa proporzione, un più vivo e distinto senso di responsabilità. Perché non vi può essere responsabilità senza potere”.
Antonio Valeri, dopo aver citato Cole, riprende il proprio diretto commento all’opera di Burnham: “[…] L’idea di un governo dei tecnici (e si parla qui di tecnici nel senso ristretto, sacerdotale del termine, e cioè ingegneri, chimici, architetti) non è affatto nuova. […] Al mito palingenetico della rivoluzione proletaria essa oppone il mito ermeneutico della casta, arbitra delle fonti d’energia. Nel 1932 la dottrina era ancora informe […] non c’era ancora il passaggio sempre più deciso della produzione sotto il controllo statale, lo sviluppo di una economia a piani multipli, la convivenza delle imprese private e delle imprese collettive”. Siamo nel giugno 1946 e Valeri ritiene che l’Urss descritta da Burnham sia “un momento, una fase, di un processo storico che potrà durare a lungo (ed infatti sarà così, NdR)”. Ed ancora Valeri con straordinaria attualità: “[…] Senza democrazia, senza libertà, la formazione di caste e le deviazioni dal programma originario sono sempre possibili sia nel senso di un capitalismo di Stato manovrato da un brain-trust, sia nel senso di una oligarchia di iniziati” (Valeri 1946, 194-196).
Certamente il contributo di Burnham si muove nella contingenza dei primi anni Quaranta. E, partendo da tale preliminare constatazione, George Orwell, scrivendo per la rivista “Polemic”, maggio 1946, n. 3, Second thoughts on James Burnham, definisce la rivoluzione manageriale di Burnham “una interpretazione di ciò che sta accadendo” (medesima affermazione – già citata – di Dagnino, nel 1933, il quale – nella tecnocrazia – scorge “un valore di sintomo, una parziale espressione di tendenze”).
George Orwell sottolinea tre aspetti: 1) crescita della nuova classe manageriale di scienziati, tecnici ed alta burocrazia; 2) debolezza del proletariato verso lo Stato centralizzato; 3) decadenza delle istituzioni rappresentative. Infatti, è diversa la posizione di partenza – nell’esaminare il libro di Burnham – tra Sweezy ed Orwell. Come è noto, l’autore di Omaggio alla Catalogna proviene da profonde radici antitolitarie. Invece Sweezy si attarda in funamboleschi distinguo tra Lenin e Stalin.
La rivoluzione manageriale di James Burnham ha una prima traduzione italiana nel 1946, presso le edizioni A. Mondadori, con il titolo La rivoluzione dei tecnici.
Dalle colonne della rivista “Comunità” del 1946 (lo Statuto dell’omonimo movimento politico risale al 1947 e, dal luglio 1949, segretario del Comitato Centrale delle Comunità è Renzo Zorzi) i comunitari-socialisti Adriano Olivetti, Franco Lombardi4 ed Umberto Serafini prestano attenzione alle riflessioni di Burnham, il quale esprime preoccupazioni per la sopravvivenza della libertà, anche nell’età di Roosevelt, di fronte all’avanzata dei managerialismi. Infatti, Burnham interpreta il New Deal come tentativo di imprimere alcune correzioni senza intaccare l’essenza del capitalismo. Nel 1934 indirizza Una lettera aperta agli intellettuali americani. Si parla del “labile trucco rooseveltiano di evadere l’inesorabile sviluppo dei principali avvenimenti economici e politici sotto il capitalismo” (citata da Schlesinger jr. 1965, 176-181).
Nel primo mandato presidenziale rooseveltiano, aprile 1933, si concretizzano le TVA communities (definite anche “laboratorio della nazione”), ma dietro c’è una solida azione legislativa (Katznelson 2013). Infatti, il Banking Act del marzo 1933, più noto come Glass-Steagall Act (prende nome dal senatore democratico della Virginia Carter Glass e dal deputato democratico dell’Alabama Henry Bascom Steagall) introduce una netta separazione tra operazioni bancarie tradizionali di deposito e quelle di credito commerciale-investiment banking-assicurativo. Il Glass-Steagall Act5 (Schlesinger jr. 1963, 5-10) viene cassato in età contemporanea.
La riprova che Burnham non scinde le “tendenze” tecnocratiche dalle questioni più propriamente politiche proviene da un suo precedente volume (ed. or. 1943) tradotto in italiano con il titolo I difensori della libertà (presso A. Mondadori, Milano, 1947). In questo caso l’A. si ispira alla tradizione di Machiavelli e offre una riflessione sulle “leggi” che governano l’attività politica distinguendo tra tendenze democratiche e tendenze aristocratiche (Michels, Sorel, Mosca, Pareto). Burnham, probabilmente con tipico ottimismo nord-americano, afferma: “Poiché noi tutti siamo stati educati negli Stati Uniti con formule democratiche, e i vantaggi di queste tendenze ci sono familiari, non abbiamo bisogno di esposizioni al riguardo” (1947, 112).
La riscoperta di Machiavelli, da parte di Burnham, risale al 1943, medesimo anno del saggio di Simone Weil (2012) su i partiti. Pertanto, ci sono molteplici motivi per suscitare l’attenzione verso Burnham di taluni esponenti del Movimento Comunità, almeno il gruppo dei comunitari-socialisti guidati dal federalista Umberto Serafini. Sono anni inquieti quelli tra il 1943 e il 1946. Stanno per rinascere, in libertà, movimenti e partiti. Paradossalmente già si parla di una presunta “crisi dei partiti”.
Nella rifondazione e nella trasparenza della politica, nella qualità della produzione legislativa del Parlamento, risiedono gli argini di difesa rispetto ad eventuali tentazioni “totalitarie” della managerial revolution. Nel settembre 1946 Adriano Olivetti, riprendendo alcune considerazioni di Carlo Rosselli, scrive: “[…] Se la democrazia politica è invecchiata occorre ritrovare, ad ogni costo, quel pluralismo delle fonti di potere che caratterizzano, in Gran Bretagna, il Labour Party la cui forza segreta risiede nella sua caratteristica di essere una complessa integrazione di forze politiche, sindacali ed organismi cooperativi, malgrado l’effettivo riscontro (nella struttura interna dei partiti socialisti europei) di tale pluralismo funzionale sia minimo”. Merito dei comunitari-socialisti (Barbalace 2013) é riscoprire, recuperare, una cultura europea sovranazionale dei partiti e di quelli socialisti in particolare. Quindi, sempre Olivetti, settembre 1946, “dichiararsi revisionisti del marxismo, dichiarandosi socialisti-umanisti, significa per noi dichiarasi socialisti-cristiani” (1946).
3 – Interpretazioni del pensiero di Burnham
Nell’immediato secondo dopoguerra, Burnham è più che mai al centro dell’attenzione. Non soltanto in Italia. Nell’agosto 1947 la “Critica Sociale” pubblica una sintesi della prefazione di Leon Blum all’edizione francese de La rivoluzione manageriale (citata da “Critica Sociale” 1947, 285-288).
Il quindicinale fondato da Filippo Turati così introduce Burnham: “[…] La rivoluzione che già si sta compiendo sotto i nostri occhi significa, per Burnham, il predominio quasi sempre autocratico, talvolta dittatoriale, di un nuovo clan di “dirigenti”, di tecnici, di dominatori della produzione, di effettivi detentori delle leve di comando. Si capisce, quindi, come da certi strati qualificati della borghesia intellettuale, dai ceti medi qualificati, degli idolatri della tecnocrazia, la tesi Burnham sia stata accolta con un entusiasmo che celava un sospiro di sollievo. Essa offriva, apparentemente, una diversa soluzione che non una alternativa capitalismo – socialismo, presentava il mito di una “ terza via” che ammetteva e, anzi, consolidava posizioni di comando e privilegio. Sarà, quindi, gradito ai nostri lettori conoscere la acuta e costruttiva critica da un punto di vista socialista […]”.
Leon Blum precisa di avere un debito intellettuale verso Burnham perchè gli consente di non appiattirsi in una scontata quotidianità: “[…] Per trasformare il regime tecnicistico di Burnham in regime socialista è necessario e sufficiente introdurvi la democrazia. ( ….) L immaginazione intellettuale di Burnham è così ricca, il suo giudizio così originale, che il dialogo che si inizia con lui sembra inesauribile. Per parte mia, gli esprimo qui la mia gratitudine più sincera perché mi ha indotto a fare la riprova scrupolosa di un certo numero di idee, con le quali vivevo così familiarmente, e che da tanti anni non mi si presentavano più sotto l’aspetto critico” (1948, 19-20).
Nel 1949 – con una declinazione di Burnham in chiave di “corporativismo programmatico”6 ed integrato con il ruolo della tecnica (tesi sostenuta da taluni intellettuali fascisti in due convegni, presso l’Università di Pisa, novembre 1942 e aprile 1943) Camillo Pellizzi – sorvolando sulla dittatura fascista ed invece partendo dal “fallimento dell’esperienza corporativa, soluzione veramente rivoluzionaria” – dedica un capitolo a Burnham distinguendo tra managers tecnici e politici: “[…] un regime in cui il Governo potesse governare senza troppi impacci elettorali e parlamentari per attuare una maggiore giustizia sociale e, in pari tempo, decentrare le funzioni dello Stato e ridare il massimo giuoco all’iniziativa privata, avrebbe avuto bisogno di fondare la propria autorità e la scelta delle proprie gerarchie su qualche principio: questo principio pareva che venisse fornito senz’altro dal concetto della gerarchia delle competenze nelle funzioni della vita pubblica”. Pellizzi preferisce le scorciatoie e, al posto degli “impacci elettorali” e del principio di libertà, pone la “gerarchia delle competenze”7 (1949, 29).
Oltre Pellizzi anche Luigi Fontanelli (si autodefinisce, in una dedica autografa, “sindacalista solitario”) parla di “corporativismo programmatico”. Nel 1934, un anno dopo Tecnocrazia di Dagnino, intravede nei managers due profili: il “funzionario” del capitalista e il tecnico in senso stretto: “[…] Coi tecnici il nostro destino è intenderci. L’avvento dello Stato corporativo segnerà il trionfo della tecnica che sarà la base del nuovo ordine. […] Presto o tardi la decisione avverrà: i tecnici non saranno più i funzionari del capitalismo, ma i dirigenti, i capi del lavoro. Essi saranno riportati alla loro più schietta funzione, essi saranno finalmente liberi: in questo senso il processo rivoluzionario si identifica con un vero e proprio inveramento della funzione del tecnico nel nuovo ordine”8 (1934, 76-77).
Il problema di fondo, sollevato da Burnham, viene centrato dal comunitario-socialista Umberto Serafini9 il quale, a partire dal marzo 1950, fa parte della Direzione Politica Esecutiva del Movimento Comunità : “[…] Si vuole fare la rivoluzione dei tecnici, uccidere la democrazia – e, con essa, l’uomo – e sostituirvi la tecnocrazia? Per un movimento personalista come il nostro, non sarebbe un brillante risultato” (1982, 178-181). Meriterebbe un ulteriore approfondimento il gruppo dei comunitari-socialisti.
In merito alla “rivoluzione dei tecnici” una concreta risposta operativa proviene dal Movimento Comunità, dando vita all’Istituto Italiano per i Centri Comunitari.
Il programma è racchiuso nel “manifesto” lanciato dalla rivista “Comunità” nel settembre-ottobre 1950. L’Istituto “è aperto a tutti e in esso possono trovare il luogo più idoneo, per incontri e riunioni, magistrati e medici, architetti ed assistenti sociali, ingegnerei e tecnici sportivi, funzionari dell’amministrazione pubblica e privata, economisti, organizzatori di comunità di lavoro e giuristi, sociologi e politici puri”. I giovani, in particolare, “avranno a disposizione largo materiale di studio e possibilità di libero e consapevole orientamento”.
L’Istituto intende bandire ogni tentazione di regime tecnocratico ove la democrazia si dissolve e la persona umana va in frantumi: “[…] A nessuno oggi è lecito pensare che la società possa fare a meno della competenza tecnica e amministrativa. […] occorre provocare, su un terreno culturale, morale e anche fattivo, la rivoluzione degli stessi tecnici. La rivoluzione dei tecnici contro la tirannia della specializzazione, la rivoluzione dei burocrati contro ogni forma di centralismo, che crei divorzio fra cittadini e Stato, fra lavoratori ed azienda. La tecnica, le complesse organizzazioni burocratiche devono essere al servizio degli uomini. Il tecnico, il burocrate, tendono in molti casi a sottrarsi, chiusi nella loro particolare mansione, agli obblighi etico-politici che dovrebbero iniziare dalla considerazione attenta dei legami sociali e delle conseguenze umane dello specifico lavoro da essi disimpegnato. […] creazione di Centri Comunitari, Centri di azione sociale, operanti nel piccolo comune , nella borgata periferica di città o nel rione urbano, promuovere in queste unità urbanistiche una vita associata che , mentre si avvale di tutte le tecniche più progredite, sia anzitutto indirizzata alla più libera , felice e consapevole esplicazione della persona umana ” (1950, VII-VIII).
4 – International Plan Conferences (1934-1937)
Concetti come modernizzazione e progresso si prestano ad una multiforme lettura, specialmente nello “spirito degli anni Trenta”, e stanno a significare un modo di sentire, di vivere, di raffigurarsi ed immaginarsi la società. Ed ecco, in una sorta di atmosfera da “festa mobile”, parafrasando un noto romanzo di Ernest Hemingway, coinvolti Marcel Dèat, Henri de Man, Andrè Philip10, Emanuel Mounier, Angelo Tasca (Vacca-Bidussa 2014), Georges Valois11 (Salsano 1993, 571-624), Carlo Rosselli (Giacone-Vial 2011; Dilettoso 2013). Un coinvolgimento tra luci ed ombre. Sussiste un lato oscuro della modernità.
Come per Burnham così per il planismo (Rapone 1992) di Henri de Man molteplici declinazioni12 e ripercussioni che si allargano, insieme alle applicazioni del taylorismo, sino al Gosplan e alla “nuova classe” nell’Urss degli anni Trenta (d’altra parte, l’inchiesta Au pays du taylorisme di Henri de Man risale alla primavera-estate 1918).
Nei giorni 14-15-16 settembre 1934 si discute di “programmi socialisti per l’economia diretta” presso l’Abbazia di Pontigny (Salsano 1983, 247-277), a nord della Borgogna, alla prima International Plan Conference, organizzata dal Partito Operaio Belga (Pob), dai socialisti svizzeri e dai cosiddetti “neo–socialisti” francesi (M. Déat). Un socialismo non necessariamente marxista.
Sono anche presenti Carlo Rosselli ed Angelo Tasca (il 1934 è l’anno del Plan du Travail della Cgt). Quanti equivoci nel termine “programmi socialisti” e nell’accomunare Carlo Rosselli (Bechelloni 2001; Pasetti 2006), Dèat e Paul Marion in un “socialisme dynamicque e volontariste”! Non più la lentezza, l’inefficienza e l’incapacità dei partiti, ma soltanto “movimento”, per una generazione nuova, non irreggimentata che, con Dèat, perviene all’antiparlamentarismo.
Si ritiene sia Marcel Déat (1930), sociologo e filosofo, a suggerire Pontigny (peraltro già prima degli anni Trenta luogo di incontri estivi – su impulso di Paul Desjardins – di filosofi, scrittori ed artisti di tutto il mondo). Obiettivo primario: “[…] formazione di un vasto raggruppamento socialista riformista internazionale e rinnovamento del pensiero socialista in Europa”. Ma, proprio a Pontigny, settembre 1934, è Tasca a criticare le suggestioni corporative di Henri de Man perché rischiano di non avere in sé sufficienti difese antifasciste. L’ex-comunista Tasca intravede il lato oscuro di de Man, ovvero “la sparlamentarizzazione dello Stato, la burocrazia tout-court, la macchina corporativa ove l’operaio isolato ha perso tutti i diritti, ogni controllo, ogni potere”.
Nella delegazione francese il filosofo Paul Desjardins (assertore di una “international study week”) e Leon Jouhaux, leader della Cgt. Dalla Svizzera i sindacalisti del pubblico impiego. Fondamentale il brain-trust del “piano de Man”, ossia l’Istituto di studi sociali (Bureau d’Etudes Sociales) di Bruxelles.
È lo stesso de Man (già artefice, nel 1931, della Amsterdam World Social Economic Planning Conference) ad introdurre l’incontro di Pontigny del settembre 1934.
Problema di fondo è riflettere su come adattare il planismo ai diversi contesti internazionali: “[…] il Piano del Lavoro è una tavola di salvezza tesa alle classi non operaie. Non è un piano per la realizzazione del socialismo; è un piano per uscire dalla crisi con mezzi socialisti. Nemmeno è una tavola di salvezza per il capitalismo, è uno sforzo per salvare quel che si può salvare dell’economia nazionale. In questo senso, l’ho già detto: noi socializziamo il meno possibile. Il piano è soltanto quel che è necessario per uscire dalla crisi e soltanto quel che si può ottenere con l’attuale maggioranza, maggioranza sociale, non politica, non fraintendete il mio pensiero. […] Il Piano del lavoro non è un articolo d’esportazione. […] esso si applica al Belgio e non è possibile trasferirlo, tale e quale, altrove” (intervista a de Man 1934, citata in Salsano 1983, 280-282).
Nel marzo-aprile 1935, in Belgio, debutta un gabinetto di coalizione (Pob e Partito sociale-cristiano o Roman catholics) che vede, al suo interno, come ministro, de Man, e l’emergere del giovane Paul-Henri Spaak non in linea con de Man.
Il pragmatismo delle politiche del New Deal riesce a smussare (anni 1933–1936) gli aspetti “più radicaleggianti” del planismo belga. Il delegato dell’Ilo (International Labour Office), Andrè Oltremare, richiama l’attenzione sull’importanza del coinvolgimento dei socialisti europei. La battaglia dei Fronti Popolari (Francia e Spagna), contro le “coalizioni reazionarie”, si gioca proprio su i ceti medi. E, in proposito, la strategia del Fronte Popolare dovrà identificarsi con una scelta esclusiva a favore della democrazia parlamentare e una strategia pragmatica dal punto di vista economico-sociale. Così Andrè Oltremare che prosegue precisando come il sistema economico sia da riformare, non da sconvolgere con un presunto “nuovo ordine” (siamo lontani da Nenni degli anni Trenta che proprio l’ex-comunista Angelo Tasca – e sembrerebbe un paradosso – mette in guardia rispetto al totalitarismo sovietico).
Dopo l’incontro di Pontigny del settembre 1934, si svolge un altro seminario, ma, a Ginevra, nell’aprile 1936. È presente una folta delegazione di laburisti inglesi (John Cripps, H. Gaitskell e G.D. Cole). Durante la conferenza di Ginevra viene creata la International Plan Commission, organismo incaricato di predisporre materiali di discussione ed informazioni prima e dopo le International Plan Conferences. I socialisti inglesi raccomandano, per i futuri incontri, la costituzione di piccole sottocommissioni composte da esperti dei diversi settori delle politiche di piano.
Dal 23 al 24 ottobre 1937 una nuova conferenza, a Pontigny, con la predominante partecipazione di socialisti francesi e belgi. Mancano sia tedeschi, sia italiani (così a Ginevra). Addirittura è assente de Man. Ritornano i socialisti austriaci. Il principale documento dell’ottobre 1937, The increase in consumer purchasing, fa comprendere come l’obiettivo principale delle forze socialiste riformiste europee sia quello di salvaguardare ed incrementare le capacità d’acquisto dei cittadini-consumatori (probabilmente i delegati intervenuti a Ginevra aggiornano il marginalismo economico di Walras e Jevons).
Albert Halasi, uno dei componenti il brain-trust del “piano de Man”, insiste su come, per realizzare il socialismo, occorra seguire una lenta evoluzione e una profonda trasformazione della “mentalità umana” (testuale). Albert Halasi sottolinea “la predominanza della concezione tecnocratica del piano de Man”, una “ tecnocrazia socialista nel settore economico-sociale”. Quindi, “tecniche socialiste” per trasformare, lentamente, la società anche prendendo spunto dalle politiche del New Deal perché negli Stati Uniti esistono sì corporations e trusts, ma la battaglia di Roosevelt non va considerata esaurita, ma ancora in evoluzione (Grandi 2012). Nel 1935 il Pob perviene ad un gabinetto di coalizione (come già accennato) con il Partito sociale–cristiano, presieduto da Paul van Zeeland, assertore di una via belga al New Deal.
Il socialismo italiano, negli anni 1930-1940 (Colorni, nel 1937, è responsabile del Centro socialista interno dopo l’arresto di Rodolfo Morandi), ma anche nell’immediato secondo dopoguerra, non sembra interessato ad avviare alcuna riflessione – almeno focalizzando gli aspetti esclusivamente tecnocratici – sulle International Plan Conferences (Rainer Horn 2001, 239–265). Certamente alla rimozione (o dannazione) della memoria storica delle International Plan Conferences contribuisce la confluenza dei “neo-socialisti” Déat, Marquet e Renaudel – dopo la loro espulsione dalla Sfio nel luglio 1933 – nel Partito Socialista di Francia-Unione J. Jaures.
Per i “neo-socialisti” la modernizzazione tecnocratica rispecchia una sintesi tra planismo e corporativismo, tra elitismo tecnocratico e “socialismo nazionale”.
Con l’occupazione nazista della Francia, ancor più grave la deriva, verso Vichy, di Dèat, Valois ed Henri de Man, abbagliati dalla presunta “collaborazione apolitica” e dalla sirena dello “stato sindacale”. Ovvero, senza sconfinare nel collettivismo, l’efficienza dei saperi professionali si sostituirà alla “incompetenza della politica”. Non più tentativi di maggiore democrazia industriale, anche sull’onda internazionale del “sistema Taylor”, ma Vichy, modernità totalitaria, cultura della delazione e della deportazione. Vichy alibi e rifugio per gli ex polytechniciens anticonformisti degli anni Trenta. Lo “stato sindacale” sedimentato ed irrigidito in tecnostrutture capaci di gestire l’autoritarismo del regime. Quindi, autarchia economica di Dèat, difesa dello “stato forte” di Marion e Parquet.
La tentazione della “autorità degli esperti” affascina – con tendenze e modalità diverse – altri paesi europei negli anni Trenta e Quaranta. Nuove forme di potere per i polytechniciens i quali realizzano autorapprentazione e legittimazione sociale sganciate dallo stato di diritto e dal “sistema-partiti”. Con Vichy il paradiso dello “stato tecnico” sembrerebbe raggiunto e concretizzato. In tale trappola cade anche Angelo Tasca. Non più lo Stato delle riforme, ma – citando J. Coutrot – il “potere terapeutico” degli esperti volto alla “creazione di un campo di concentramento, a carattere transitorio, in cui isolare temporaneamente coloro i quali non si è riusciti a convincere” (Gemelli 1997, 354-357).
Saranno i laburisti britannici, in particolare Harold Wilson, a dimostrare – tra il 1953 e il 1957 – maggiore attenzione ed apertura pragmatica nei confronti della programmazione economica, “riscoprendo gli aspetti produttivistici e tecnocratici del socialismo” (G. O’Hara 2014, 155-175). Sarebbe sorto, con Harold Wilson, ciò che Nicholas Ellison definisce “centro – sinistra tecnocratico”. Infatti , con l’elezione di Wilson alla guida del British Labour Party , “l’egemonia teorica del centro-sinistra tecnocratico avrebbe trovato una sua conferma anche sul terreno della politica”13 (Favretto 2003, 79 e 85-86).
Competenze e saperi professionali (1944-1950)
Gli articoli del periodico “Edificazione Socialista” (giornale dei professionisti, dei tecnici e degli impiegati), organo del Psiup e redazione a Milano, primo numero 5 luglio 1944, promosso da Rodolfo Morandi e con la direzione di Angelo Saraceno (fratello di Pasquale), anticipano la nascita dell’Istituto di Studi Socialisti e vorrebbero esprimere una sorta di “autoeducazione civile e politica” (Neri Serneri 1995, 313) dei “saperi professionali” attraverso lo sviluppo del loro associazionismo e l’approfondimento sulle potenzialità sociali delle loro competenze.
Anni dopo, Umberto Serafini pone, tra gli obiettivi del Movimento Comunità, il concetto pedagogico di “responsabilità sociale”. E qui Serafini auspica “la meccanica volontà di tutti” che si risolve o si dovrebbe risolvere nella “ideale volontà generale”. Vince l’ottimismo comunitario di Serafini, con taluni residui deterministici. Si potrebbe notare quasi una atmosfera di messianica attesa quando – nel già citato volume Adriano Olivetti e il Movimento di Comunità – Serafini afferma: “[…] i tecnici verranno alle considerazioni umane e politiche partendo dalla vita sociale secondo rapporti verificati nello spazio e il più piccolo di questi spazi, ove si svolge una prima rete di rapporti di vita associativa, che abbia un minimo di autonomia spirituale e materiale, è la comunità concreta” (1982).
Il problema dei ceti medi è ben presente nel movimento Giustizia e Libertà, fin dalla Concentrazione antifascista di Parigi. L’allora PCd’I suppone, per “non contaminarsi”, di delegare la rappresentanza dei ceti medi, a mo’ di balocco, al “piccolo-borghese” Carlo Rosselli relegando Gl nello “scomodo ruolo di rappresentante del radicalismo borghese” (Pipitone 2012, 268-269) e nel momento in cui l’Internazionale Comunista vara la teoria del “social-fascismo”.
“L’Edificazione Socialista”, partendo da classiche posizioni marxiste, dibatte almeno tre problemi di fondo : a) ceti medi; b) questione delle abitazioni; c) ruolo dei saperi professionali.
Con un taglio fortemente ideologizzato sembrerebbe assumere i contorni di una iniziale “scuola di partito” nella fase di emergenza del 1944-1945. Nel comitato di redazione “diverse anime inquiete” con storie personali e sensibilità culturali profondamente diverse: Rodolfo Morandi, Virgilio Dagnino, Lelio Basso, Angelo Saraceno (direttore), Ivan Matteo Lombardo, Antonio Valeri, Lodovico Targetti. Gli articoli non sono firmati né per esteso, né con sigle, a sottolineare una elaborazione collettiva.
Si prende atto che la previsione di Marx – circa la immancabile proletarizzazione dei ceti medi – non si sia attuata. Sembrerebbe – seppur tardiva – una tendenza di autocritica. Invece, contrordine. I ceti medi, almeno nel nostro Paese , “conservano, seppur logorati, anche se disorientati, anche se avviliti, una propria sociale esistenza che sarebbe stolto negare”. D’altra parte, la loro “apparente indipendenza” impedisce “l’identificazione” con il proletariato”. Permane la “categoria generale” di classe operaia la quale, come tale, avrebbe virtù salvifiche per tutti i segmenti sociali. Anche sulla “teoria del crollo” viene ignorata l’autocritica dell’ultimo Engels.
Con andamento contraddittorio, sempre nel primo numero di “L’Edificazione Socialista” (Neri Serneri 1988, 428-431), in apertura, si riconosce come “l’aspirazione piccolo borghese sia notevolmente diffusa in parecchie zone del proletariato italiano e non sarà oziosa una attenta considerazione dei fenomeni del gusto con particolare riguardo ai problemi dell’abitazione e dell’architettura”. Un modo molto indiretto, quasi contorto, quello di “L’Edificazione Socialista”, di andare alla questione delle abitazioni pur non addentrandosi, in modo sistematico, nelle tematiche dell’urbanistica funzionale.
L’auspicio, sia dal punto di vista tecnico, sia dal punto di vista sociale, è “attenersi, nelle nuove costruzioni, dopo le distruzioni belliche, a soluzioni rigidamente razionali che permetteranno vantaggiose soluzioni tecniche ed economiche, basate sulla applicazione, su vasta scala, di elementi unificati e prefabbricati”. Si discute persino di arredamento – e sembra una autentica novità perché se ci si attiene alla vulgata marxiana l’arredamento dovrebbe rientrare nelle aspirazioni tendenzialmente borghesi – affermando: “[…] fiorenti industrie di serie potranno fornire, a bassissimi costi, tutto il necessario per un moderno vivere civile ”.
Gusto, abitazioni, architettura, materiali da costruzione, gli argomenti dell’articolo Una questione di costume, 5 luglio 1944, e segnano una novità culturale nell’appena nato PSIUP. Seppur prendendo le distanze (anzi, neanche citandoli) dagli urban socialist (Stazzi 2014) a cavallo delle due guerre mondiali, l’articolo rilancia la “scuola del Bauhaus” (punta di diamante della Repubblica di Weimar in tema di innovazione del design e dell’architettura legati alla corrente razionalista-funzionalista, il cosiddetto “movimento moderno”). Si registra nuovo interesse per le potenzialità riformatrici del governo municipale.
Weimar, per il “collettivo” dei tecnici socialisti, probabilmente assume l’immagine di una romantica nostalgia “consiliare” (già Dagnino, sulla rivista “Pietre”, scrive due articoli su Rathenau), né sono rintracciabili riferimenti ai Congressi Internazioni di Architettura Moderna (CIAM) e, in particolare, gli enunciati programmatici della Carta di Atene (1933). Weimar come surrogato rivoluzionario dopo i soviet di Lenin.
Il gruppo redazionale della rivista “L’Edificazione Socialista” non dimostra alcun interesse a ricostruire la memoria storica delle ricerche sociologiche sugli impiegati tedeschi negli ultimi anni della Repubblica di Weimar. Eppure l’Istituto per la ricerca sociale di Weimar ha il merito di stabilire un “ponte” con le scienze sociali statunitensi degli anni Trenta.
Anzi, fin dal 1910–1911, la Sociologia degli impiegati di Emil Lederer (Salvati 1989, 8-9 e 14-23), consulente economico della SPD e del movimento sindacale socialista della Repubblica di Weimar, rappresenta il preludio alle successive monografie di scienze sociali, prevalentemente dedicate alle classi medie, tradotte e pubblicate a New York dalla Columbia University (anni 1937-1939).
Secondo Emil Lederer la “categoria” progresso – e non lotta di classe – aiuta ad intendere le caratteristiche dei ceti medi. Ma la rivista “L’Edificazione Socialista” appare refrattaria a tale riflessione. Eppure è sulla base della “categoria” di progresso che il socialista riformista-marginalista Giovanni Montemartini (Barbalace 1994) intravede e realizza, al Comune di Roma, fin dalla metà dell’età giolittiana, l’alleanza elettorale vincente con i ceti medi nel medesimo periodo dei primi studi di Lederer.
“L’Edificazione Socialista” auspica scuole d’architettura e di arti decorative (questa, peraltro, l’origine del “movimento Bauhaus”) al fine di elaborare “tipi unificati sia degli elementi strutturali per le costruzioni edili, sia elementi di arredamenti da proporre all’industria per la produzione in serie, che dovrebbero pure essere convenientemente finanziata in attesa che l’inevitabile nuovo orientamento del gusto pubblico, il buon senso, il bassissimo costo e l’utilità dell’oggetto, consentano il collocamento naturale di queste nuove produzioni”. Il riferimento al Bauhaus è telegrafico, senza riferimenti alle esperienze urbanistiche anglosassoni, statunitensi e scandinave.
La questione abitativa, alla quale accenna “L’Edificazione Socialista”, si traduce in maggior respiro urbanistico con il regionalismo di piano di Astengo, Piccinato ed Adriano Olivetti.
Infatti, nelle culture politiche della Resistenza (vedi la commissione Economica del Clnai) e della incipiente Ricostruzione, vanno registrati solidi contributi socialisti che optano per la priorità del “regionalismo di piano” concretamente verificando come sia possibile incidere nei meccanismi di mercato, ponendo argini alla rendita immobiliare ed attuando l’esproprio per pubblica utilità14 (Franzinelli-Giacone 2012, 273-281). Quindi, costruire adeguate alleanze politiche per rendere operativo tale obiettivo. Ad esempio, in Piemonte, fin dal 1944, il socialista Giovanni Astengo (anche sull’esempio del coevo Greater London Plan di Patrick L. Abercrombie) e, a Roma, il socialista Luigi Piccinato, il quale entra nella commissione Urbanistica varata dal Cln. La strepitosa avanzata del Psiup, nei due turni di elezioni amministrative del 1946, rimanda alla altrettanta clamorosa avanzata amministrativa del 1920, pur in un contesto storico differente, ma con le medesime lacerazioni interne del movimento socialista.
Astengo e Piccinato impostano la programmazione politica ed economica del territorio insieme a planners socialisti dell’Inu. La programmazione democratica trova un paradigma nel piano regolatore della Valle d’Aosta e del Canavese (1936-1937), coordinati da Adriano Olivetti e con il supporto di saperi professionali provenienti dall’“architettura funzionale” (da Piero Bottoni ad Ernesto N. Roger, da Gino Pollini a Luigi Piccinato).
L’urbanistica come sintesi di azione politica e veicolo di riforme sociali ed economiche le quali trovano saldatura nelle Regioni e nello Stato Federale delle Comunità. All’interno di una imprescindibile programmazione nazionale si muovono i diversi livelli di pianificazione territoriale.
Il “piano Astengo” del 1944 vuole essere una prima tappa. Tuttavia, vent’anni dopo, conduce i socialisti piemontesi al piano regionale del 1964 e al primo presidente socialista del Consiglio regionale, Paolo Vittorelli, già vicedirettore del giornale “L’Italia Socialista” (1947-1949), prosecuzione di “Italia Libera”, con Aldo Garosci , direttore, e Riccardo Musatti , caporedattore; anche Renzo Zorzi (Bricco 2014, 66 e 187-188) e Walter Binni scrivono sulle pagine del periodico che vede Dino Gentili15 (Luti 1988; Capisani 2013, 419-447) amministratore delegato della società editrice. Di fatto, “Italia Socialista” assume i contorni di una tribuna di autonomia socialista, europeismo, federalismo. Ecco un altro punto di riferimento per Olivetti. Non solo. Si discute di critica letteraria, poesia, teatro (Pipitone 2011, 113–166).
Recuperando la cultura socialista riformista della pianificazione (quanto mai fiorente nel socialismo europeo antecedente la seconda guerra mondiale) ed integrandola con l’influenza modernizzatrice proveniente dagli Stati Uniti, Olivetti va oltre il PSI “frontista” del 1948. La crescente lontananza politica di Olivetti dal PSI16 non viene recuperata – e, in tale direzione, Morandi17 e Nenni non dimostrano alcun interesse – neanche successivamente.
Con il 1948 le strade si separano. Il Movimento Comunità partecipa alla fondazione dell’Unione dei Socialisti “rimanendovi finché conservò una struttura federativa, allontanandosene, in seguito, come organismo collettivo, allorché l’Unione Socialista adottò una struttura centralizzata”. Comunque , il Mc dichiara “di appoggiare l’iniziativa attualmente in atto per unificare tutte le forze di democrazia socialista del Paese” (mozione approvata alla prima riunione del Comitato Centrale delle Comunità, a Milano, 10 luglio 1949). Si potranno anche deridere tali tentativi di unificazione socialista, si potranno anche ritenere patetiche illusioni. Eppure, nelle elezioni politiche del 1953, sarà questo pulviscolo di aggregazioni socialiste a far svanire il “modello Adenauer” di De Gasperi.
Verso una struttura federativa si orientano anche i costituenti socialisti Matteo Matteotti, Ignazio Silone, Mario Zagari e Walter Binni18 (2011), sostenendo la battaglia di “Iniziativa Socialista” e di “Europa Socialista”. Naufraga il progetto siloniano, febbraio 1947, di dar vita ad una area di dialogo PSI-PSLI. Medesima sorte per Ivan Matteo Lombardo con l’Unione dei Socialisti.
Nel novembre 1948 Adriano Olivetti è tra i firmatari, con Giuseppe Romita e Luigi Carmagnola, del Documento di unificazione socialista. Intanto, dal 4 all’8 dicembre 1949, a Firenze, prende forma il nuovo Partito socialista unitario (Pipitone 2014, 82-83 e 217-226), antica sigla del 1922, nel quale confluisce una variegata galassia riformista: Giuseppe Romita (non avendo aderito alla scissione di Palazzo Barberini, resta nel PSI di Basso precisando che il Fronte Popolare sia limitato nel tempo e con liste separate dai comunisti, ma è costretto ad uscire dal PSI dopo il maggio 1949), Faravelli e Ugo Guido Mondolfo, Matteo Matteotti, Giuliano Vassalli e Mario Zagari19, i sindacalisti Italo Viglianesi e Enzo Dalla Chiesa. Una formazione politica composita dalla vita estremamente breve, poco più di un anno.
Tuttavia, il Movimento Comunità “constata che il PSU di Giuseppe Romita non ha assunto la forma di organo federale dei gruppi politici che gli diedero vita e ricalca la struttura centralizzata e tradizionale di partito verso la quale, non da oggi, il MC ha espresso le sue ragionate riserve. […] tenendo conto che la grande maggioranza degli iscritti al MC non milita in alcun partito politico […] in vista della profonda azione meta politica in cui viene articolando il suo programma, il MC esprime, tuttavia, al PSU e, soprattutto, agli uomini che vi rappresentano la corrente di Unione dei Socialisti, la propria simpatia e l’apprezzamento degli scopi di rinnovamento della struttura politico-sociale del Paese perseguiti dal PSU, con cui il MC si riconosce ideologicamente affine, e lascia liberi gli iscritti, come previsto nei Punti Programmatici del MC, di entrare a fare parte del nuovo partito” (dichiarazione della Direzione Politica Esecutiva del Mc, a Torino, 22 dicembre 1949 ).
Inoltre, nella medesima riunione, la Direzione Politica Esecutiva “si è trovata d’accordo nel considerare imperfetta la Legge proposta dal Governo per l’autonomia regionale e nel deplorare gli esperimenti di Statuti Speciali20 (Degl’Innocenti 2004), esperimenti che rischiano di compromettere l’unità della nazione Italiana mentre il MC ha sempre sostenuto una totale uniformità degli Statuti Regionali […] la DPE ha riconfermato la posizione chiaramente regionalista cui il MC non può rinunciare perché essa non é che una premessa per la realizzazione dello Statuto Federale delle Comunità”.
Istituto Nazionale di Urbanistica
Sia in qualità di tecnico socialista, designato ufficialmente dal Psiup, all’interno della seconda sottocommissione (Enti Locali) della Commissione dei 75, sia collaborando con l’Istituto di studi socialisti, sia sostenendo l’“unificazione di tutte le forze di democrazia socialista del Paese” (e, quindi, dopo il 1948, politicamente riconoscendosi nel Psu di Giuseppe Romita), Adriano Olivetti caratterizza il Movimento Comunità su tre elementi: a) Stato Federale delle comunità e competenze a-simmetriche tra Senato e Camera dei Deputati; attuazione dell’Ente Regione; urbanistica e programmazione nazionale.
Nell’Istituto nazionale di urbanistica Olivetti realizza la propria “uscita di sicurezza” dal frontismo e rafforza la pragmatica applicazione di alcuni presupposti del socialismo riformista europeo rispetto al planismo. Quindi, un “laboratorio di riforme” ove Olivetti e i planners socialisti anticipano la stagione del centro-sinistra organico varando il Codice dell’Urbanistica per “una programmazione nazionale a lungo termine” (in occasione del VII congresso nazionale Inu del 16-18 dicembre 1960). Certamente l’Inu non ha poteri legislativi, ma propositivi, di consulenza urbanistica per la stesura di provvedimenti legislativi. L’impegno politico della programmazione nazionale e l’azione dei poteri pubblici, con un complesso di obiettivi e strumenti, sono da tempo nella strategia dell’Inu (basterebbe consultare i congressi nazionali Inu e rileggere le biografie di Piccinato ed Astengo).
Nell’aprile 1946 l’articolo Urbanistica e società di Riccardo Musatti rappresenta l’unico intervento che, sull’argomento, si riesce a rintracciare su “Socialismo” (rivista di mensile di cultura politica) in tutto l’arco temporale 1945-1949. I primi tre numeri con la direzione di Giuseppe Saragat. Poi, dopo la scissione di Palazzo Barberini, subentra Rodolfo Morandi e il sottotitolo si tramuta in “rassegna marxista”.
L’“urbanistica organica” (una precisa realtà, da tempo, nei paesi anglosassoni, in analogia ai principii architettonici teorizzati da Wright, Gropius e Neutra) trova udienza, probabilmente per la prima volta, nel mensile ufficiale del Psi, grazie a Riccardo Musatti (si occupa del settore pubblicità nell’azienda di Adriano Olivetti, succedendo a Leonardo Sinisgalli). E, in bibliografia, i principali interventi di Mumford. Si parla di Richard Neutra, architetto di origine austriaca ed esule negli Stati Uniti, presidente del Consiglio urbanistico della California, il quale riesce a far costruire, per gli operai dei cantieri navali di Los Angeles, “splendidi e ridenti residenze in collina”. In Gran Bretagna il progetto del Consiglio municipale di Londra prevede il coordinamento dei quartieri in base alle esigenze dei singoli gruppi sociali. Almeno per un attimo Riccardo Musatti sintonizza la rivista “Socialismo” sulla lunghezza d’onda della Carta di Atene, ma restano da colmare le miopie del Psi verso le politiche pubbliche dei socialdemocratici svedesi (vedi Gunner Myrdal) e il Welfare State dei laburisti inglesi (Stazzi 2012, 1-13) peraltro in continuità con il liberale William Beveridge.
A decorrere dal 1949 Olivetti assume la direzione della rivista “Urbanistica” (dopo il liberal-progressista Leone Cattani) e, dal 1950, la presidenza dell’Inu. Con Astengo e Piccinato, Giuseppe Samonà ed altri reformers, Olivetti proietta politica di piano e riforme di struttura nell’ambito di una precisa strategia del governo del territorio che ha, come sfondo primario, la “città-Regione” di Geddes e Mumford.
Nel 1949 visita l’Italia una delegazione della Town and Country Planning Association. È l’anno del piano INA-Casa, tradizionalmente noto come “piano Fanfani”, ma in esso confluisce un frastagliato tessuto di culture economiche e politiche. Nella commissione tecnica-consultiva siedono Adriano Olivetti, Adalberto Libera, Pier Luigi Nervi. Nei confronti del piano INA-Casa permangono considerevoli perplessità espresse dall’Inu e da Giovanni Astengo che denunciano la latitanza dell’intervento pubblico rispetto alla inesistenza di programmazione nazionale e al mancato conferimento di competenze legislative all’Ente Regione in materia urbanistica. Il piano INA-Casa (Barbalace 2012, 247-267) è l’occasione per sperimentare nuove tipologie insediative, le “unità di vicinato”, per ceti sociali medi. La rivista “Metron-Architettura” (finanziata da Olivetti e coordinata da Riccardo Musatti) diviene la principale officina di dibattito sull’urbanistica italiana dell’immediato secondo dopoguerra.
Riforme e “classi lavoratrici”
Una propria dimensione acquistano gli articoli di “Critica Sociale” del settembre-dicembre 1945. Al centro della discussione i ceti sociali e le strutture produttive del Paese. Siamo alla vigilia dell’assise nazionale del Psiup, 11-16 aprile 1946 a Firenze.
Su “Critica Sociale” si registrano quattro interventi di Virgilio Dagnino, prefigurando consigli regionali dell’economia e consorzi regionali industriali. Quindi, Alessandro Schiavi (riforma agraria), Luigi Preti (socialismo e classe impiegatizia), Roberto Tremelloni (politica industriale), Rinaldo Rigola (rapporti capitale–lavoro), Emilio Canevari (riforma agraria). Nel dicembre 1945 ancora Virgilio Dagnino (socializzazione).
Vanno segnalate – a sottolineare le culture (al plurale) del socialismo italiano – le considerazioni del giovanissimo e futuro costituente Luigi Preti, tra i maggiori protagonisti, con Lami Starnuti, del dibattito su gli Enti Locali all’interno della Commissione dei 75. Le soglie di frattura, che portano a Palazzo Barberini, sono già evidenti – fin troppo evidenti – negli interventi degli esponenti del Psiup facenti parte della seconda sottocommissione.
Scrive Luigi Preti nel settembre 1945: “[…] Il socialismo può vincere democraticamente la sua battaglia di domani solo se saprà riunire tutte le forze lavoratrici sotto una unica bandiera. […] far schierare, concretamente, accanto agli operai e ai contadini, i ceti impiegatizi, e cioè quel proletariato intellettuale che fino ad ora gli è quasi sempre sfuggito. […] dobbiamo attenderci di vedere, in questo travagliato dopoguerra, estendersi e potenziarsi il movimento socialista mercé l’apporto ad esso dato dai ceti impiegatizi i quali, dal punto di vista numerico, divengono giorno per giorno una forza sempre più imponente dato che l’organizzazione moderna della società porta ad un continuo aumento di impiegati amministrativi e tecnici, di fronte ad una diminuzione relativa della mano d’opera industriale, dovuta al perfezionamento delle macchine […]”. La conclusione di Luigi Preti: “( …) La classe impiegatizia può dare al movimento socialista l’apporto quantitativo di una grande massa, ma quello anche di qualità ed energie, che alla classe operaia e contadina, ricca di energie e doti di altra natura, difettano: più vigile senso critico, maggiore abitudine di raziocinio, ecc. Il movimento socialista, giovandosi pertanto dell’apporto degli uni e degli altri, del proletariato intellettuale e del proletariato manuale, potrà raggiungere veramente quella maggiore maturità e pienezza di preparazione che sono le condizioni e i prodromi di vittoria” (1945, 31-32).
Nelle politiche sociali dell’immediato secondo dopoguerra , accanto all’INA-Casa, si muove l’Istituto autonomo case popolari presieduto dal socialista Alessandro Schiavi (senatore del Psdi), simbolo storico della Società Umanitaria di Milano e principale diffusore, in Italia, delle città-giardino di Ebezener Howard. Le politiche sociali acquistano centralità con i ministri socialisti (Stazzi 2011, 247-257) Gaetano Barbareschi e Giuseppe Romita (la commissione per la riforma della previdenza sociale è guidata da Ludovico D’Aragona). La presenza socialista nel “governo dei municipi”, con la significativa avanzata elettorale del Psiup nei due turni di amministrative del 1946, si concretizza “nell’applicazione politica” dell’urbanistica (e non soltanto per “ansia pianificatrice” o per accedere ai contributi economici del “piano Marshall”21).
Nell’aprile 1946, a Firenze, al congresso nazionale del primo Psiup, Angelo Saraceno illustra i presupposti della riforma industriale22 (in marzo, a Milano, convegno economico Psiup Alta Italia).
Angelo Saraceno è portavoce di un lavoro collettivo, proiezione dell’Istituto di studi socialista: “[…] la esigenza di un intervento programmatico dello Stato, in vista di obiettivi sociali precisi, non è più questione di impostazione dottrinaria fondata sulla contrapposizione di programmi socialisti e sistemi liberali, ma è, letteralmente, questione di vita di larghi strati della nostra popolazione. […] il partito socialista deve richiamare come motivo dominate della sua politica economica un’energica esigenza pianificatrice e sia pure intesa con le cautele di una gradualità imposta dalla disponibilità di adeguati ed efficienti strumenti organizzativi. […] La tesi del socialismo riformista è oggi sommersa nel vasto mare del semplice interventismo e, perso ogni mordente, si trova sul piano stesso di quegli indirizzi più progressivi della corrente liberale, anche se non del tutto ortodossi, i quali si sono fatti patrocinatori di piani di occupazione integrale e di assicurazione sociale. La tesi massimalista della rapida collettivizzazione di tutti i fattori produttivi pecca, a sua volta, di semplicismo ideologico, abbinato ad una conoscenza piuttosto ingenua della struttura economica e delle sottostanti forze e non può non lasciare perplessi anche i più arditi socialisti”.
Apparentemente Angelo Saraceno si tiene equidistante tra socialismo riformista e socialismo massimalista. Ed aggiunge: “[…] tre strumenti per il conseguimento di una riforma e di una politica industriale ispirata ai principi che qui abbiamo affermato: a) comitati industriali di settore; b) collettivizzazione limitata di settore attraverso forme di holdings pubbliche; c) Consigli di Gestione. […] collettivizzazione limitata a pochi settori industriali per i quali tale provvedimento è maturo politicamente e tecnicamente” (Saraceno 1946, 10-11 e 34).
In Piemonte, come già detto, Giovanni Astengo esprime – operando sul territorio – continuità di iniziativa socialista risalente al periodo precedente la seconda guerra mondiale. Nel 1946, vicesindaco di Torino, è il medico socialista Giulio Casalini, già fondatore della Lega dei comuni socialisti, nonché deputato socialista fino al 1926 (celebre una inchiesta parlamentare di Casalini, con innumerevoli dati statistici, sulla questione abitativa, di cui rimane una preziosa monografia allegata agli atti parlamentari). Molteplici coincidenze tra Astengo (Ciacci 2009, 64) ed Olivetti, un tandem affiatato per la ricollocazione internazionale della rivista “Urbanistica”, sempre più ancorata alla tradizione socialista riformista dei Paesi Scandinavi ed anglosassoni. E, su Olivetti, basterebbe ripercorrere le vicende dell’Unrra-Casas (di cui, nel 1947, è commissario e, nel 1959, vicepresidente). La piccola TVA del Mezzogiorno, con Ludovico Quaroni, coordinatore del piano regionale per la Basilicata, e Luigi Piccinato, per il piano regolatore generale di Matera.
Risale al maggio 1933 la TVA Act – una delle più originali esperienze dell’età di Roosevelt – che mobilita la partecipazione delle “comunità residenti” del Tennessee (ecco il parallelo, ovviamente in scala, con la “comunità concreta” del Canavese). La TVA diviene paradigma di sviluppo economico regionale e prefigura, da parte degli Stati Uniti, una continuità di applicazione alle politiche internazionali del secondo dopoguerra. Sono i concetti di modernizzazione del pensiero liberale statunitense degli anni Trenta e Quaranta (nella TVA evidenti presupposti tecnocratici che andrebbero approfonditi). Dapprima salda produzione e distribuzione pubblica di energia elettrica (il pensiero corre al programma Rifare l’Italia di Filippo Turati), progetti di decollo agricolo e bonifiche del territorio. Poi le sue competenze abbracciano programmi sociali e piani di occupazione. Con David Lilienthal viene aggiornata la “filosofia della TVA” (vedi il volume del 1944 TVA: Democracy on the march). Da qui le peculiari applicazioni della TVA in Italia e alle cosiddette “aree depresse ” tramite la Cassa per il Mezzogiorno (1950).
Nel giugno 1950 riprende le pubblicazioni la rivista “tecnica ed organizzazione” (fondata da Adriano Olivetti nel febbraio 1937) allacciando la prima serie alla seconda con maggiori approfondimenti verso le human relations, la scienza statistica applicata all’industria, l’assonanza o adattamento delle costruzioni industriali al paesaggio circostante, i congressi internazionali dell’organizzazione scientifica del lavoro e le ripercussioni dello scientific management in Italia, il fattore umano nella pubblicità (conoscenza, curiosità, interesse, persuasione), analisi dei mercati ed opinione pubblica. Nell’ottobre 1950, a Roma, la prima riunione della commissione consultiva del Centro nazionale di studi per l’organizzazione del lavoro (presidente Adriano Olivetti), sotto il patrocinio dell’Ente nazionale previdenza infortuni (Enpi).
Rispetto alle tematiche della prima serie della rivista “tecnica ed organizzazione”, le quali privilegiano macchinismo ed ingegneria meccanica, maggior respiro trovano “colore e luce nell’officina e il giardino nell’industria […] le necessità della disposizione planimetrica di una costruzione sono, a loro volta, condizionate non dalle sole funzioni interne, ma da collegamenti esterni con altre attività, con l’ambiente ed il territorio circostante dal quale traggono vita e nel quale devono vivere , e faremmo torto all’elemento più importante di questo insieme se non riconoscessimo al centro di tutta questa organizzazione quell’elemento costante e decisivo che é l’uomo ”. Alla macchina, che produce gli oggetti per la nostra vita quotidiana, si aggiungono elementi ed attività complementari: l’architettura e l’urbanistica “con tutte le relazioni che esse comportano e cristallizzano, in forme concrete, l’organizzazione generale della produzione”23 (Peressutti 1950, 22-24).
Olivetti e l’Istituto di Studi Socialisti
Nel progetto olivettiano di disegno istituzionale, il tratto distintivo di fondo è la “comunità” (oppure “comunità concreta”). Si vuole indicare un organo di autogoverno e di rappresentanza, su base territoriale, e – contemporaneamente – espressione dell’“esigenza di umana spiritualità”. Un sentimento etico. In altri termini, “socialisti umanisti” (così Olivetti nel settembre 1946).
Nel Psi nessun seguito trovano la proposta comunitaria e il federalismo di Olivetti. Invece, tutta l’attenzione sembra rivolta a realizzare i consigli di gestione. Tuttavia, già allora, sembrerebbero emerse – a proposito di Burnham e dei consigli di gestione – “dissonanze” nell’area morandiana almeno in base a postume dichiarazioni di Angelo Saraceno il quale dichiara: Morandi “portò a forzare la mia cultura economica”24 (Cavazza Rossi 1994, 83-98). Sarebbe auspicabile un confronto con gli eventuali verbali delle riunioni dell’Istituto di studi socialisti.
Suo malgrado Olivetti resta fuori25 dalla nascita del Psiup, nel convegno clandestino romano (Barbalace 2011, 116) del 22-25 agosto 1943, e dalla fondazione del Movimento federalista europeo, 27-28 agosto 1943, a Milano. Nella fase dell’esilio di Olivetti in Svizzera, la fabbrica di macchine da scrivere (Gerbi 2013; Gallino 2014) ha una reggenza provvisoria con alcuni managers vicini alla proprietà.
L’agnosticismo di Nenni verso il federalismo è confermato da Altiero Spinelli (agnosticismo che permane anche nel primo centro-sinistra organico e la mobilitazione del Psi per l’attuazione delle Regioni non è agganciata al Senato delle Regioni). Agnosticismo non solo di Nenni, ma di tutto il gruppo dirigente del Psi. Anche vivaci confronti tra Sandro Pertini (Gerbi 2012, 173-175 e 253-255) ed Eugenio Colorni (ucciso, a Roma, in un agguato dalla banda Koch, domenica 28 maggio 1944, e così per Bruno Buozzi eliminato il 4 giugno alla Storta – Giustiniana). Nel brevissimo arco di tempo che intercorre tra la liberazione di Altiero Spinelli dal confine di Ventotene, 18 agosto 1943, e la riunione di fondazione del Mfe, Colorni (in clandestinità a Roma dopo esser fuggito da Melfi) e Spinelli incontrano, ripetutamente, sia Nenni, sia Carlo Andreoni, senza, tuttavia, riuscire a spingere Nenni verso l’europeismo federalista e senza che Altiero Spinelli venga incoraggiato ad aderire al Psiup.
In una lettera del 1 dicembre 1944 ad Ernesto Rossi, così Spinelli chiarisce: “( …) Io ho avuto, una volta, un lungo colloquio con Nenni nel quale gli spiegai le mie idee. Nenni fu molto cortese e, in genere, assai blando ed incerto nel rispondere alle mie critiche. ( …) Mai si parlò di una mia adesione al PSIUP, né ad alcun altro partito. […] benché non lo conoscessi mi aveva fatto l’impressione di essere uno di quegli uomini che, nelle discussioni a due, son sempre deboli, ma solo perché, in fondo, non importa loro nulla di quel che l’altro dice. Sempre con Eugenio ho avuto un colloquio con Carlo Andreoni, una testa confusa, che senza comprendere molto di quel che dicevo, mi propose di scrivergli qualche articolo, per l’Avanti!, sul federalismo […]” (Graglia 2005, 878-880).
Alla vigilia dell’Assemblea Costituente Adriano Olivetti fa parte della Commissione Forti (studi attinenti la riorganizzazione dello Stato 1945–1946). Viene, testualmente, citato con la sigla politica di Psiup e la qualifica professionale di ingegnere ed industriale (unica presenza dei “saperi professionali” nella Commissione Forti). Quindi, a pieno titolo, Olivetti potrebbe essere designato alla Consulta Nazionale (organismo non a suffragio elettorale). Ma ciò non avviene. Le designazioni sono di pertinenza dei partiti dell’esarchia, ma anche delle organizzazioni professionali.
La partecipazione di Olivetti alle prime riunioni dell’Istituto di studi socialisti, presieduto da Rodolfo Morandi e diretto da Massimo Severo Giannini (Cadeddu 2009, 113-130), si rispecchia nella relazione Lo Stato democratico repubblicano, firmata da Giannini, e pubblicata dal “Bollettino dell’Istituto di Studi Socialisti” dell’11 aprile 1946 (nel paragrafo VIII dedicato agli Enti Locali). Relazione presentata – e non discussa – al congresso nazionale del Psiup di Firenze (11-16 aprile 1946).
Nella raccolta dei documenti ufficiali di quell’assise, la relazione Giannini – rispetto invece a quanto pubblicato, in precedenza, dal “Bollettino dell’Istituto di Studi Socialista” – viene amputata sia di quei pochi cenni al concetto di “comunità”, sia della parte inerente l’Ente Regione, sia di ogni riferimento all’urbanistica (Benetti 1976, 157-159). Tutto sembra essere rimandato alla seconda sottocommissione (Enti Locali) del Comitato dei 75 in sede di Assemblea Costituente.
La stesura originaria della relazione Giannini racchiude una labile traccia della progettazione politica di Olivetti in merito alle funzioni da attribuirsi all’ente primario, ovvero il comune: “[…] Sarebbe opportuno introdurre, anche in Italia, federazioni obbligatorie di comuni piccoli, spezzando le grandi aree metropolitane in federazioni di circoscrizioni minori. Circa il nome da attribuire a questi nuovi organismi è stato proposto quello di comunità: tuttavia, il nome ha scarsa importanza. […] Circa l’organizzazione delle comunità, si è del parere di lasciare loro libertà statutaria […] non può dubitar sui che sia necessario un organismo secondario tra esse e lo Stato. Tale organismo secondario non può essere la provincia […] È, quindi, necessario istituire un organismo di a carattere regionale. […] la Regione dovrebbe essere un organo dello Stato fornito di autogoverno” (Giannini 1946, 1-8).
La proposta “di introdurre il concetto di comunità” rappresenta l’unica concessione elargita ad Olivetti, ma, subito, ridimensionata. Quasi argomento superfluo: “[…] il nome ha scarsa importanza”. Invece, il concetto di comunità, in Olivetti, è strettamente legato al varo dell’Ente Regione, con poteri legislativi, e al Senato Federale delle Regioni26 (Cherubini 2000, 203-262). Al congresso nazionale socialista di Firenze, nessun dibattito sul federalismo politico. Ben altra cosa è la federazione di comuni (peraltro, in età giolittiana si ipotizzano, nella discussione parlamentare, consorzi di comuni). Così l’autonomia degli Enti Locali (autonomismo) rispetto al federalismo.
Con il ritorno di Nenni e Morandi alla guida del Psi, si vieta agli iscritti di far parte del Movimento federalista europeo e, quindi, de profundis anche per il socialismo federalista di Eugenio Colorni27 (Graglia 2005, 861-891). Sostanzialmente Nenni-Morandi non si diversificano, sul federalismo, dalle posizioni del Pci (espresse dal V congresso nazionale e richiamate da Ruggero Grieco con due interventi su “Rinascita” del marzo 1946 e del luglio 1946). All’Assemblea Costituente Nenni, Togliatti e Renzo Laconi (principale esperto per le questioni regionali) ripetono lo slogan: le Regioni potrebbero porre in pericolo l’unità nazionale (D’Atena 2014, 491).
Il federalismo di Olivetti si proietta nel volume L’Ordine politico delle comunità, che aspira a collocarsi come vero e proprio disegno politico-istituzionale (Ristuccia 2009). Tra il settembre 1945 e il giugno del 1946 prima e seconda edizione a stampa, ma è opportuno riandare (Cadeddu 2004) alle prime bozze olivettiane del 1942. Tre caratteristiche: Senato Federale delle Regioni, Camera dei Deputati con competenze di legislazione ordinaria, sensibile riduzione del numero dei parlamentari.
Con una riflessione su i primi programmi politici dei partiti del Cln prende avvio il volume Tecnica delle riforme (dicembre 1950) di Adriano Olivetti: “[…] la strada per realizzare socialismo e democrazia e libertà rimaneva ancora oscura o densa di pericoli”. In quella “fine tormentata” del 1942, aggiunge Olivetti, “mi sembrò, quindi, che il metodo più adatto a formulare delle soluzioni nuove alla crisi politica e alla crisi sociale potesse partire non già da un vasto e nebuloso programma teorico, ma da un esame circostanziato, da un esame sperimentale, ufficio per ufficio, casa per casa, persona per persona, in tutti quegli strumenti di vita associativa che l‘esperienza politica aveva consegnato al Paese: il Comune, la Provincia, i Sindacati, i Partiti, senza, peraltro, perder di vista la sorgente della ricchezza moderna: la fabbrica e la sua potenza. […] Perché non si unificava? Perché non si poteva creare una nuova unità? […] nasceva, così, empiricamente espressa, la prima idea, l’introduzione all’idea di una Comunità concreta” (Olivetti 1950, 9-12).
La “forma dei piani”, l’“urbanistica come funzione politica”, occupa un posto peculiare nel volume Tecnica delle riforme di Adriano Olivetti. Quindi, “considerare i cambiamenti che avvengono nell’economia […] i provvedimenti sociali dello Stato si attuano con una serie di operazioni edilizie (e, in proposito, un preciso riferimento di Olivetti va al piano Fanfani del 1949, NdR). Le cifre dei bilanci si trasformano, in gran parte, in terreno, mattoni, pietre, cemento, ferro, vetro. L’aumento di produzione industriale significa ampliamento di fabbriche o impianti di nuove unità di produzione. […] I piani di protezione sociale moderni presuppongono una rete di servizi (ospedali, cliniche, ambulatori, ecc.), ma essi, parimenti alle fabbriche, malamente si inseriscono nella vecchia città. Anche piani di incremento culturale, scuole di ogni tipo e grado, biblioteche, gallerie d’arte non trovano, nella maggioranza dei casi, né una ubicazione conveniente, e neppure lo spazio adeguato per consentire quelle soluzioni complete e moderne che allievi, docenti e studiosi urgentemente reclamano. E ciò vale per il Politecnico di Torino quanto per la scuola comunale di Montemurro in Lucania”.
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Biografia
Contenuti correlati
- Si ringraziano la Fondazione L. Sturzo e la Fondazione Basso. Altresì si ringrazia Carlo Andrea Stazzi, Scuola Normale Superiore (Visiting Scholar at Duke University). [↩]
- Le origini teoriche risalgono agli anni ottanta dell’Ottocento con l’American Society Mechanical Engineers (ASME) e F.W. Taylor. [↩]
- Nel gennaio 1946 la rivista “Interauto” così si esprime: “L’ora dei legulei e dei politicanti di professione deve tramontare: l’ora che nasce è quella dei tecnici”. Sembrerebbe una immagine scaturita dal movimento futurista. [↩]
- Franco Lombardi partecipa alla Resistenza Romana nel Psiup e, nell’estate 1945, coordina le collane editoriali del Centro di studi sociali, fondato, nella capitale, da Giuseppe Romita, con vicepresidente Olindo Vernocchi.
La nascita del Centro di studi sociali precede l’Istituto di Studi Socialisti di Morandi – Panzieri. Nel secondo dopoguerra Franco Lombardi insegna filosofia morale presso l’Università Roma – La Sapienza e, nel 1968, preside della Facoltà di Lettere e Filosofia. Nel medesimo ateneo, titolare di letteratura italiana, Walter Binni, già deputato del PSIUP all’Assemblea Costituente per il collegio elettorale Perugia-Terni-Rieti. [↩]
- Abrogato, nel novembre 1999, dal Congresso USA a maggioranza repubblicana durante il secondo mandato presidenziale di Clinton. [↩]
- Sin dal 1932 Ugo Spirito dedica un saggio all’“economia programmatica” e, nel 1935, si sofferma su Henri de Man. Nel dibattito corporativista, per tutti gli anni Trenta, frequenti riferimenti alle esperienze straniere di “pianificazione”: dalle politiche d’intervento pubblico, nel New Deal, al programma del Fronte Popolare, in Francia, e alla pianificazione sovietica. Una nutrita bibliografia sull’argomento in G. Melis (a cura), Fascismo e pianificazione. Il convegno sul piano economico (1942-1943), Roma, Fondazione U. Spirito, 1997, p.17, ma tutta l’introduzione pp.7-43.
In realtà due convegni presieduti da Camillo Pellizzi nella veste di presidente dell’Istituto nazionale di cultura fascista. Un ruolo fondamentale riveste il ferrarese Paolo Fortunati, professore universitario di statistica, politicamente protetto da Balbo, ed amico di Nello Quilici. Nel convegno del 1942 si distingue il giovanissimo Guido Carli (cfr. G. Melis, op. cit. p. 16 e p. 47). Pellizzi ritorna nel 1939 in Italia dopo una lunga carriera universitaria in Gran Bretagna. [↩]
- Nel cap. IV (politica-tecnica) Pellizzi cita Burnham quando, nel 1942, coordina la discussione finale sul tema del “piano economico”. Nel 1950 Pellizzi è titolare del primo insegnamento universitario di sociologia in Italia. [↩]
- Fontanelli, soreliano di Ferarra, protetto da Balbo e stretto collaboratore di Edmondo Rossoni; poi, nel giornale “Il lavoro fascista”. Nel 1932 membro del Consiglio nazionale delle corporazioni ed, infine, nella Rsi. In proposito così il commento del socialista Paolo Vittorelli: “[…] i giovani di Fontanelli erano caduti, quasi imberbi, nella trappola repubblichina e ingenuizzavano sul sindacalismo rivoluzionario”: cfr. A. Plateroti (a cura), La fondazione della UIL: i testimoni (interviste a Leo Valiani, Paolo Vittorelli e Francesco Novaretti), Roma, Edizioni OIKOS, 1989, p. 62.
Nell’estate 1949 Fontanelli dirige il foglio a stampa “Il lavoro italiano” pilotando un gruppo di “sindacalisti indipendenti” (tra cui Ruggero Ravenna) alla confluenza, un anno dopo, nella nascente UIL di Italo Viglianesi. [↩]
- Umberto Serafini, fin dagli anni Trenta, pioniere del federalismo europeo. Nel 1950 tra i promotori del Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa. Nel 1952 fonda il mensile “Comuni d’Europa”. Appartiene al “gruppo storico” del Movimento Comunità. Frequenta i principali teorici internazionali del federalismo. Nel 1953 alla Harvard University. [↩]
- Partecipa, con altri intellettuali, tra cui de Man, agli incontri di Davos (Svizzera) nel 1930. [↩]
- Georges Valois titolare della omonima casa editrice ove, nel 1930, trova spazio anche Socialismo liberale di Carlo Rosselli. [↩]
- Il planismo viene trasfigurato nel corporativismo e nel totalitarismo politico: cfr. U. Spirito, Il piano de Man e l’economia mista, Firenze, Sansoni, 1935, 5-17. In appendice, 21-41, il discorso di Henri de Man al Congresso del Natale 1933 del Partito operaio belga per illustrare lo spirito e l’origine del piano (traduzione e nota finale di Delio Cantimori). [↩]
- Nella metà degli anni Cinquanta il socialista Dino Gentili contribuisce a riaprire il dialogo tra PSI e British Labour Party attraverso la sua personale amicizia con N. Bevan. In tal modo, il British Labour Party invia, per la prima volta dopo la fine della guerra, una delegazione ufficiale al congresso nazionale Psi di Venezia (1957). Poi, l’incontro tra Nenni, Bevan e Mendès-France in Gran Bretagna (1959). Sono presenti anche Riccardo Lombardi e Jennie Bevan. In precedenza, Gentili organizza la visita di Pietro Nenni a Pechino (1955). [↩]
- Dopo la liquidazione del progetto Sullo giunge il ridimensionamento dello schema di legge Pieraccini. [↩]
- Gentili e Dagnino (entrambi candidati del Fronte Popolare nel 1948 senza, però, essere eletti) si impegnano nella Comet-Società per gli scambi commerciali. [↩]
- A mo’ di paradigma della generazione socialista degli anni Cinquanta, seguendo le vicende di un noto esponente del Psi, attraverso vari incarichi di partito, dalla Federazione giovanile socialista a segretario provinciale, quindi parlamentare e sottosegretario, cfr. Ciuffoletti 2013. [↩]
- Centrato sul secondo Psiup (1964) il volume di Agosti 2013. Nelle pagine introduttive una veloce ricostruzione della fase morandiana, sottolineando gli “schemi di marxismo-leninismo” di Morandi. Si citano i “giovani turchi” Giuliano Vassalli e Tullio Vecchietti saltando la loro appartenenza ad “Iniziativa Socialista” e senza riferimenti a Mario Zagari e Matteo Matteotti e all’Europa Federalista dei “giovani turchi” (cfr. Landuyt 2008). [↩]
- Dai primi anni Trenta B. frequenta, tra Perugia e Pisa, Aldo Capitini. Alla Scuola Normale di Pisa trova un crogiuolo di attività antifascista. Nel 1944 si collega con Mario Zagari ed “Iniziativa socialista per l’unità europea”. Nelle amministrative del 1946 consigliere comunale di Perugia come pure la consorte. [↩]
- Zagari (voti 5..252) subentra – per rinuncia del primo degli eletti Psiup nella circoscrizione Roma-Viterbo-Latina-Fosinone, ovvero Giuseppe Alberti (voti 5.471) – all’Assemblea Costituente. Alberti esercita la professione di medico, a Viterbo, ed è libero docente in Storia della medicina presso l’Università degli Studi di Firenze. Alberti aderisce, nel 1919, alla Federazione giovanile socialista italiana. Nel 1921 redattore di “Avanguardia Socialista” con Silone. A partire dal 1948 senatore del PSI nel collegio elettorale di Viterbo. [↩]
- Nel dibattito sull’Ente Regione i costituenti si trovano dinnanzi due fatti compiuti: il disegno di legge 7 settembre 1945, n. 545 (Valle d’Aosta) e il regio decreto 15 maggio 1946, n. 445 (Sicilia). [↩]
- Roberto Tremelloni, ministro incaricato dell’attuazione del programma di cooperazione europea e dell’ordinamento per l’attribuzione degli aiuti economici all’Italia: cfr. Tremelloni 1958a, 65-88. [↩]
- Le relazioni integrali – riforma industriale (A. Saraceno), riforma agraria (A. Jacometti), riforma bancaria (V. Pizzorno), riforma della scuola (Franco Lombardi), riforma sanitaria (N. Perrotti), autonomie locali (E. Lami Starnuti) – sono pubblicate da “Socialismo” (rivista mensile di cultura socialista), dicembre 1945-gennaio 1946, n. 7. [↩]
- Nel 1938 l’ingegnere–poeta Leonardo Sinisgalli dirige l’ufficio pubblicità dell’azienda olivettiana. Già il Gar di Milano coinvolge i grafici Marcello Dudovich, Bruno Munari, Marcello Nizzoli e Giulio Cisari. [↩]
- Così testualmente Angelo Saraceno: “[…] mio fratello, Pasquale, più di me, si riconosceva nella Rivoluzione manageriale di Burnham. […] Burnham ci fece, allora, grande impressione. Oggi non condivido più le sue idee perché i manager pubblici si sono politicizzati. Allora pensavamo di poter esercitare una funzione obiettiva. L’esperienza ha, però, mostrato che una politicizzazione era inevitabile ” (p. 89). Sempre nella suddetta intervista, in merito ai Consigli di Gestione, Angelo Saraceno aggiunge: “[…] Rodolfo Morandi portò a forzare la mia cultura economica, eccessivamente liberale per il Partito Socialista, specie su taluni argomenti. Probabilmente, il problema risiedeva nella mia difficoltà a trasporre l’ideologia marxista che, accettavo in campo politico, anche in quello economico. Questioni sorsero sui Consigli di Gestione: al pari di mio fratello non riponevo molta fiducia nella capacità di tali organismi a risolvere le tensioni nella gestione delle imprese. Tuttavia, fui indotto – da Morandi – a sostenere la validità dei Consigli di Gestione quale modello di riferimento per introdurre una delega del potere di gestione dal basso. Era proprio questa idea che mi lasciava qualche perplessità: allora mi pareva, in qualche misura, più credibile la Rivoluzione manageriale proposta da Burnham” (p. 89). Eppure, in merito alla “grande impressione” che Burnham avrebbe avuto su Angelo Saraceno non si trovano riscontri su “L’Edificazione Socialista”. [↩]
- Tra 25 luglio e metà settembre 1943 Olivetti viene “neutralizzato” dal SIM, per i suoi precedenti rapporti, in Svizzera, con lo Special Operation Executive (SOE) e rinchiuso nel carcere romano di Regina Coeli. L’“eccessivo protagonismo” di Olivetti (incontra Maria José e Caviglia) interferisce con la riverniciatura politica di Badoglio e dei generali frondisti del 25 luglio. Al SOE sono collegati Sforza, Ugo La Malfa e Valiani. In Svizzera, Olivetti intrattiene cordiali rapporti con i principali leader antifascisti, tra cui Silone, Luigi Einaudi, Ernesto Rossi. [↩]
- Il socialismo toscano del 1945-1946 è un “laboratorio” di riforme istituzionali controtendenza. Infatti, Senato Federale delle Regioni ed effettivo decentramento regionale chiede Alessandro Levi. L’attuazione delle Regioni trova sponda in Edgardo Lami-Starnuti. Invece, una limitata incisività ai poteri legislativi delle Regioni caratterizza l’Assemblea Costituente. Permane la diffidenza di Nenni verso un regionalismo troppo accentuato. All’Assemblea Costituente, nei collegi elettorali della Toscana viene eletto, nel 1946, Matteo Matteotti. [↩]
- Ulteriori approfondimenti su Colorni nei tre convegni di studio realizzati dalla Fondazione F. Turati di Firenze (e agli altrettanti volumi nelle edizioni Lacaita). [↩]