Dalle bellezze naturali al paesaggio integrale Il contributo di Alberto Predieri al diritto ambientale

di Paolo Passaniti

Relazione presentata al seminario di studi La gestione dei beni culturali nel mosaico delle autonomie locali, Siena, 12 dicembre 2013.

Le bellezze di Stato

La legge 1497 del 1939 costituisce il perfezionamento delle prime tutele legislative dedicate alle bellezze naturali. Dalle premesse legislative e teoriche tra il 1909 e il 1912 (Piccioni 1999; Galasso 2007, 11; Ragusa 2011, 136 ss.) per arrivare alla svolta della legge Bottai, passando per la legge Croce del 1922 (Settis 2010, 169 ss.; Amorosino 2010, 10 ss.), la traiettoria si presta ad una rappresentazione grafica, nel segno dell’ampliamento del bello tutelato e tutelabile che ora tocca anche una bellezza complessiva, come quella di un bel territorio pur sempre riducibile ad unità estetica. Il discorso paesaggistico diventa dunque tutto un discorso di immagini che si allarga sino a ricomprendere un affaccio sulla natura, ma non di più.

Un paesaggio inteso dunque in termini di estensione visiva della bellezza, secondo un canone estetico che sviluppa il discorso giuridico alla base della legge Croce del 1922 (Passaniti 2011, 196-203), ricomprendendo bellezze individue e d’insieme. Le immagini naturali, riprese anche in lontananza, sfiorano l’idea di paesaggio nella tutela che copre anche le bellezze panoramiche1.

Una tutela fondata su un’amministrativizzazione completa, penetrante sotto il profilo degli effetti sul bene tutelato, ma, proprio in ragione di questi motivi, calibrata su singole bellezze per quanto sempre più estese, e non collegata in maniera stabile al territorio inteso come realtà storico-culturale. Non fu una legge fascista (Settis 2010, 167 ss.), se intendiamo per legge fascista una legge costruita sul piano concettuale per raggiungere una finalità ideologica ricollegabile alla dimensione fascista del diritto, o – sotto un diverso significato – una legge che propone un’idea fascista di bellezza. Fu una legge tuttavia figlia del suo tempo, ancorché concepita secondo il “metodo di Bottai” di apertura culturale senza guardare all’appartenenza politica degli esperti cooptati (Settis, 2010, 123 e 169), che inserì elementi di raffinata rigidità amministrativa nella persistente concezione elitaria delle bellezze naturali, come oggetto di tutela.

Nell’ottica del raccordo tra amministrazione centrale e periferica, la legge Bottai accentuò lo statualismo della legislazione previgente, creando le ‘bellezze di Stato’. Un sistema amministrativo che apriva e chiudeva ogni discorso di tutela in nome dello Stato, staccando la bellezza dalla sua connotazione territoriale sotto il duplice profilo dell’identità etnico-culturale e della pianificazione edilizia: proprio per l’indiscutibile merito di aver perfezionato la griglia normativa in materia di bellezze naturali, anche attraverso lo strumento dei piani paesistici previsti all’art. 5 su base facoltativa, emerge lo speculare demerito di aver enfatizzato la diversità dell’elemento paesaggistico rispetto a quello edilizio nella comprensione giuridica del territorio. Una diversità alla base del mancato raccordo con la legge urbanistica del 1942: “quasi che fosse possibile chiedere alle Soprintendenze di tutelare un paesaggio senza città, ai Comuni di gestire città senza paesaggio” (Settis 2013, 35).

Il territorio ai fini della pianificazione è considerato soltanto per la sua intrinseca bellezza. La definizione stessa di bellezza naturale orienta insomma l’individuazione delle ‘cose’ tutelabili, separandole da tutto il resto, costituito dall’ordinarietà paesaggistica, confinato nel limbo giuridico della materia edilizia e urbanistica, tra diritto privato e diritto amministrativo. Basta scostarsi dalla bellezza, per concepire uno sfruttamento del territorio eticamente ed esteticamente accettabile.

Il quadro costituzionale: il paesaggio nei principi fondamentali

La Costituzione non contiene alcun riferimento all’ambiente, e bilancia soprattutto il paesaggio nei principi fondamentali con l’urbanistica confinata tra le materie di competenza regionale ex art. 117 cost.. Salta insomma ogni comunicazione tra paesaggio e urbanistica, non ancora percepita come leva in grado di orientare il rapporto tra attività umane e natura. Oltretutto, la Costituzione prevede una robusta tutela del diritto di proprietà, sia pure riletto in chiave di funzione sociale, e dell’iniziativa economica dei privati. L’accostamento tra tutela del paesaggio e beni culturali lascia intendere una continuità con l’impianto legislativo fondato sin dalle origini sullo sviluppo binario della tutela dei beni culturali2 e delle bellezze naturali. L’identificazione del paesaggio ex art. 9 cost. e bellezze naturali diventa l’unico elemento per ragionare giuridicamente sull’ambiente: “l’espressione paesaggio è da ritenere utilizzata per indicare in modo comprensivo e generico la generalità di quei beni che la tradizione legislativa ha fatto oggetto di protezione particolare abbracciandoli sotto la denominazione – essa stessa di comodo – di bellezze naturali” (Sandulli 1967, 900).

L’inserimento della tutela del paesaggio tra i principi fondamentali della Carta costituzionale costituisce nell’immediato insomma più la conclusione della fase precedente che non l’inizio di una nuova. Sul piano dei contenuti l’art. 9 riprende in maniera letterale l’art. 150 /1 della Costituzione di Weimar3 (Predieri 1985, 713). Prima ancora del contenuto, nei lavori all’assemblea costituente (Ragusa 2011, 233 ss.) emerge la questione della collocazione nell’architettura costituzionale. Nello spirito dei proponenti Marchesi e Moro, la tutela del paesaggio trova il suo spazio naturale in quei principi fondamentali che dovrebbero costituire, secondo la felice immagine di Ruini, “il volto della Repubblica”. Il secondo comma dell’art. 9, inerente la tutela del paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione deve essere letto in rapporto al primo sulla promozione e sviluppo della cultura, della ricerca scientifica e tecnica, nel solco di quello che è stato definito “Stato di cultura” (Spagna Musso, 1961).

Sul piano dei valori, la soluzione costituzionale denota una sensibilità precoce per i temi ambientali. Con un certo grado di “preveggenza” (Desideri 2010, 63, si veda anche Merusi 1975), la tutela del paesaggio come principio fondamentale, già per i costituenti, implica un equilibrio tra attività umana e ambiente naturale. Si tratta tuttavia di un salto in avanti, visto che si considera come acquisito un concetto tutto da costruire, tenendo conto del quadro legislativo vigente e dei contenuti complessivi della carta costituzionale. Il paesaggio indicato nella Costituzione trova infatti riscontro nella legge Bottai sulle bellezze naturali, l’unica in grado di dare un senso giuridico immediato all’art. 9. Si tratta di due elementi normativi che si neutralizzano a vicenda. Se la legge ordinaria suggerisce l’interpretazione della norma costituzionale, questa, una volta riletta nell’ottica ristretta delle bellezze naturali, non valorizza gli spunti contenuti nell’impianto del 1939 rispetto all’adozione ministeriale di piani paesistici per le bellezze d’insieme e panoramiche.

La piena tutela costituzionale dell’ambiente, anche inteso nell’accezione più ristretta, non decolla immediatamente perché negli anni Cinquanta è in corso il dibattito sull’attuazione della Costituzione. L’attesa del regionalismo blocca ogni immediata prospettiva evolutiva. Il discorso giuridico appare fermo alla legge Bottai ‘costituzionalizzata’, oltretutto nei suoi contenuti definitori e non nelle potenzialità procedurali, mortificate appunto dalla Costituzione ‘inattuata’ nella dialettica Stato-regioni-comuni.

Il punto fermo è costituito da un paesaggio come visione estetica e memoria culturale, staccato dalla fisicità del territorio e più in generale dal contesto della natura. Una natura che non rientra nella previsione dell’art. 9 “in quanto tale”, così come “una pianta rara o un complesso di piante rare” potranno essere considerate nell’ambito di “un quadro paesistico degno di nota, ma mai in sé e per sé” (Sandulli 1967, 900).

L’identificazione è obbligata, o per meglio dire è percepita come obbligata, non tanto per quello che c’è o non c’è dentro l’art. 9, ma anche e soprattutto per il quadro costituzionale complessivo. Un quadro in cui la dimensione del territorio affiora con riferimento all’urbanistica, ricompresa tra quelle di competenza regionale, come segno di “una concezione primitiva [della materia] relegata agli interessi meramente locali” (Salvia, Teresi, 1998, 25). Una materia di chiara matrice legislativa, con un suo percorso storico che conduce alla legge del 17 agosto 1942, n. 1150 – nel segno di molti passaggi emergenziali, a cominciare dalla legge di Napoli del 1885 – ma poco coltivata dai giuristi se non come periferia del diritto amministrativo. Non sorprende quindi che sia stata considerata come “materia minore” dai costituenti (Salvia, Teresi, 1998, 8) .

Si verifica così una prima sfasatura tra la tutela statale del paesaggio, che nell’ipotesi più restrittiva coincide con le bellezze naturali, e l’urbanistica ferma alla legge del 1942. Sul significato della competenza statale si registrano le prime differenze interpretative, tra chi considera la collocazione della tutela paesaggistica nei principi fondamentali come un modo per rimandare ogni valutazione sulla competenza regionale e chi reputa quel dato come il segno della negazione di detta competenza (Cantucci 1953, 32).

Appare evidente come l’art. 9 costituisca l’esito di una mediazione elaborata da Lussu tra l’ipotesi dell’eliminazione della norma, secondo l’emendamento Clerici, e soprattutto tra i sostenitori della visione statualista in nome “di una visione unitaria degli interessi pubblici nella materia” (Lucifredi 1961, 20-21) e i fautori della linea regionalista. La tutela del paesaggio risente e rielabora le tensioni intorno alla via regionalista. Un bel paesaggio non può non essere allo stesso tempo statale e regionale, volto della nazione, ma anche identità locale nell’Italia dei tanti campanili. A prescindere dai suoi limiti tecnici, o forse proprio per questo, l’art. 9 diventa lo specchio civile del paese, un valore giuridico che indica una strada ideale, un modo di lettura di quella realtà su cui poco può incidere. Lo stesso discorso politico-culturale sugli effetti dell’urbanizzazione selvaggia è reso possibile da tutte le suggestioni che evoca un principio costituzionale più da pensare che da applicare.

La prima dialettica giuridica: Stato e comuni

Nell’attesa dell’attuazione dell’ordinamento regionale, l’unica dialettica possibile intorno ai nodi dell’urbanistica e del paesaggio è costituita dal rapporto Stato-Comune, o per meglio dire tra Sovrintendenza e Comune. È una dialettica sbilanciata, priva di un contraddittorio diretto. Se le norme del regolamento urbanistico coincidono con le decisioni della Sovrintendenza, evidentemente nulla quaestio. La Sovrintendenza potrà motivare l’accoglimento o il diniego dell’autorizzazione paesistica con il conforto delle previsioni urbanistiche, e viceversa il Comune potrà trovare nelle decisioni della Sovrintendenza una guida nella redazione dei regolamenti. Si tratta di convergenze logiche prive di ogni comunicazione giuridica. In caso di divergenza, prevale sempre – legge del 1939 alla mano – quanto deciso dalla Sovrintendenza, non solo quando questa rigetta istanze compatibili con il regolamento urbanistico, ma anche quando accoglie quelle in contrasto con detto regolamento4.

Il dialogo tra centro e periferia non avviene in maniera diretta sulla tutela delle bellezze naturali, ma sul (mancato) raccordo tra l’elemento paesistico e quello urbanistico. I comuni non sono certo incoraggiati ad un controllo occhiuto, visto che devono faticare non poco per affermare un loro punto di vista, diremmo oggi, ambientale nel campo dell’edilizia.

Negli anni del miracolo economico che in gran parte è anche boom edilizio, si delinea il concorso tra la potestà statale e quella comunale, per via tortuosa. E questa potestà comunale non è oggetto di un generoso regalo da parte della Repubblica che promuove le autonomie locali, ma è qualcosa che si ricava dal sistema, sulla base di un’esigenza di programmazione urbanistica sentita a livello locale, ma non troppo incoraggiata.

La giurisprudenza legittima una tutela comunale del panorama che passa attraverso il procedimento edilizio. Le Sezioni unite della Cassazione, nella sentenza n. 1710 del 14 maggio 19575, consolidano questo orientamento, delineando il concorso di due potestà: la violazione delle norme a difesa del panorama contenute nel regolamento edilizio configura – a differenza della violazione dei vincoli posti dalla legge del 1939 – un danno meritevole di risarcimento nei confronti del privato che lamenta la diminuzione del valore patrimoniale.

Fuori da precise norme previste da regolamenti edilizi, è da escludere che un Comune possa negare una licenza edilizia richiamando ragioni di interesse pubblico di rilevanza paesaggistica.

Si crea così una ben precisa distinzione tra la tutela statale delle bellezze naturali e quella comunale inerente la salvaguardia del panorama confinata sul terreno dell’edilizia, senza alcun margine di collegamento.

L’unico dialogo possibile tra Stato e comuni è costituito dalla Commissione provinciale per le bellezze naturali, che nell’impianto originario era presieduta dal delegato del ministro e comprendeva la presenza del Podestà. È un dialogo obbligato e predeterminato nella trama che vede l’amministrazione locale come difensore d’ufficio dell’iniziativa economica della comunità rispetto allo Stato tutore della bellezza.

La Commissione Franceschini

Dall’esito dei lavori della Commissione Franceschini (1966) emerge il collegamento inscindibile tra il paesaggio e l’ambiente naturale. In particolare, la dichiarazione XXXIX ridisegna la materia nel segno dei beni culturali ambientali che ricomprendono il paesaggio6. Si entra davvero in nuovo ordine concettuale che dovrebbe consegnare alla storia la concezione estetizzante del paesaggio (Cantucci 1980).

 La dichiarazione nella sua complessità contenutistica risente in maniera evidente di più linee di pensiero tra giuristi e urbanisti, ma anche del confronto interno tra più concezioni urbanistiche. Come evidenzia Massimo Severo Giannini, in quella dichiarazione si fronteggiano due posizioni: da una parte i sostenitori del presupposto dell’identificazione quale bene culturale del bene ambientale e i sostenitori di “una nozione aperta di bene ambientale” (Giannini 1973, pp.3-7). La questione riguardava infatti la tutela di beni paesaggistici non dichiarati tali ma aventi un ben conosciuto pregio.

La Commissione Franceschini sceglie la prima linea, ma in realtà avvia la soluzione del problema nella prospettiva del piano urbanistico. Già con la legge urbanistica ponte del 7 luglio 1967 n. 765 infatti diventa obbligatorio l’intervento delle soprintendenze nei procedimenti di formazione degli strumenti urbanistici, anche in assenza di beni ambientali culturali classificati.

A questo punto la tutela paesaggistica s’incontra con la materia urbanistica. Si passa da una tutela statica e individualizzata ad una tutela concepita come passaggio amministrativo nella procedura urbanistica. Un passaggio obbligatorio che consente di tener conto del paesaggio nella pianificazione urbanistica. Un controllo meno eclatante, ma dinamico in grado di aggiornare la concezione del paesaggio alle trasformazioni del territorio.

La svolta di Predieri

Alla fine degli anni Sessanta è sempre più avvertita la necessità di raccordare la Costituzione con il sistema regionale di ormai prossima attuazione. Si tratta di mettere insieme concetti tenuti per troppo tempo separati: paesaggio, territorio, edilizia, urbanistica. Le bellezze naturali costituzionalizzate appaiono più un’insidia che non una risorsa, almeno rimanendo fermi al quadro concettuale predominante. Occorre insomma uno scatto interpretativo che vada oltre la bellezza panoramica, nel momento in cui il vasto tema dell’ecologia entra nel discorso politico7. Bisogna, in altre parole, riscrivere l’art. 9 non tanto per attribuirgli il significato autentico, quanto per sottrarlo da un’interpretazione ormai datata che soprattutto non favorisce le politiche di tutela dell’ambiente, sede di paesaggi di vario rango estetico.

Alberto Predieri pubblica una raccolta di saggi (Predieri 1969) che appare già un programma nell’accostamento tra temi ritenuti distinti, Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione, in modo tale da creare una correlazione tra gli artt. 9, 42 e 117 cost..

Nel primo saggio Predieri prende di petto proprio il significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio. La definizione offerta da Predieri rompe lo specchio che consentiva di vedere le bellezze naturali dentro la cornice dell’art. 9. Con ampio richiamo alle scienze geografiche ed ecologiche e persino alla linguistica e alla letteratura, il paesaggio è visto “come risultante di forze umane e naturali che agiscono perennemente, come paesaggio integrale, perciò, il paesaggio è un fatto fisico oggettivo, e al tempo stesso un farsi, un processo creativo continuo, incapace di essere configurato come realtà immobile, suscettibile di essere valutato diacronicamente e sincronicamente, sempre tenendo presente la sua perenne non staticità. Il paesaggio, dunque, è la forma del paese, creata dall’azione cosciente e sistematica della comunità umana che vi è insediata in modo intensivo o estensivo, nelle città o nella campagna che agisce sul suolo, che produce segni della sua cultura” (Predieri 1969, 10-12). Nella cultura vi rientra “la comunità che trasforma il paesaggio”. Il paesaggio diventa così “l’immagine dell’ambiente in cui vivono [i componenti della società] e che essi vedono” (Ibidem, 12-13). Il riferimento alla campagna, accompagnato dalla significativa citazione della storia del paesaggio agrario di Emilio Sereni, è il segno tangibile del passaggio ad una dimensione paesaggistica integrale, aperta all’interazione uomo-natura nell’agricoltura, lontana dall’idea della bellezza naturale di stampo monumentale, tutelabile nella sua eccezionalità.

Il paesaggio non indica le forme immobili della legge Bottai, ma “la forma del paese nella sua interezza” (Ibidem, 16). A questo punto la tutela del paesaggio è già oltre la tutela delle bellezze naturali,e tocca l’ambiente, perché il paesaggio è una “forma sensibile dell’ambiente”. La tutela del paesaggio “consiste nel controllo e nella direzione degli interventi della comunità sul territorio” (Ibidem, 18-19).

In questa prospettiva l’apertura verso il sistema regionale è implicita. Il paesaggio come fatto comunitario richiede una tutela diffusa del territorio, nel territorio. Non si tratta di escludere, ma includere competenze nuove in grado di abbracciare una nozione ampia, collegata all’ambiente naturale: la questione del paesaggio coincide sempre di più con la salvaguardia del territorio. In questo quadro, la tutela costituzionale viene ricondotta dallo Stato alla Repubblica, allo Stato-comunità che detta le regole che lo Stato apparato dovrà applicare.

L’affermazione della competenza regionale passa attraverso il riferimento ex art. 117 cost. alla materia urbanistica. Il collegamento stretto paesaggio-urbanistica, impensabile per la dottrina e la giurisprudenza a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, non spaventa Predieri convinto che “la interpretazione della “tutela del paesaggio” come tutela e controllo degli interventi umani sul suolo e sull’ambiente, porta a far coincidere in larga misura la tutela del paesaggio con la disciplina dell’uso del suolo o con la disciplina urbanistica, in quanto quest’ultima deve essere intesa come regolazione degli insediamenti umani nel territorio, e non solo come disciplina dello sviluppo delle città” (Ibidem, 56).

Vi è comunque una dottrina che sostiene che il significato dell’art. 9/2 attenga fondamentalmente ad una riserva di competenza statale in grado di escludere ogni margine di intervento degli enti locali. Secondo Predieri può essere vero per il patrimonio artistico, ma non per il paesaggio proprio alla luce dell’art. 117 che attribuisce la materia urbanistica (che per Predieri è anche materia paesaggistica) alle regioni: “se la tutela del paesaggio comprendesse – come comprende – la regolazione urbanistica, l’art. 117 introdurrebbe una competenza regionale anche per questa area”. L’urbanistica “si presenta, perciò, come sub materia della tutela del paesaggio” (Ibidem, 58).

Il pensiero di Predieri sul passato e il presente del paesaggio, sospeso tra Stato e regioni, può essere riassunto in una sua considerazione intorno allo Statuto speciale della regione Friuli Venezia Giulia: “ non è difficile ritrovare nella formula adottata dalla legge costituzionale 31 gennaio 1963 n. 1, dopo quindi anni dall’entrata in vigore della costituzione, gli influssi e i residui di una interpretazione dottrinale che ha portato a far coincidere “paesaggio” con “bellezze naturali” e di una prassi amministrativa in cui l’apparato del ministero della pubblica istruzione ha difeso le sue competenze, non consentendo di arrivare ad una disciplina unitaria dell’ambiente e del territorio (mentre spesso le esercitava poco e male)” (Ibidem, 61). Da una parte la critica all’identificazione tra paesaggio e bellezze naturali, dall’altra quella al funzionamento della macchina amministrativa, alle resistenze d’apparato rispetto alle esigenze di un tutela diffusa e multiforme.

Quindici anni dopo: il diritto ambientale e il nodo irrisolto del paesaggio

Nel corso degli anni Ottanta, quando ormai l’abusivismo edilizio è diventato un tema di stringente e drammatica attualità, Alberto Predieri continua a riflettere sulla tutela paessagistica nell’ambito delle riforme dell’ordinamento economico. Il rigore metodologico e la passione civile trattenuta a fatica convergono nell’obbiettivo riformistico tendente ad un assetto giuridico che tuteli davvero il paesaggio e l’ambiente, anche a costo di ridimensionare il feticcio giuridico-culturale dell’art. 9, difeso come unico punto di partenza possibile, ma nella piena consapevolezza dei suoi limiti, svelati con estremo disincanto.

Senza troppi giri di parole, Predieri chiarisce che intorno all’art. 9, con particolare riferimento al patrimonio storico e artistico, non vi fu una contesa tra esteti ed industrialisti ma tra regionalisti e centralisti: “senza quel contrasto è lecito dubitare che la norma sarebbe entrata a far parte del testo costituzionale” (Predieri 1985, 713). Nel quadro nuovo dell’attuazione del sistema regionale, tra luci e ombre, tra spinte in avanti e brusche frenate a livello giurisprudenziale (Ibidem, 721), occorre chiedersi se l’art. 9, che comunque ha avuto il merito di tenere alta la tensione sugli aspetti ambientali e paesaggistici, sia ancora in grado di rispondere agli interessi diffusi e collettivi sorti intorno alla questione del paesaggio. Predieri ritiene impossibile ripetere quanto avvenuto intorno al diritto alla salute: in questo ambito è difficile configurare un “diritto alla fruizione del paesaggio” (Ibidem, 727). La prospettiva di Predieri è quella di una rimodulazione in chiave soggettiva del paesaggio. Un paesaggio dunque da conservare nella società, non da proteggere dalla società, attraverso lo Stato in tutte le articolazioni centrali e periferiche.

Le ricette di Predieri sono tre. Un primo livello di partecipazione democratica costruito con la previsione dell’intervento processuale a difesa degli interessi collettivi, di categoria e diffusi.

Un’articolazione precisa delle relazioni Stato-sistema delle autonomie, riservando al primo l’indirizzo e al secondo l’amministrazione attiva. Osserva Predieri che “il paleorevanchismo dell’apparato dei beni culturali ha portato a un cospicuo contenzioso con le Regioni sulle quali deve incentrarsi il governo del territorio”.

Nella dialettica centro-periferia, occorre soprattutto l’individuazione di poteri sostituivi, in un processo di responsabilizzazione, per evitare situazioni di inerzia. In un quadro ancora in fase di consolidamento, bisogna evitare che lo Stato si riappropri di competenze, prendendo come pretesto l’inattività delle regioni.

Il terzo punto attiene ad “una formulazione dell’art. 9 che esplicitamente preveda diritti soggettivi per ottenere la cessazione e la prevenzione dell’alterazione e degradazione del paesaggio e il diritto a un indennizzo nei casi in cui la lesione sia conseguenza diretta di un’alterazione e colpisca la sfera di una persona” (Ibidem, 728).

Predieri tratteggia una riformulazione dell’art. 9 intorno “alla formula unitaria di tutela dell’ambiente, con un enunciato articolato nel riconoscere il diritto, nel definire i compiti dello Stato, nell’attribuire situazioni soggettive ai singoli e/o rappresentanti di interessi collettivi”. La prospettiva da seguire è quella indicata dall’art. 66 della Costituzione portoghese del 19768 e dall’art. 45 della Costituzione spagnola del 19789: un diritto-dovere all’ambiente che riguarda tutti (Ibidem, 728-729).

Questa prospettiva sviluppa la dimensione partecipativa contenuta nella stessa definizione di paesaggio proposta da Predieri. Una definizione che ancora sollecita la domanda rimasta inevasa nei decenni successivi sul diritto al paesaggio: “una teoria rivoluzionaria o un’ipotesi percorribile?” (Cortese 2008, 19-41).

 

L’eredità di Predieri

Si può trarre qualche considerazione conclusiva sul ruolo svolto da Predieri nella storia della tutela paesaggistica. Sul piano tecnico risulta un vincitore, in quanto la sua interpretazione è ancora variamente utilizzata per tenere insieme paesaggio-urbanistica-ambiente. Le suggestioni di Predieri intorno alla “forma del paese” si ritrovano nel linguaggio del gius-ambientalismo di questi anni (Amorosino 2010, 17). Le definizioni di paesaggio contenute nella Convenzione europea sul paesaggio del 200010 e nel Codice dei beni culturali e del paesaggio del 200411 riprendono l’aspetto del “paesaggio integrale”, con un evidente profilo identitario già tematizzato da Predieri, ma lo sganciano da una più ampia visione ambientale del rapporto uomo-natura. In particolare il Codice Urbani configura quello che è stato definito un “paesaggismo in chiave antiambientalista” (Desideri 2010, 18) che finisce per confluire di nuovo nella prospettiva culturale di partenza.

Ma è soprattutto lo spirito civile di Predieri, che non può essere disgiunto dalla sua analisi dogmatica, a risultare sconfitto. Cosa è rimasto di quello spirito democratico e partecipativo invocato da Predieri nell’attuale quadro? Cosa è rimasto di quel vasto e complesso sistema canalizzato alla tutela del paesaggio, fondato su reciproci controlli, e marcata e diffusa responsabilizzazione, nella realtà del federalismo all’italiana, di uno Stato non più centralista e non ancora federalista, senza essere mai stato convintamente regionalista? C’è davvero poco dello spirito civile di Predieri in un sistema amministrativo complesso (Marzaro 2011) che tuttavia non ha risolto i nodi fondamentali intorno al paesaggio, a cominciare dalla definizione, dai contenuti normativi, ancora legati ad “un’accezione estetico-culturale” (Gili 2002, 755).

Se guardiamo l’apparato normativo di tutela, l’Italia del Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004 sopravanza la Francia ferma nel 2003 al Codice del patrimonio, limitato ai beni culturali (Morand-Deviller 2006, 10). Ma il livello di tutela effettiva del paesaggio non dipende dai contenuti normativi, quanto dal funzionamento della macchina burocratica. Il male dell’abusivismo edilizio storicamente contiene il tarlo della cattiva amministrazione. L’abusivismo ha costituito e costituisce la forma del paese malato, che rispecchia e metaforizza il degrado civico, oggi ancor più di ieri. Predieri – commentando la legge Galasso del 1985 – afferma “che componente dell’abusivismo, così come si è storicamente delineato, è il fatto che nelle aree di concentrazione del fenomeno, alla violazione della legge, da parte di chi ha costruito, si aggiunge la violazione di chi doveva reprimere le violazioni e non l’ha fatto. Per ogni reato del costruttore, c’è, almeno, un reato di un appartenente all’apparato statale” (Predieri 1985/2). Dietro la questione del paesaggio vi è insomma molto di più del paesaggio: la tutela vera passa anche se non soprattutto attraverso la riforma dell’amministrazione, la vera prevenzione primaria.

La rilettura di Predieri rimane attuale per comprendere i nodi della questione intorno alla speculazione edilizia, che richiama sempre cattiva amministrazione. Per evitare intanto di confondere il micro-abuso, commesso senza alcuna autorizzazione – l’allargamento di una finestra per intenderci in zona vincolata – dall’eco-mostro realizzato all’esito di un apparente rispetto del procedimento amministrativo previsto, o persino di sciagurate pianificazioni urbanistiche.

Se nel primo caso basta un’efficiente vigilanza, nel secondo occorre molto di più, in quanto la ‘forma malata’ riguarda la pubblica amministrazione, il circuito amministrativo di formazione del consenso politico. In entrambi i casi, il paesaggio continua ad essere la rappresentazione visiva del mal funzionamento degli apparati burocratici. Il paesaggio si tutela insomma partendo dalle cause che rendono possibile la sua negazione, comprese in un raggio più esteso rispetto alla dimensione tecnico-giuridica del paesaggio medesimo.

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Silei G. (cur.)

2011                Ambiente, rischio sismico e prevenzione nella Storia d’Italia, Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita editore.

 

Piccioni L. 1999, Il volto amato della patria. Il primo movimento per la protezione della natura in Italia 1880-1934, Università di Camerino,Camerino;

 

Piergigli V., Maccari A. (cur.)

2006                Il codice dei beni culturali e del paesaggio tra teoria e prassi, Milano, Giuffrè.

 

Predieri A.

1981                Paesaggio, in “Enciclopedia del diritto”, XXXI (1981), Milano, Giuffrè.

1985                Il patrimonio storico-artistico e tutela del paesaggio, in D’Antonio.

1985/2             Abusivismo edilizio. Condono e nuove sanzioni. Commento alla legge n. 47-1985 e al D.L 146/1985 convertito con legge 298-1985, Roma, Nis.

 

Ragusa A.

2011                Alle origini dello Stato contemporaneo. Politiche di gestione dei beni culturali e ambientali tra Ottocento e Novecento, Milano, FrancoAngeli.

 

Sandulli A.

1967                La tutela del paesaggio nella Costituzione, in Scritti in memoria di Antonino Giuffrè, III, Diritto amministrativo e costituzionale. Diritto ecclesiastico. Diritto tributario, Milano.

 

Senato della Repubblica

1971                Problemi dell’ecologia, Roma, Eredi Bardi, voll. 3.

 

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1961                Storia del paesaggio agrario italiano, Bari, Laterza.

 

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2010                Paesaggio Costituzione cemento, Torino, Einaudi.

2013                Cemento famelico, in “La Repubblica”, 6 febbraio.

 

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1977                Reati e illeciti amministrativi in materia di inquinamento, Padova, Cedam.

 

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1961                Lo Stato di cultura nella costituzione italiana, Napoli, Morano.

 

Stoppani A.

1961                Tutela delle bellezze naturali ed autonomie comunali, relazione al Convegno di studi giuridici sulla tutela del paesaggio, San Remo 8-10 dicembre (estratto), San Remo.

  1. Ai sensi dell’art. 1 sono soggette alla legge a causa del loro notevole interesse pubblico: 1. Le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica; 2. Le ville, i giardini e i parchi che, non contemplati dalle leggi per la tutela delle cose d’interesse artistico o storico, si distinguono per la loro non comune bellezza; 3. I complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale; 4. Le bellezze panoramiche considerate come quadri naturali e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze. []
  2. Risale sempre al 1939 la legge 1089 sulla tutela dei beni culturali. []
  3. I monumenti storici, le opere d’arte, le bellezze della natura, e il paesaggio sono protetti e curati dal Reich []
  4. In una sentenza del 1957, la Cassazione stabilisce “Che il disposto degli art. 14 e 15 del reg. com. edilizio di Spoleto del 1939 (in base al quale il Sindaco può impedire l’esecuzione delle opere discordanti col carattere dei luoghi, la cui conservazione presenti un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale e panoramica, e può vietare nuove costruzioni nelle zone di carattere panoramico, anche se non dichiarate tali dal ministero della pubblica istruzione) non può essere invocato per negare una licenza edilizia allorché l’Amministrazione delle belle arti abbia concesso l’autorizzazione a costruire” (citata da Stoppani 1961, p. 4). []
  5. La sentenza può essere letta in “Il Foro italiano”, vol. LXXX (1957),I, c. 1178-1179 []
  6. “Si considerano Beni culturali ambientali le zone corografiche costituenti paesaggi, naturali o trasformati dall’opera dell’uomo, e le zone delimitabili costituenti strutture insediative, urbane e non urbane, che, presentando particolare pregio per i loro valori di civiltà, devono essere conservate al godimento della collettività. Sono specificamente considerati Beni ambientali i beni che presentino singolarità geologica, flori-faunistica, ecologica, di cultura agraria, di infrastrutturazione del territorio, e quelle strutture insediative, anche minori o isolate che siano integrate con l’ambiente naturale in modo da formare una unità rappresentativa”. []
  7. Nel 1971 viene istituita la Commissione del Senato per l’ecologia. []
  8. “Tutti hanno il diritto a un ambiente di vita umano, sano ed ecologicamente equilibrato e hanno il dovere di difenderlo”. []
  9. “Tutti hanno il diritto di fruire di un ambiente adeguato allo sviluppo della persona, così come il dovere di conservarlo”. []
  10. Ai sensi dell’art. 1 lett. a): “paesaggio” designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione dei fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. []
  11. Ai sensi dell’art. 131/1: “per paesaggio si intende il territorio espressione di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni. Il comma successivo prevede che “il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”. []