Luca Platania
I più recenti studi risorgimentali (quelli di Alberto Mario Banti in testa) riguardano, com’è noto, la mentalità, il lessico, la religiosità tramite le quali i protagonisti di una straordinaria stagione della storia italiana comunicarono, ai loro contemporanei, i propri ideali politici, un tipo di concezione dell’eroismo romantico, il sogno di una patria redenta ed affrancata dalla schiavitù e dalla tirannia.
In questo orizzonte di ricerca, il rapporto tra l’uomo e la morte, la memoria dei caduti per la causa costituiscono oggetti privilegiati.
Sappiamo dunque che attraverso una complessa, ma fino ad un certo punto consapevole, invenzione di una tradizione si è tentato di costruire l’identità della nazione italiana; due degli attori principali del Risorgimento furono intelligenti strateghi anche su questo fronte.
Mazzini e Garibaldi molto si prodigarono, infatti, per il ricordo dei morti per la libertà d’Italia: come ha dimostrato Roberto Balzani in suo saggio(Alla ricerca della morte «utile». Il sacrificio patriottico nel Risorgimento, in Aa.Vv., La morte per la patria; la celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica, a cura di O. Janz e L. Klnkhammer, Donzelli, Roma, 2008), Mazzini fu il primo ed intelligente artefice del culto dei “martiri” del Risorgimento.
Non minore fu la premura di Garibaldi per un impegno da lui molto sentito: la definitiva, degna sepoltura delle camicie rosse cadute nell’impresa del 1860 in altrettanti mausolei, simboli del coraggio e del patriottismo da edificarsi lungo tutto l’itinerario dei Mille. I loro corpi erano stati purtroppo frettolosamente sepolti per l’incalzare della guerra.
La “statuomania” degli anni ’70-80 dell’Ottocento sancirà in fondo anche questa tradizione legalizzandola e rapportandola in una necessaria, ma dubbia armonia, con l’istituto monarchico; la letteratura infine interpreterà e cristallizzerà una storia che voleva farsi leggenda.
La figura e il mito di Giuseppe Garibaldi hanno costituito l’oggetto privilegiato di stimolanti lavori da parte di Mario Isnenghi, Lucy Riall, Maurizio Degl’Innocenti. In questi lavori è stata indagata l’origine della figura eroica di Garibaldi nella coeva produzione della stampa, del teatro e dei gadgets a lui dedicati, individuando una primitiva, ma efficace, operazione di marketing nella promozione di un eroe che avrebbe dovuto spingere l’opinione pubblica, italiana ed internazionale, ad entrare in empatia con la causa della libertà italiana.
La vita di Garibaldi diveniva così un romanzo a puntate il cui protagonista principale è l’eroe per cui moltissimi parteggiano e del quale si desidera la vittoria finale.
Se così viene spiegata una parte della straordinaria fortuna dell’immagine dell’Eroe dei due mondi, rimangono meno comprensibili l’alone mistico che circondava il combattente, i racconti circa la sua pretesa invulnerabilità, il timore reverenziale che lo circondava in vita e l’origine delle reliquie garibaldine, queste ultime testimonianze di una prodigiosa storia umana, ma investite di un carisma divino.
Lo stesso, peculiare rapporto di Garibaldi con la religione ne rende legittimo e necessario un attento studio dei gesti e delle azioni fortemente simboliche che il Nizzardo curò soprattutto dopo il 1860, quando divenne il capo di un partito e venne ritenuto dai suoi garibaldini addirittura il messia di una nuova religione civile, come si vedrà.
Il saggio di Dino Mengozzi tratta appunto di questa complessa materia, seguendo un percorso interpretativo della storia e del sociale inaugurato da Michel Vovelle, maestro riconosciuto cui è dedicato il volume.
Il corpo di Garibaldi è allora al centro di questa indagine; in particolare come fonte delle reliquie garibaldine e, con le sue esequie, come ultimo sacrario degli ideali risorgimentali.
L’esistenza delle reliquie garibaldine, la loro circolazione, il credo che le accompagnava, rendono la presenza dello stesso Garibaldi nel mondo a lui contemporaneo più concreta, danno quasi l’idea di una ubiquità, in parte già provata dalle sue azioni spettacolari ad effetto: il libertador del Sud America, l’inafferrabile Garibaldi alla caduta della Repubblica romana, l’impresa dei Mille, di Aspromonte, di Mentana.
Dopo il 1861Garibaldi può essere ovunque: la volontà, sua e dei garibaldini di completare l’unità a dispetto di tutto e tutti inquieta ed entusiasma, da Caprera egli può intervenire a sorpresa in qualsiasi punto della penisola.
La sua presenza ed il lascito di eroismo, coraggio, patriottismo sono ribaditi dalle reliquie: che siano ciocche dei suoi capelli, brandelli del suo mantello o semplici oggetti “consacrati” dal suo tocco, esse hanno origine da un corpo esemplare per salute e vitalità, e dunque taumaturgico.
Mengozzi ci ricorda che l’Ottocento è il secolo di una rinnovata moltiplicazione delle reliquie, prodotte all’indomani del Congresso di Vienna dalla Chiesa romana per riconsacrare l’Europa violata dall’empietà di Napoleone e dalla rivoluzione francese; la secolarizzazione delle reliquie è dunque un processo che trova un contesto assolutamente conforme al periodo in esame.
Altro argomento centrale del saggio di Mengozzi è costituito dalle esequie di Garibaldi; alla organizzazione del suo funerale aveva provveduto il Nizzardo in più testamenti, nei quali più volte ritorna per affermare la sua volontà di essere bruciato su una catasta di legna.
Le sue ultime volontà vennero invece disattese, e fu deciso da un consiglio di famiglia e di amici di optare per la imbalsamazione e la sepoltura a Caprera; questi e altri dettagli meno conosciuti della vicenda sono riportati puntualmente da Mengozzi nel capitolo sesto.
Meno nota però è la regia e le particolari esigenze che Garibaldi aveva espresso circa le sue esequie in una versione del suo testamento del 1876-77; questo documento è stato reso noto solo nel 1998.
La pira necessitava spazi e modalità tali da deputare come adatto un particolare luogo di Caprera appositamente segnalato da Garibaldi nel testamento, che Dino Mengozzi ha individuato in una ricognizione dell’isola.
E la grande quantità di legna richiesta, oltre a rendere più spettacolare l’ultimo atto della esistenza di Garibaldi, desta degli interrogativi circa la destinazione del grande quantitativo delle ceneri prodotte, che avrebbero mescolato il corpo del defunto alla legna.
Il docente di Urbino ipotizza qui, interpretando la questione alla luce della indagine complessiva della concezione di Garibaldi della morte, della consapevolezza del proprio corpo “pubblico” appartenente ad una nazione, che l’abbondanza di ceneri prodotte avrebbe dato origine alla moltiplicazione del suo corpo in altrettante reliquie destinate a tutti gli Italiani.
Così come in vita, il leone della libertà avrebbe inteso donare il proprio corpo, da morto, a tutti gli amici e i fedeli garibaldini che avevano combattuto insieme a lui e che assistevano al suo rogo rituale.
Conclude il testo una appendice molto significativa, nella quale sono riprodotti i testamenti inediti di Garibaldi ed il testo di un anonimo catechismo garibaldino del 1866, la Dottrina del Generale Giuseppe Garibaldi.
In tale foglio a stampa il linguaggio e modalità sacramentali vengono prese in prestito, se non sottratte al cattolicesimo, per formare i garibaldini al credo in Garibaldi, all’azione fino alla compiutezza dell’Unità d’Italia, alla certezza della vittoria come dato fideistico.
Il saggio di Dino Mengozzi costituisce quindi un importante strumento per la comprensione del pensiero di Giuseppe Garibaldi, di una tradizione politica italiana che derivò dalla sua famiglia, di ciò che animò il Risorgimento stesso, delle credenze e dei rituali che scandirono la vita, la morte e le speranze dei suoi protagonisti.