Andrea Ragusa
Nella complessità ed ampiezza del panorama storiografico, avviene oggi con sempre minore frequenza che un giovane studioso si cimenti con quei temi che, in una posizione ormai “passatista”, si usa definire classici. Tanto meno ove si tratti di un filone di ricerca non solo profondamente dissodato, ma anche – come è il caso della storia economica, ed al suo interno della storia dello sviluppo capitalistico – sul quale si sono misurate posizioni scientifiche ed intellettuali di grande momento, scaturite dall’esigenza di comprendere ed interpretare cause originarie e motivazioni profonde di quello che per opinione condivisa si assume come il dato di una strutturale arretratezza storica del nostro paese sul piano dello sviluppo economico e specificamente industriale.
Tanto più meritorio, alla luce di questa difficoltà, risulta pertanto lo sforzo di Eleonora Belloni, che dal magistero di Antonio Cardini ha tratto la passione e la disciplina metodica atta a supportare una ricerca – quella consegnata alle 240 pagine di Ideologia dell’industrializzazione e borghesia imprenditoriale dal nazionalismo al fascismo (1907-1925) (Lacaita, Manduria-Bari-Roma, 2008) – che si misura proprio con il delicato nodo del rapporto tra decollo industriale, e crescita di una ideologia industriale nel ceto imprenditoriale e più in generale nella borghesia italiana a cavallo tra Otto e Novecento. Ove il decollo economico e l’ideologia industriale non risultano categorie analitiche di natura strettamente teorica – anche se, occorre dire, la consapevolezza perlomeno della problematicità degli elementi di teoria ed analisi economica che sottendono il ragionamento e l’indagine, non manca certo all’Autrice, che anzi mostra di padroneggiare con disinvoltura i fondamenti dell’apparato concettuale del liberismo economico e del marginalismo – ma rappresentano l’orizzonte di riferimento per un viaggio nel mondo variegato dell’imprenditoria italiana che all’alba del nuovo secolo vedeva accendersi anche in Italia la luce del progresso e della ricchezza, intuendone le straordinarie possibilità. La galleria dei personaggi che scorrono in una narrazione che mai cede nella severità del discorso analitico pur mantenendosi ricca di riferimenti, asciutta e coincisa nello stile, e persino brillante in taluni dei passaggi più felici, conduce infatti il lettore ad un confronto serrato con gli uomini che nelle difficilissime condizioni del periodo post-unitario, e poi nella “spensierata” epopea della belle époque giolittiana, si fecero pionieri dello sviluppo, dell’intrapresa, dando il via ad una stagione tra le più feconde sul piano così dell’elaborazione teorica, come della concreta realizzazione in campo economico. Vi sono elementi per una prosopografia della classe imprenditoriale italiana tra Otto e Novecento che rendono innanzitutto interessante questo libro: perché una storia esauriente delle generazioni di uomini d’impresa e di capitani d’industria che gettarono le fondamenta del progresso in un paese ancora profondamente agricolo non è dato a tutt’oggi annoverare nella letteratura sulla classe imprenditoriale, che del resto, come già da tempo si rileva, risulta paradossalmente tra le più incisive nella storia ma tra le meno rappresentate e studiate nella storiografia italiana. E perché nel volume di Eleonora Belloni questa storia viene tratteggiata col gusto e la curiosità di chi attende fonti private che più di altre consentono di far parlare i protagonisti dalla profondità dei loro punti di vista: si pensi anche soltanto a quel bellissimo documento dell’avventura del capitalismo italiano che è il Taccuino di un borghese di Ettore Conti, riscoperto pochi anni fa da Stefano Angeli in uno studio sulla “morale” della borghesia italiana che molto sa di “storia della mentalità” nutrita dell’esempio francese, e che ricorre spesso sin dalle primissime pagine del volume. Sulle rotture e sulle tante continuità che anche su questo piano legarono il paese nel passaggio dal pre fascismo al fascismo al post-fascismo, non occorrerà soffermarsi se non per ribadire l’importanza e la complessità di un intreccio personale, generazionale, di sociabilità e di rapporti amicali, di studio ed in taluni casi persino di parentela, che l’Autrice delinea collocandosi all’interno di un filone di studi che negli ultimi anni ha fatto profonda luce anche su questi aspetti.
Ché infatti un altro dei meriti che debbono essere riconosciuti a quest’opera è senza dubbio la capacità di impiantare solide fondamenta di ordine storiografico a sostegno di una ricerca condotta con notevole scrupolo filologico (si legge metodicamente la “Rivista delle società commerciali”, fonte di non scontata praticabilità); e di scegliere con consapevole maturità da quale parte stare. Se si scende in profondità a leggere la minuziosa e talvolta non semplice ricostruzione della politica industriale italiana di fronte alla crescita della stagione giolittiana, si intravede nitido il giudizio critico che risiede in queste pagine. Dov’era e cosa ha fatto la borghesia italiana di fronte all’occasione storica offerta dall’espansione del ventennio 1896-1914? Certo, l’importanza di una progressiva sempre maggiore assunzione di responsabilità, con quello che nel libro viene definito come un passaggio da una posizione “indiretta” all’elaborazione di una autonoma ideologia industrialista da parte dei settori più avanzati della borghesia italiana, non si disconosce, come non si manca di far menzione dell’importanza di quel processo di centralizzazione verticale ed orizzontale che porta tra il 1906 ed il 1910 alla costituzione di un vero e proprio “sindacato” degli industriali a difesa degli interessi di una borghesia colpita dalla crisi del 1907, scelto non a caso come termine a quo della ricerca. Ma emerge del pari la contraddittorietà delle posizioni che gli industriali assumono tra desiderio di liberalizzazione e fretta quasi impaziente di sfruttare le possibilità che soprattutto il dopoguerra sembra loro offrire; tra organizzazione centralizzata e proiettata ad uno sforzo di elaborazione di un progetto generale di sviluppo, e tutela corporativa e frammentata degli interessi. Non è un caso che, dopo l’avvicinamento all’ideologia nazionalista, al progetto di Alfredo Rocco del 1914, che allontana il nazionalismo dal liberismo rinsaldandone i legami con il mondo industriale ed offrendo a quest’ultimo una sponda per la formazione di un partito “grande borghese”; e dopo l’avvicinamento degli imprenditori ai centri di potere favorito dall’esperienza della Mobilitazione Industriale, gli industriali italiani paiano trovare in Mussolini, nella fiducia verso le grandi elites un terreno nuovo per poter esprimere la propria delusione per alcune scelte compiute dai governi della ricostruzione (esemplare la lotta contro la legislazione fiscale straordinaria esemplificata dalle misure giolittiane per l’avocazione allo Stato dei profitti di guerra e contro la nominatività obbligatoria dei titoli azionari), e nello stesso tempo per appoggiare l’idea di uno Stato che sostenga l’impresa senza intralciare la libera iniziativa.
E giusta appare anche, in questo senso, la scelta di chiudere la ricerca al 1925, anno nel quale la definitiva integrazione della Confindustria nel regime fascista (con l’acquisizione dell’appellativo “fascista” da parte della Confederazione e l’iscrizione di Antonio Benni e Gino Olivetti nel fascio romano) chiudeva per il momento il problema dell’elaborazione di una autonoma posizione ideologica. Qui si consumava infatti il dramma di un mancato sviluppo in senso democratico e sociale dello Stato liberale italiano: ed è merito del libro tracciarne alcuni elementi problematici in relazione al contesto politico-istituzionale e socio-culturale, ed anche di aver cercato una sponda – inevitabilmente rimasta sullo sfondo della ricostruzione – nell’interfaccia del mondo del lavoro, vero grimaldello di rottura degli assetti sociali ed economici dalla crisi dei quali emerse la nuova situazione italiana precipitata nella voragine del fascismo. È il richiamo ad ulteriori approfondimenti di una storia delle relazioni industriali in Italia che merita finalmente di esser scritta e che può trovare nel volume di Eleonora Belloni uno strumento documentario ed interpretativo di indubbio interesse ed utilità.