di Andrea Ragusa
Nell’ormai amplissima storiografia in materia economica, industriale, relativa allo sviluppo produttivo e sociale italiano, il volume di Eleonora Belloni, La Confindustria e lo sviluppo economico italiano. Gino Olivetti tra Giolitti e Mussolini, si inserisce meritoriamente a colmare un vuoto sensibilmente percepito a più livelli. In primo luogo perché affronta e ricostruisce con vigore narrativo ed analiticità documentaria la vicenda dell’organizzazione industriale italiana in un momento cruciale della sua storia: quella relativa al periodo che dalla nascita, nel 1910, la porterà a vivere da protagonista la storia italiana fino all’affermazione del regime fascista. E questo – sia detto a sottolineare vieppiù l’importanza del lavoro – in un panorama in cui la storia dell’industria è assai approfondita sul versante dei singoli percorsi aziendali (basti pensare ai volumi di Castronovo sulla storia della Fiat), quanto poco meditata sul piano dell’organizzazione, quasi che quest’ultima fosse una dimensione pressoché estranea alla vita degli industriali, monopolio di ideologie di massa tendenti a soffocare l’iniziativa individuale. Al contrario, ed ecco il secondo elemento di rilievo nel lavoro di Eleonora Belloni, quella organizzativa fu una dimensione ben presente agli occhi di molti dei protagonisti della vicenda industriale italiana (e, si può dire, europea ed extraeuropea, raccogliendo gli spunti comparativi che, presenti nel libro, meriteranno comunque senz’altro di essere approfonditi in successive ricerche); ed in particolare di Gino Olivetti, appunto, intorno al quale si concentra la ricostruzione ed attraverso la riflessione del quale il libro offre una dettagliata rievocazione di un passaggio cruciale della storia economica e sociale del paese.
È infatti sin da subito assai chiara, in questo giovane urbinate di origine ebraica, classe 1880, immerso ben presto nell’atmosfera di combattivo progressismo della Torino del passaggio del secolo, l’importanza di creare un nucleo ed una struttura capaci di collegare stabilmente singoli e gruppi di industriali, in un momento in cui la crescita economica – la prima fase di decollo industriale italiana, tra il 1896 ed il 1913 – ed il complicarsi degli interessi e dei soggetti in gioco, rendono sempre meno efficace e più complessa l’azione individuale. In questa direzione va l’attività che Olivetti svolge, giovane ma già affermato avvocato nella Torino di Ruffini e Cognetti De Martiis, a favore della costituzione della Lega Industriale, dapprima in Piemonte, poi a livello nazionale, della quale diventa Segretario Generale, rimanendo in carica fino agli anni Trenta inoltrati. In questa direzione va pure l’attività di redattore del “Bollettino della Lega Industriale”, nato nel luglio 1907, cui Olivetti dedica tante delle sue energie.
Perlomeno due sono gli aspetti rilevanti che, nella ricchissima ricerca condotta dall’Autrice, meritano di essere sottolineati, per la sensibilità e l’intelligenza con cui vengono affrontati e discussi. Il primo è il complesso nodo del rapporto tra organizzazione degli industriali e sviluppo della libera iniziativa economica ed imprenditoriale. Come giustamente l’Autrice riconosce, l’organizzazione è per Olivetti non uno strumento per soffocare l’imprenditore, quanto piuttosto una leva per rafforzarne l’azione. Ed in questo senso egli non concepisce la Lega degli Industriali come un partito politico, ma come qualcosa che viene prima e va oltre: una lobby nel senso positivo del gruppo di pressione, del veicolo di canalizzazione di istanze disperse che in essa si raccolgono ed acquisiscono uniformità. Aspetto che sempre Olivetti cercherà di tutelare, di difendere, sia come organizzatore e responsabile di Confindustria, sia dai banchi del Parlamento, dove entra nel 1919 – in occasione delle prime elezioni con sistema proporzionale – per rimanervi fino al 1938, quando colpito dall’emanazione delle leggi razziali, sceglierà la via dell’esilio volontario in Argentina, dove morirà nel 1942. Vi è poi un secondo nucleo problematico intorno al quale la vicenda narrata si concentra con attenzione e con indubbia finezza interpretativa. È il rapporto, complesso, che Olivetti, personalmente ed a capo dell’organizzazione, instaura con il fascismo. Vedendovi dapprima uno scudo a difesa dell’iniziativa privata. Vedendo poi una deriva autoritaria e statalista che nell’interpretazione del corporativismo proposta da Ugo Spirito (ecco il senso della polemica con quest’ultimo intercorsa nel 1932) diventa insostenibile ed inaccettabile coercizione dell’impresa. Su questo il rapporto di Olivetti con il fascismo si chiude con quella singolare considerazione mussoliniana che ne dipinse a chiare lettere i connotati: abile imprenditore, intelligente economista, attento osservatore della realtà, ma “riconoscerlo per fascista, no!”. Piuttosto un protagonista indiscusso, anche in un momento così difficile, della vicenda economica, politica e sociale del paese. Cui il volume di Eleonora Belloni rende il giusto tributo.