Paolo Soave
Il “passaggio in Toscana” di Winston Churchill nella seconda metà dell’agosto 1944 può essere considerato lo sfondo e il crocevia, non solo logistico, degli avvenimenti che segnarono lo sforzo alleato per la liberazione dell’Italia ma anche delle decisioni strategiche e politiche, complesse e talvolta controverse, che caratterizzarono il continuo confronto fra gli Alleati nel frangente decisivo del secondo conflitto mondiale. Fabio Casini, ricercatore in Storia delle Relazioni Internazionali presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Siena, già autore di precedenti saggi monografici che, sempre incentrati sul periodo bellico, hanno in particolare affrontato la posizione inglese riguardo al nazismo e alle minacce poste dall’espansionismo tedesco e giapponese, così come l’atteggiamento della Santa Sede di fronte alla Shoah, propone in questa sua nuova ricerca un’accurata ricostruzione storiografica. L’autore muove dall’affascinante riscoperta delle tracce lasciate da Churchill nel corso del suo itinerario toscano, in particolare nel territorio senese. Casini si incammina, non solo idealmente, lungo il sentiero della storia locale, fra testimonianze raccolte, foto d’epoca private e vecchie ville di campagna, per raggiungere la dimensione storiografica che più gli interessa e gli attiene, in qualità di storico della relazioni internazionali, quella in cui collocare la ricostruzione della difficoltosa liberazione della penisola e la preoccupazione di Churchill di farne il presupposto per più ampie operazioni volte a definire gli assetti postbellici europei. Mociano, nel senese, quartier generale di Alexander, e Villa Placidi, nella vicina Vignano, alloggio di Churchill, località costantemente evocate e consacrate dall’autore all’attenzione della storiografia, furono non solo le basi operative dalle quali il premier inglese seguì gli sviluppi del fronte e partì per le sue continue missioni politico-militari, ma anche e soprattutto i centri dai quali si irradiarono le sue iniziative per gli sviluppi complessivi del conflitto attraverso il confronto a distanza con Roosevelt e Stalin. L’autore correttamente richiama e padroneggia, fin dall’introduzione, il contributo storiograficamente complesso dei filoni di ricerca della liberazione nazionale e degli sviluppi conclusivi della guerra, ai quali apporta un arricchimento frutto dell’elaborazione di un notevole apparato documentario, rappresentato a livello locale, come detto, da testimonianze personali, rilievi fotografici, e soprattutto, su un piano più alto e generale, dalle fonti inedite reperite presso i National Archives di Kew, l’Archivio centrale dello Stato di Roma, i National Archives and Records Administration americani.
Nell’incontro di Casablanca, come ricorda Casini, Roosevelt e Churchill definirono i principii che avrebbero dovuto improntare la campagna contro il “ventre molle” dell’Asse: una riconosciuta preminenza dell’interesse inglese in Italia e la subordinazione strategica e materiale dell’operazione alla liberazione della Francia. Tuttavia, mentre il presidente americano si attendeva soprattutto che le forze alleate tenessero a lungo impegnate un buon numero di divisioni tedesche, il premier inglese intravedeva nella campagna il presupposto strategico e logistico per raggiungere i Balcani e Vienna, prima che vi approdasse l’Armata rossa. Della ben nota divergenza fra i due, ovvero della concezione puramente strategica del conflitto nutrita da Roosevelt rispetto a quella politica di Churchill, o piuttosto, come scrive Henry Kissinger ne L’arte della diplomazia, dell’incapacità americana di pensare la politica mentre si fa la guerra, tenendo le due dimensioni sin troppo rigidamente distinte, Casini fa appropriatamente il filo conduttore del suo lavoro. Fu infatti questo, assieme all’esigenza di sconfiggere il comune nemico nazista, il tema centrale delle preoccupazioni e dei pensieri che accompagnarono Churchill durante il suo soggiorno toscano. Anche per questo l’autore attribuisce al leader inglese il merito di aver saputo guardare oltre il fronte, con indubbia lungimiranza (p. 99). Da parte sua, Roosevelt non intese mai avallare iniziative in grado di minare l’alleanza con Stalin, e, del resto, avrebbe finito con il dissentire da Cburchill anche riguardo alla definizione degli assetti politici italiani postfascisti. Agli inglesi, gli americani addossarono la principale responsabilità nella gestione operativa della campagna d’Italia, testimoniata dalla nomina del generale britannico Wilson a capo del comando mediterraneo, in sostituzione di Eisenhower, incaricato di pianificare l’operazione Overlord (p. 70). Il 3 luglio 1944 le avanguardie della III divisione di fanteria algerina, al comando del De Monsabert, opportunamente fiancheggiate da azioni partigiane di disturbo e sabotaggio, entrarono a Siena dalla porta San Marco, poco dopo la ritirata tedesca (p. 84). La successiva battaglia del Chianti, caratterizzata da una più tenace resistenza del nemico, trasformò il territorio senese nel retrovia logistico delle operazioni e, per questo, nella sede dei comandi. Il quartier generale insediato da Alexander a Mociano divenne allora crocevia di eminenti personalità, quali re Giorgio IV, Alan Brooke, capo di stato maggiore imperiale, Marshall, Smuts, MacMillan e, soprattutto, Winston Churchill, che vi si trattenne per quasi due settimane (p. 88). Casini raccoglie e cita, in proposito, le testimonianze locali. Il premier inglese si mosse costantemente, seguendo con partecipazione gli sviluppi lungo la linea del fronte e intraprendendo missioni politiche aventi per oggetto i futuri assetti dei paesi mediterranei sui quali egli sperava di poter continuare a proiettare l’influenza di Londra. Si rendeva per questo necessario stabilire una collaborazione con le locali forze partigiane e sottrarle all’influenza comunista impegnandole a rispettare la continuità delle istituzioni monarchiche. Il 12 agosto Churchill incontrò Tito e Subasic, capo del governo yugoslavo in esilio a Londra, ai quali chiese di unire i loro sforzi in cambio dell’aiuto inglese. Con altrettanta fermezza egli prevenne il vuoto di potere che avrebbe determinato in Grecia la ritirata tedesca inducendo l’EAM a collaborare con il governo greco in esilio (p. 116).
Puntellate in qualche modo anche per il futuro le influenze balcaniche inglesi, Churchill concentrò la sua attenzione sullo sviluppo delle operazioni di guerra. Lo sbarco lungo le coste della Francia meridionale il 15 agosto 1944 (operazione Anvil-Dragoon) mise fine alla diatriba operativa anglo-americana che aveva segnato quell’estate. Churchill dall’Italia si era battuto strenuamente contro un intervento che, attuato ben nove settimane dopo Overlord, sembrava poco significativo (p. 100). Inoltre la distrazione di altre forze avrebbe favorito la resistenza tedesca nella penisola, saldamente arroccata lungo la linea gotica, e reso improbabile la prospettiva di giungere in Istria prima dei sovietici, comunque in tempo utile per liberare le regioni nord-orientali dalla Wehrmacht, presupposto per attuare la già concordata collaborazione con Tito. D’altra parte, osserva Casini, gli uomini e le risorse mobilitati furono prevalentemente americani, e Roosevelt, da parte sua, non aveva mai assunto impegni per i Balcani. È un dato di fatto, come sostiene Aga Rossi, che gli scontri fra Alleati durante la campagna d’Italia coincisero con il consolidamento della resistenza tedesca, soprattutto nel bolognese. Casini si sofferma in particolare sull’incontro del 19 agosto presso l’hotel Miramare a Castiglioncello, vicino Livorno. Clark in quell’occasione riconobbe che la partenza dei contingenti inviati in Francia aveva fatto perdere “una magnifica occasione” (p. 111). Determinato a non arrendersi, Churchill programmò con i suoi collaboratori il proseguimento della campagna italiana: mentre Alexander avrebbe attaccato lungo la linea adriatica, Clark sarebbe avanzato su quella tirrenica, sempre con l’auspicio di poter poi puntare su Trieste e l’Istria. Il 22 agosto Churchill fu ricevuto a Roma da Bonomi, Badoglio ed altre personalità, fra le quali Togliatti e il luogotenente Umberto di Savoia. È ben nota la scarsa considerazione di cui godevano agli occhi del leader inglese, per un difetto di rappresentatività, i partiti italiani e il nuovo governo, mentre chiesa e corona continuavano a costituire, anche in prospettiva, le istituzioni di riferimento per la vita politica del paese e l’influenza che Londra si riservava di esercitare. L’accantonamento di Badoglio, il “manico” di quella “caffettiera bollente” che per Churchill era divenuta l’Italia, preannunciava una discontinuità istituzionale preludio del ridimensionamento dell’influenza inglese. Churchill sospettava inoltre del ruolo che Togliatti, dopo la svolta di Salerno, si riprometteva di esercitare. L’Italia era ancora sottoposta a regime armistiziale, pertanto le aspettative di Bonomi, che confermando i nuovi impegni internazionali assunti dal suo governo e la ritrovata vicinanza all’Inghilterra sperava di conseguire un alleviamento delle clausole imposte dagli Alleati, non furono incoraggiate da Churchill, che assunse un vago impegno morale. Solo dopo il suo rientro a Londra, fu reso noto il messaggio di “incoraggiamento agli italiani” scritto in occasione del suo ultimo soggiorno a Napoli (p. 150), una sorta di paterna esortazione al riscatto nazionale, grazie al quale, nel tempo, il paese avrebbe avuto la possibilità di riacquisire il perduto rilievo internazionale. Churchill, come noto anche dalle sue memorie, trasse un giudizio favorevole solo dall’incontro con il principe Umberto, il quale gli apparve come la figura ideale sulla quale investire per salvare la monarchia italiana (p. 124). Il giorno seguente egli fu introdotto da Osborne, ambasciatore britannico presso la Santa Sede, in udienza con Pio XII. Fra i vari argomenti inseriti da monsignor Tardini nel promemoria dell’incontro, il tema maggiormente condiviso fu certo il timore per la diffusione del comunismo, come Churchill stesso ammise in seguito. Probabilmente, come ebbe modo di rilevare Myron Taylor scrivendo a Roosevelt, sarebbe stato difficile in quel dato momento storico riunire due personalità più preoccupate di Churchill e Pio XII delle possibili influenze comuniste per il dopoguerra (p. 125). In tal senso Pacelli auspicava la concessione da parte degli Alleati di condizioni di pace non punitive e di un pronto sostegno economico all’Italia. Per Churchill, Pio XII era addirittura il più grande uomo di quegli anni (p. 126). Tornato al quartier generale di Alexander, egli fu raggiunto dall’attesa notizia dell’insurrezione scoppiata a Varsavia contro l’occupazione nazista. Scrisse subito a Stalin invocando l’intervento dell’Armata rossa a sostegno degli insorti, evidentemente non considerando che il leader sovietico non aveva interesse ad aiutare quella parte polacca che, in caso di successo, avrebbe rivendicato piena autonomia politica in un paese sul quale l’Urss intendeva esercitare una rigida influenza (p. 133). La risposta di Stalin fu pertanto fredda: per lui i rivoltosi erano dei criminali, in nessun caso poteva stornare forze dal fronte interno contro la Wehrmacht. Roosevelt, del resto, non accettò l’invito di rinnovare le pressioni su Stalin. Al generale polacco Anders, incontrato a Loreto, Churchill ribadì che l’Inghilterra stava tenendo fede all’impegno assunto con l’entrata in guerra di difendere l’indipendenza polacca, al punto che, mentre l’Armata rossa assisteva inerte a distanza di appena 30 km al dramma che si stava consumando a Varsavia, la RAF era costretta ad affrontare un volo di 780 miglia, partendo dalle basi italiane, per portare conforti agli insorti. Sempre in quei giorni di fine agosto, ricorda l’autore (p. 136), Churchill autorizzò la costituzione della brigata ebraica. Al premier inglese, che in passato aveva nutrito atteggiamenti di ostilità nei confronti dell’ebraismo, pareva in effetti inconcepibile che proprio ai più colpiti da Hitler venisse negato il diritto di battersi in guerra. Formata alla fine di settembre, forte di circa 25.000 uomini, la brigata fu posta agli ordini del generale canadese Benjamin e dopo un periodo di addestramento in Egitto inviata al fronte in Italia. Il 26 agosto Churchill assistette all’attacco sferrato da Alexander alla linea gotica dal Montemaggiore al Metauro, nel pesarese, ed ebbe l’occasione, come ricorda nelle sue citate memorie, di stare più vicino alla linea del fuoco nemico di quanto gli fosse capitato in tutta la guerra (p. 143). Imbaldanzito dal buon avvio delle operazioni, Churchill telegrafò a Roosevelt per rammentargli che i partigiani di Tito attendevano l’arrivo in Istria delle truppe impegnate in Italia (p. 147). La questione venne affrontata nell’incontro di Quebec, dove, osserva Casini, Roosevelt sembrò comprendere le ragioni di Churchill, al punto che il generale Wilson venne incaricato di predisporre un piano di sbarco in Istria (p. 156). Di lì a poco, tuttavia, le operazioni belliche in Italia si complicarono: i tedeschi si attestarono sugli Appennini e il previsto sfondamento della linea gotica divenne più problematico. Infine, dopo la battaglia di Rimini, conclusasi il 21 settembre, Stalin decise di rompere gli indugi e si rivolse a Tito per chiedergli di opporsi all’eventuale avanzata in Istria degli Alleati (p. 159). Da parte sua Tito chiese l’intervento dell’Armata rossa contro il rivale Mihailovic. Su questa base di reciproca convenienza l’accordo fu rapidamente trovato. Il rovesciamento delle alleanze nei Balcani indusse Churchill a scrivere nelle sue memorie che ormai “la Russia era la liberatrice e il comunismo il Vangelo che essa recava”. Non restava, per preservare una qualche influenza inglese nel settore conteso, che cercare un’intesa direttamente con Stalin. Questo indusse Churchill a recarsi a Mosca nell’ottobre del 1944, per conferire con il leader sovietico, che non aveva più visto dopo Teheran (p. 160). I due alleati utilizzarono, al cospetto di Harriman, inviato in qualità di osservatore da un contrariato Roosevelt, il più crudo linguaggio spartitorio. Casini a questo punto ricorda come Churchill, subito dopo il raggiungimento di quell’intesa, apparisse preso dal rimorso e preoccupato di chiarire tanto a Roosevelt quanto al suo paese il vero significato di quelle decisioni. In realtà. quello che in quel dato frangente sembrava sfuggire al premier inglese, ma probabilmente non a Stalin, come dimostrava del resto la sua ampia disponibilità, era il prevedibile sviluppo degli eventi bellici, con le truppe alleate ancora impantanate in Italia e l’Armata rossa ormai incontrastata padrona dei Balcani e dell’Europa centro-orientale. Come del resto Stalin confessò a Gilas solo pochi mesi più tardi, quella guerra era diversa da tutte le altre, in quanto chiunque occupava un territorio vi imponeva inevitabilmente anche il proprio sistema sociale. Nondimeno il periodo compreso fra l’incontro del Cremlino e la successiva conferenza di Yalta fu definito da Churchill nelle sue memorie come “il più positivo nelle relazioni anglo-sovietiche del tempo di guerra”, mentre egli si chiedeva quale fosse il contegno da seguire fra l’idealismo di Roosevelt e il crudo realismo di Stalin (p. 167). In Italia, frattanto, l’impossibilità di raggiungere l’Adige prima dell’inverno del 1944 aveva definitivamente fatto naufragare l’operazione Gelignite (nitroglicerina), con la quale la V e l’VIII armata avrebbero dovuto confluire su Vienna (p. 169). L’invito rivolto da Alexander affinchè le forze partigiane sospendessero le loro attività non doveva quindi essere inteso solo come una dimostrazione di diffidenza nei loro confronti, ma anche come la presa d’atto del definitivo ridimensionamento d’importanza del fronte italiano (p. 170). Nei mesi finali del conflitto i contingenti impegnati in Italia furono ulteriormente indeboliti a vantaggio di quelli impegnati in Germania e Grecia. Infine, il 2 maggio i tedeschi sottoscrissero la loro resa a Caserta. “Terminava così, conclude Casini, la lunga campagna d’Italia: una campagna durata quasi due anni, pianificata con scarsa lucidità, caratterizzata da un’eccessiva lentezza delle operazioni e da errori tattici” (p. 174). Nel momento del bilancio, non c’era spazio per le recriminazioni, a parlare era solo l’alleato: Churchill scrisse così che l’obiettivo era stato quello “di stornare e trattenere il maggior numero possibile di tedeschi”, e considerato che era stato perseguito contro forze preponderanti, poteva ritenersi che poche campagne si erano chiuse “in modo migliore”.
Fabio Casini, con la passione, il rigore e la visione d’insieme che sempre devono contraddistinguere lo storico delle relazioni internazionali che muova la propria indagine dal particolare, ci guida a riscoprire che la “grande storia”, quella che con la seconda guerra mondiale ha definito gli assetti politici e sociali europei per il successivo mezzo secolo, è passata anche dalle amene località toscane e senesi in particolare, lasciando significative tracce di cui era andata perduta la consapevolezza. Il volume è arricchito da un’ampia appendice che include carte strategiche, foto d’epoca dei luoghi che fecero da sfondo agli avvenimenti descritti, confrontate con altre recenti dello stesso autore, nonché immagini che ritraggono Churchill e altre personalità durante la loro permanenza in Toscana, tratte da collezioni private ed archivi.