Fare e leggere la storia. La riviste di storia contemporanea in Italia. Cinque domande a: Antonio Varsori – Direttore di “Ventunesimo Secolo”

Domande

Le domande

  1. Quando nasce la rivista? In quale clima politico e culturale si inserisce? Quali indirizzi storiografici intende accostare e con quali avere, invece, un rapporto più marcatamente dialettico?

  2. Che tipo di “gruppo” raccoglie nella redazione e tra i collaboratori? Quali ne sono le caratteristiche formative, generazionali, e come risponde agli interessi storiografici espressi dalla rivista?

  3. Se volessimo tratteggiare in uno spazio breve una sorta di “storia della rivista”, quali elementi indicherebbe per caratterizzarne l’evoluzione, quali i problemi affrontati, e quali gli esiti più rilevanti delle scelte editoriali fatte?

  4. Cosa significa fare oggi una “rivista di storia”? Quali problemi gli storici si trovano ad affrontare nel nuovo scenario disegnato dalla trasformazione non solo della scienza storica, ma più in generale dei mezzi e dei metodi attraverso i quali procede oggi la ricostruzione storica?

  5. Come Direttore di una rivista di storia ritiene che sia condivisibile il segnale d’allarme da più parti lanciato a proposito di una “crisi della scienza storica” ed addirittura di una “inutilità del mestiere di storico”? Quale rapporto ritiene che possa esistere oggi tra la storia concepita e fatta a livello scientifico e la divulgazione che ormai sempre più si affida a mezzi e soggetti che rischiano di eroderne la legittimazione?

La rivista nasce agli inizi degli anni 2000 su spinta prevalente di alcuni docenti della LUISS, in particolare Gaetano Quagliariello e Viktor Zaslavsky, nonché con il supporto di storici di altri atenei, fra cui ad esempio Elena Aga Rossi e Piero Craveri. Importante era inoltre il legame con il “Centre for Transition Studies” della LUISS. Obiettivo della pubblicazione era appunto lo studio della “transizioni” che avevano caratterizzato il Novecento (ad esempio la fine dell’Europa come centro delle relazioni internazionali, la crisi degli imperi, la fine del comunismo e la ricomposizione del “vecchio continente”, ecc.), ma con la prospettiva di un’apertura nei riguardi delle transizioni del nuovo secolo che allora stava iniziando. “Ventunesimo Secolo” intendeva sottolineare i contributi di quei settori della storiografia che concentravano l’attenzione sulla storia politica, declinata nelle sue varie forme, dalla storia del pensiero politico, alla storia dei partiti e dei movimenti, alla storia delle relazioni internazionali, ecc. Vi era però anche l’obiettivo di essere un luogo dove ospitare contributi di approcci storiografici diversi. Importante inoltre era considerato il dialogo con le altre scienze sociali, in particolare la sociologia e la scienza della politica. Altro obiettivo importante che si erano posti i promotori della rivista era stato quello della internazionalizzazione con una forte attenzione nei riguardi delle scuole storiche di altri paesi. In tale contesto, in particolare grazie al ruolo svolto da Viktor Zaslavsky, numerosi erano stati i saggi e gli studi sull’Europa centro-orientale e sulla Russia, realtà che stavano uscendo in quegli anni dalla lunga esperienza del comunismo sovietico e che stavano ripensando in maniera radicale i caratteri della propria storia nel corso del Novecento. La nuova serie di “Ventunesimo Secolo” che prende avvio questo anno intende mantenere il legame con gli scopi originari della rivista e mira a sviluppare una ancor maggiore apertura verso le varie correnti storiche presenti in vari paesi stranieri, in particolare in Europa. Inoltre, pur continuando a privilegiare la dimensione politica ritiene di dover tener conto del dibattito in corso intorno ai temi sollevati dalle nuove definizioni di “storia globale”, “storia transnazionale”, ecc.

Come ricordato, l’asse portante della rivista era rappresentato da alcuni docenti della LUISS, nonché dai loro più giovani allievi. Con l’assunzione della direzione da parte di chi scrive, “Ventunesimo Secolo” si è aperta ai contributi e alla collaborazione di nuovi studiosi che hanno come punto di riferimento l’Università di Padova e gli studi di storia delle relazioni internazionali e di storia dell’integrazione europea. A proposito di questi studiosi va notato come essi abbiano in parte accantonato la storia diplomatica per una visione più ampia di “storia internazionale”, nel cui ambito importante è lo studio dell’azione e delle dinamiche, non solo degli attori statuali, da di tutti quei soggetti (governativi e non) che sono in grado di influenzare le relazioni internazionali. L’incontro fra questi due approcci dovrebbe risultare particolarmente fruttuoso perché essi dovrebbero completarsi reciprocamente in modo da offrire una visione egli eventi storici del Novecento e del Ventunesimo secolo più precisa e sfaccettata.

Non è semplice parlare per il passato, ma sono certo che “Ventunesimo Secolo” sia stata in grado di ospitare importanti saggi su temi complessi e che abbia approfondito questioni legate ad esempio al liberalismo, nonché più in generale alle famiglie politiche in una prospettiva non solo italiana, bensì europea, all’evoluzione del sistema internazionale del Novecento (guerra fredda, relazioni transatlantiche, trasformazioni nel blocco socialista, ecc.), al ruolo che le nazioni dell’Europa centro-orientale e la Russia hanno avuto nella storia del “vecchio continente”. La scelta di privilegiare la pubblicazione di numeri monografici, nonostante il manifestarsi di qualche problema (tempistica, omogeneità dei contributi, ecc.), è risultata positiva e alcuni numeri di “Ventunesimo Secolo” hanno rappresentato e continuano a essere, almeno a giudizio di chi scrive, utili e stimolanti punti di riferimento su rilevanti temi storiografici.

Cercherò di rispondere a questa domanda in maniera semplice. Resto dell’idea che la scienza storica debba continuare a fondarsi su alcuni capisaldi: l’aspirazione dello storico a tendere a un atteggiamento per quanto possibile distaccato e soprattutto “onesto” nei confronti dell’oggetto della ricerca, l’analisi puntuale, ma al contempo critica, delle fonti, in primo luogo di quelle archivistiche, la volontà di sperimentare strade e approcci diversi senza ripudiare gli strumenti utilizzati in passato, l’apertura al confronto con le varie “scuole” storiografiche, nonché con le altre scienze sociali. Facendo riferimento alla “storia internazionale”, è evidente che la dimensione “politico-diplomatica” resta rilevante, non fosse altro perché lo stato nazione non è scomparso e spesso le scelte e le dinamiche nei rapporti tra gli stati continuano a ispirarsi a criteri consolidati nel tempo e a utilizzare strumenti tradizionali (la diplomazia, lo strumento militare, ecc.). Ma sarebbe impossibile cercare di cogliere nella sua interezza la realtà storica delle relazioni internazionali ignorando le dimensioni che, soprattutto a partire dal Novecento, hanno influenzato, sovente in maniera determinante, il contesto internazionale e le sue trasformazioni: dall’economia alla società, alla scienza, alla cultura (sia quella delle élite, sia quella ‘popolare’). In tale ambito altre, oltre agli archivi, sono le fonti della ricerca (dai dati statistici alla letteratura, dal cinema alle conoscenze degli strumento tecnologici, ecc.). Tutto ciò pone allo storico numerosi problemi, soprattutto l’esigenza di comprendere come utilizzare al meglio le nuove fonti a disposizione. Questa sfida va comunque colta perché è il solo modo grazie al quale lo storico può sperare di continuare a svolgere una funzione di rilievo nel più ampio contesto delle scienze umane e sociali.

A prima vista vi è una chiara erosione del ruolo svolto dalle scienze storiche. Segnali in tal senso sono visibili quotidianamente, anche attraverso il rapporto con i nostri studenti che, complici anche le più recenti tecnologie dell’informazione, sembrano vivere in un continuo “presente”, che vede trascinare rapidamente nell’oblio eventi, personalità, dinamiche ritenuti importanti solo qualche anno prima, se non persino qualche mese prima. Questo atteggiamento non è certo caratteristica esclusiva delle “giovani generazioni”, ma anche della società nel suo complesso, in particolare dei “decisori politici”, nei quali è sempre più difficile trovare strategie di lungo periodo e visioni che si distacchino dall’esito dei sondaggi quotidiani sugli umori di elettorati sempre più stanchi. Ciò non toglie che la storia non sia “finita”, ma che anzi continui a interrogarci e a porci quesiti su fenomeni sempre nuovi e sempre diversi, ma che quasi sempre trovano poi legami, se non profonde radici, con il passato. Di fronte a tutto ciò lo storico continua ad avere il dovere di lavorare allo scopo di “spiegare”, oltre al piacere che dovrebbe provare nel riuscire a “comprendere”. Mi sembra invece in parte diversa la questione relativa al rapporto fra divulgazione storica e la storia concepita a livello scientifico. In proposito vorrei cercare di essere almeno relativamente ottimista; sono dell’idea che nella “divulgazione” passi sempre qualcosa degli esiti della ricerca storica. Vi sono inoltre paesi dove alcune specialità della storia, ad esempio la biografia, non sono appannaggio solo di “divulgatori” più o meno superficiali, ma essa è praticata, in alcuni casi in maniera seria e brillante, da storici di professione. Vorrei ricordare che, complice la ricorrenza del centenario, un ponderoso volume di storia politica quale “The Sleepwalkers” di Christopher Clark è stato tradotto quasi contemporaneamente in francese, italiano e tedesco e ha raggiunto un alto livello di vendite. Si possono certo discutere le tesi interpretative di Clark, ma è difficile definire tale volume un’opera di facile “divulgazione”. Vi sono dunque segnali contrastanti su cui comunque si può riflettere senza essere del tutto pessimisti. E’ su questa nota positiva che vorrei chiudere questa intervista.