Fare e leggere la storia. La riviste di storia contemporanea in Italia. Cinque domande a: Adriano Roccucci – Direttore de “Il Mestiere di Storico”

Domande

Le domande

  1. Quando nasce la rivista? In quale clima politico e culturale si inserisce? Quali indirizzi storiografici intende accostare e con quali avere, invece, un rapporto più marcatamente dialettico?

  2. Che tipo di “gruppo” raccoglie nella redazione e tra i collaboratori? Quali ne sono le caratteristiche formative, generazionali, e come risponde agli interessi storiografici espressi dalla rivista?

  3. Se volessimo tratteggiare in uno spazio breve una sorta di “storia della rivista”, quali elementi indicherebbe per caratterizzarne l’evoluzione, quali i problemi affrontati, e quali gli esiti più rilevanti delle scelte editoriali fatte?

  4. Cosa significa fare oggi una “rivista di storia”? Quali problemi gli storici si trovano ad affrontare nel nuovo scenario disegnato dalla trasformazione non solo della scienza storica, ma più in generale dei mezzi e dei metodi attraverso i quali procede oggi la ricostruzione storica?

  5. Come Direttore di una rivista di storia ritiene che sia condivisibile il segnale d’allarme da più parti lanciato a proposito di una “crisi della scienza storica” ed addirittura di una “inutilità del mestiere di storico”? Quale rapporto ritiene che possa esistere oggi tra la storia concepita e fatta a livello scientifico e la divulgazione che ormai sempre più si affida a mezzi e soggetti che rischiano di eroderne la legittimazione?

«Il mestiere di storico» è la rivista della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (Sissco). La Società scientifica dei contemporaneisti italiani, nata nel 1990 come ambito di confronto professionale degli storici contemporaneisti, si è venuta configurando nel corso degli anni come uno spazio aperto di socialità accademica, di confronto scientifico e di promozione degli studi di storia contemporanea. In questo senso la Sissco ha rappresentato, e continua a rappresentare, un ambito che intende superare le divisioni tra scuole storiografiche, tra orientamenti culturali, ideologici, politici, tra specialismi e correnti storiografiche. «Il mestiere di storico», giunto al suo settimo anno come rivista semestrale (2009-), ma con alle spalle quasi un decennio di vita da annale (2000-2008), si è collocato nel solco dell’itinerario compiuto dalla Società. La sua trasformazione in semestrale e la sua conseguente nuova identità vanno poste in relazione con il processo di maturazione tra i contemporaneisti italiani della consapevolezza di trovarsi di fronte a sfide decisive. Da un lato l’articolazione della storiografia italiana in scuole connotate per l’appartenenza culturale e politica, che ha segnato profondamente il panorama della storiografia italiana e delle riviste di storia nella seconda metà del Novecento, aveva perso molte delle sue ragioni di essere. Era questo un aspetto che interrogava, forse più di altre, la storia contemporanea e apriva la stagione di una ricerca, ancora non conclusa – e forse che mai si concluderà –, di nuove domande conoscitive, di nuovi temi di ampio respiro, a partire dai quali indagare e conoscere l’età contemporanea. Dall’altro lato si avvertiva l’esigenza di rinnovare le forme e i contenuti del dialogo con la storiografia internazionale, nella convinzione che la ricerca storica non può svilupparsi in un’anacronistica autoreferenzialità nei confini di un qualsiasi ambito nazionale. Da questo processo di maturazione di una nuova consapevolezza è derivato il profilo attuale de «Il mestiere di storico», come spazio di riflessione e di approfondimento storiografico al servizio della comunità scientifica degli studiosi di storia contemporanea, nel confronto costante con l’orizzonte internazionale della ricerca storica.

La redazione de «Il mestiere di storico» è formata da un gruppo di studiosi che rappresentano un ampio ventaglio di competenze sui diversi filoni e temi della storia contemporanea. Mi preme in questo senso rilevare che tra di essi vi sono diversi che si occupano non solo di storia italiana e le cui ricerche riguardano ambiti nazionali o continentali, o comunque universi culturali e politici, altri da quello italiano. Questa presenza costituisce per la redazione un significativo allargamento di orizzonti tematici e anche storiografici, perché ognuno di essi è portatore delle questioni e dei dibattiti della storiografia internazionale di riferimento per i loro studi. Allo stesso tempo i redattori sono espressione di orientamenti storiografici diversi, di differenti reti accademiche e gruppi di ricerca. Tale carattere plurale e storiograficamente variegato della redazione è un requisito indispensabile per il lavoro della rivista, da cui dipendono vivacità intellettuale e successo nell’obiettivo di fornire un quadro della produzione scientifica di storia contemporanea e di stimolare il dibattito storiografico. Questo connotato pluralistico, costitutivo dell’identità stessa della rivista, è messo ancor più in risalto dalla composizione eterogenea della redazione dal punto di vista generazionale, con una netta prevalenza di redattori giovani, e dalla presenza di studiosi sia strutturati che non strutturati. D’altro canto, componente essenziale de «Il mestiere di storico», anche per far fronte alle esigenze del consistente lavoro di recensione, è quella di poter contare sulla disponibilità di un ampio gruppo di collaboratori tra gli studiosi italiani e stranieri, anche in questo caso con interessi storiografici, orizzonti tematici, orientamenti metodologici, profili generazionali diversificati.

Le origini de «Il mestiere di storico» sono da rintracciare nel «Bollettino di informazione», che dalla sua nascita, nel 1990, la Sissco ha pubblicato fino al 1999. Il passaggio all’Annale fu quello a una rivista di informazioni al servizio della professione degli storici contemporaneistici, ai quali si intendeva offrire, appunto, informazioni professionali e un quadro della produzione della storiografia italiana. Questo profilo si è modificato fino a diventare quello di una rivista semestrale, non più esclusivamente “di servizio”, ma caratterizzata da una più ampia varietà di interessi di ricerca e dall’apertura agli studi di storia contemporanea non italiana. Uno spazio importante è stato destinato alla discussione storiografica, attraverso la pubblicazione di saggi su temi di ampio respiro e una maggiore articolazione delle rubriche all’interno della rivista, con la comparsa di rassegne, di forum di discussione su libri particolarmente importanti pubblicati all’estero o in Italia e di un focus specifico sugli “altri linguaggi” con i quali viene comunicata la conoscenza storica. Il lavoro sistematico, pur senza presunzioni di esaustività, di ricognizione e recensione delle pubblicazioni di storia contemporanea edite in Italia, cui si aggiungono anche volumi editi all’estero, costituisce il primo e più importante valore della rivista. Il nostro impegno – e il nostro auspicio – è volto a che tale lavoro possa alimentare la riflessione e il dibattito, stimolare la ricerca, segnalare piste di approfondimento, suggerire nuovi filoni di ricerca, intrecciando competenze, sollevando interrogativi, invitando a confrontarsi con i molteplici linguaggi di comunicazione della conoscenza storica. In qualche modo si è tracciato un percorso di riflessione storiografica fondato non su una ricerca storica divisa per specialismi, ma su una storia plurale. A queste notazioni si aggiunge quella sull’impegno della rivista a contribuire all’internazionalizzazione della comunità scientifica dei contemporaneisti italiani, con la costante attenzione rivolta alla storiografia non italiana, in un dialogo fecondo con autori, temi e correnti che caratterizzano il dibattito internazionale.

Il mondo delle riviste scientifiche di storia in Italia ha conosciuto negli ultimi anni un processo di trasformazione che ha suscitato dibattitti, non di rado accesi ma comunque salutari. Si sono innescate dinamiche di innovazione – tra tutte l’ingresso sulla rete della gran parte delle riviste –, che hanno condotto a ripensamenti e ristrutturazioni dell’architettura di molte riviste. Queste si sono misurate con le esigenze di adottare procedure di selezione degli articoli oramai divenute parametro di qualità della rivista stessa (peer review) e sempre più sono entrate in dialogo con un dibattito storiografico che per sua natura oramai è internazionale o non è – posto che vi sia stata un’epoca in cui esso sia stato esclusivamente nazionale. Non c’è dubbio che per gli studi di storia in Italia le riviste hanno (ri)guadagnato centralità sia per quanto concerne il dibattito storiografico sia per quel che riguarda l’impegno degli studiosi a pubblicare su di esse. Ne è conseguita una rinnovata vitalità e ne è derivato un impegno al miglioramento della loro qualità scientifica. Sono elementi di cui la comunità degli studiosi di storia si avvale con profitto. Pertanto fare una “rivista di storia” oggi in primo luogo significa corrispondere a questo alto profilo di qualità richiesto a un periodico scientifico e allo stesso tempo essere inseriti in un dialogo vivo con la storiografia internazionale. Soprattutto, però, si deve salvaguardare il nesso vitale della rivista con la comunità scientifica di riferimento, anche solo con alcune sue porzioni particolari, ma senza chiusure autoreferenziali. I comitati scientifici e le redazioni debbono essere in dialogo costante con l’ambito degli studiosi di riferimento ed essere luogo di rielaborazione degli stimoli che da esso provengono, per evitare che la dinamica della rivista si esaurisca in un pur moderno e raffinato esercizio di procedure di editoria scientifica. Le riviste non possono trasformarsi in una sorta di agenzie di rilascio di certificati di garanzia di qualità, con il rischio di perdere la loro funzione di ambiti in cui stimolare la ricerca, sollevare questioni, aprire nuovi filoni di studio, riflettere sulle prospettive storiografiche, alimentare dibattiti tra posizioni differenti. Mi sembra che tale approccio possa essere l’antidoto più efficace a fenomeni di omologazione metodologica, tematica, interpretativa e stilistica che sono connessi a sudditanze a tendenze o mode storiografiche e ad applicazioni poco meditate della peer review, la cui indispensabile funzione di selezione e miglioramento della qualità scientifica dei saggi pubblicati sulle riviste non può andare a scapito dell’apertura all’innovazione, anche eccentrica a prima vista, alla dissonanza interpretativa, alla novità tematica o alla rivisitazione di temi considerati superati, purché naturalmente il tutto sia scientificamente qualificato.

Per quanto riguarda il secondo quesito contenuto dalla domanda, non è possibile in poche parole prendere in esame i problemi che gli studiosi di storia si trovano ad affrontare nel contesto attuale della ricerca. Il pericolo della banalità e dell’ovvietà è sempre in agguato in questi casi. Mi limiterò, pur non ritenendomi immune dal summenzionato pericolo, a evidenziare tre nodi problematici, senza pretesa che siano i più rilevanti, ma semplicemente perché sono quelli che più di altri ricorrono nella riflessione interna alla redazione della rivista. Il primo – l’ho già ricordato in precedenza – è quello di mettere a fuoco le domande, le questioni di ampio respiro, a partire dalle quali interrogare il passato e quindi operare una selezione dei temi di ricerca. È un compito permanente per la ricerca storica, ma mi pare che in una fase della vicenda intellettuale dell’universo culturale occidentale – ma non solo –, caratterizzata da mancanza di visioni e carenza di idee, la responsabilità di individuare domande di ricerca ambiziose si ponga con particolare urgenza. Il secondo riguarda la questione che potremmo sintetizzare con la diade, un po’ logora, globale-locale. La riflessione sulla ricerca storica ha maturato la consapevolezza che le connessioni internazionali, o se vogliamo globali, dei processi storici sono una dimensione costitutiva di quegli stessi processi; ne è derivata un’opportuna attenzione ai fenomeni transnazionali e ai processi in qualche modo di omogeneizzazione. Allo stesso tempo, la ricerca storica non può non misurarsi con le differenze dei riferimenti spazio-temporali in cui si debbono collocare i processi storici, vale a dire con le differenti temporalità e spazialità, con le differenti visioni del mondo, che fanno la storia non meno che le spinte alla omogeneizzazione. Il terzo riguarda una questione più prettamente metodologica, connessa all’ampliamento delle fonti e della letteratura scientifica a disposizione degli studiosi grazie alle innovazioni tecnologiche, all’allargamento dei confini del dibattito storiografico e allo sviluppo degli studi. La oggettiva difficoltà a misurarsi con questa dilatazione del campo documentario e storiografico con cui un ricercatore deve confrontarsi è un interrogativo aperto per gli studiosi. Una tale dilatazione comporta, come minimo, un aumento della durata dei processi di ricerca sulle fonti, di acquisizione, di sedimentazione e di elaborazione delle conoscenze, che cozza con i tempi sempre più rapidi cui è sottoposta la produzione scientifica per le esigenze editoriali, accademiche, valutative. Alcune delle modalità con cui si prova a far fronte a queste difficoltà comportano rischi per la natura stessa della ricerca storica. L’abuso del ricorso a paradigmi ispirati alla modellistica delle scienze sociali sembra indurre ad abbandonare la paziente pratica dell’interpretazione storiografica fatta dell’utilizzo di fonti plurime e diversificate e dell’opera di connessione delle molteplici tessere accumulate dal ricercatore per ricostruire come se fosse un mosaico il passato che si intende studiare. D’altro canto la tendenza a cercare di dominare la sovrabbondanza di documentazione attraverso un approccio basato prevalentemente su dati quantitativi, oltre a non favorire sempre la profondità interpretativa che costituisce un connotato ineludibile della conoscenza storica, lascia spesso in ombra un passaggio fondamentale per la ricostruzione del passato, vale a dire il rapporto con i testi. È un tratto, quest’ultimo, che sostanzia il carattere intrinsecamente dialogico del fare storia. La conoscenza storica è entrare in dialogo con le donne e gli uomini, con gli universi culturali, di cui i documenti sono espressione. La conoscenza e lo studio dei testi, nel senso più ampio del termine, è un fondamento del fare storia, è la porta che occorre varcare per “entrare nella testa” delle donne e degli uomini che si vogliono studiare. Lo studio del passato è sempre studio di un’alterità e attraverso le testimonianze, che sono i documenti, si entra dentro modi di pensare, sensibilità culturali, modalità di reazione, campi lessicali, sistemi di riferimenti, sentimenti, orizzonti ideali altri. Infine, la frequente impossibilità, a differenza di stagioni precedenti della ricerca storica, di acquisire una conoscenza esaustiva della letteratura critica induce non di rado a scelte approssimative e minimaliste nella selezione dei testi storiografici di riferimento che influiscono negativamente sullo spessore critico delle ricerche. La sfida di tenere saldo l’ancoraggio a un rigore metodologico, che è anche filologico, della ricerca storica e alle peculiarità epistemologiche della conoscenza della storia appare molto attuale.

Parlare di “crisi della scienza storica” vuol dire più ampiamente parlare di crisi delle humanities, delle scienze umane. È una questione di ampio respiro, discussa da tempo. Se si vuole focalizzare la questione sulle scienze storiche, da una parte il discorso non può non toccare il “presentismo” della cultura del nostro tempo, poco incline ad assumere un’attitudine alla profondità storica, dall’altra occorre sollevare il problema già evocato della difficoltà a individuare domande di ricerca ambiziose con cui studiare oggi la storia. Se, quindi, ci troviamo di fronte a un nodo culturale rilevante, tuttavia non credo si debba indugiare in un atteggiamento che definirei vittimista da parte degli studiosi di storia. La vera risposta a questa “crisi della scienza storica” è in un rinnovamento degli studi per una loro nuova capacità di leggere lo spessore storico del tempo presente, a partire da questioni di ampio respiro, indagate secondo i criteri di una ricerca condotta con rigore metodologico e profondità interpretativa, quali sono richiesti dallo statuto scientifico della storiografia contemporanea. In un mondo, in cui si sono allargati gli orizzonti spaziali del presente, mettendoci così a contatto con temporalità differenti, la conoscenza della storia è ancora più necessaria come bussola per muoversi nello spazio globale del nostro tempo.

Il rapporto tra ricerca scientifica e divulgazione è questione non nuova. Certo la dilatazione dello spazio della comunicazione nella società contemporanea ne ha modificato i contorni. L’assunto di fondo è che una divulgazione seria non possa che reggersi su un rapporto vitale con la ricerca scientifica. La questione si pone a due livelli. Da una parte, gli studiosi debbono fare i conti con la dimensione narrativa della loro opera. La storia è anche narrazione, e come tale va scritta bene. È un dato forse ovvio, ma non per questo meno basilare. E troppo spesso è disatteso. Dall’altra parte gli studiosi di storia debbono misurarsi, senza supponenza, seppur non rinunciando allo spirito critico e allo statuto scientifico del loro sapere, con le tante forme di divulgazione della storia, che non debbono essere lasciate esclusivamente a chi non fa il mestiere dello storico. Non condivido il pregiudiziale rifiuto di prendere in considerazione nell’ambito della ricerca scientifica opere di storia scritte da studiosi non professionali, che si incontra non di rado negli ambienti accademici, come se si dovesse difendere una sorta di spazio “sacro”. Analogamente ritengo che lo spazio della divulgazione non debba essere considerato come un terreno di delegittimazione della storia. È semmai un campo nel quale gli studiosi di storia dovrebbero con più coraggio e maggiore elasticità essere presenti, come d’altronde mi sembra che già si sia iniziato a fare con qualche successo, ad esempio nei canali televisivi dedicati alla storia.