Fare e leggere la storia. La riviste di storia contemporanea in Italia. Cinque domande a: Francesco Traniello – Direttore di “Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ‘900”

Domande

Le domande

  1. Quando nasce la rivista? In quale clima politico e culturale si inserisce? Quali indirizzi storiografici intende accostare e con quali avere, invece, un rapporto più marcatamente dialettico?

  2. Che tipo di “gruppo” raccoglie nella redazione e tra i collaboratori? Quali ne sono le caratteristiche formative, generazionali, e come risponde agli interessi storiografici espressi dalla rivista?

  3. Se volessimo tratteggiare in uno spazio breve una sorta di “storia della rivista”, quali elementi indicherebbe per caratterizzarne l’evoluzione, quali i problemi affrontati, e quali gli esiti più rilevanti delle scelte editoriali fatte?

  4. Cosa significa fare oggi una “rivista di storia”? Quali problemi gli storici si trovano ad affrontare nel nuovo scenario disegnato dalla trasformazione non solo della scienza storica, ma più in generale dei mezzi e dei metodi attraverso i quali procede oggi la ricostruzione storica?

  5. Come Direttore di una rivista di storia ritiene che sia condivisibile il segnale d’allarme da più parti lanciato a proposito di una “crisi della scienza storica” ed addirittura di una “inutilità del mestiere di storico”? Quale rapporto ritiene che possa esistere oggi tra la storia concepita e fatta a livello scientifico e la divulgazione che ormai sempre più si affida a mezzi e soggetti che rischiano di eroderne la legittimazione?

Il primo numero della rivista fu pubblicato nel gennaio 1998. A tutt’oggi ne sono usciti 71 fascicoli (di circa 160/180 pagine l’uno) avendo la rivista mantenuto sin dagli inizi una periodicità trimestrale. Nella presentazione del periodico, da me firmata, richiamavo le “sollecitazioni ad un ripensamento complessivo della storia contemporanea prodotte dagli eventi che sul finire degli anni ’80 e lungo il successivo decennio hanno segnato un tornante nella storia del mondo, imponendosi con la forza di una cesura periodizzante”. Prendevo peraltro in considerazione una serie di dinamiche, per così dire, interne alla contemporaneistica italiana, alle quali la rivista non poteva restare indifferente. Tra queste enumeravo il rapido e positivo processo di internazionalizzazione della contemporaneistica, la sua più stretta interrelazione con altre costellazioni disciplinari, la fioritura di studi riguardanti la seconda metà del XX secolo, e via discorrendo. In questo senso il periodico si proponeva di essere, anzitutto, una rivista “generalista” e, in secondo luogo, una rivista aperta, sia in senso cronologico (cioè attenendosi ad un’accezione lunga di storia contemporanea), sia in senso metodologico (cioè tale da selezionare i contributi che avrebbe accolto esclusivamente sulla base del loro rigore documentario e analitico), sia in senso strutturale (cioè dotandosi di un profilo editoriale che prevedesse ampi spazi dedicati al confronto e alla discussione critica). La rivista non era e non voleva essere l’espressione di una “scuola” storiografica, e neppure di un’istituzione o di un’associazione. In quanto interessata prioritariamente alla qualità dei contributi da pubblicare, “Contemporanea” fu tra le prime riviste storiche ad adottare (dal 2008), per la sua rubrica destinata agli articoli, la norma del doppio referaggio anonimo, affidato sempre a studiosi esterni e facendo largo ricorso alle competenze di studiosi stranieri.

La conformazione del gruppo redazionale e le sue trasformazioni nel corso degli anni, hanno riflesso, a grandi linee, gli obiettivi sopra indicati. La rivista è stata sin dalle sue origini il prodotto di un lavoro collegiale, rigorosamente inteso. La mia funzione di direttore responsabile – derivante da una pluridecennale collaborazione con la Società editrice Il Mulino e dai miei rapporti di stima e amicizia con il suo direttore editoriale, Giovanni Evangelisti (che desidero qui ricordare con particolare affetto) – l’ho sempre intesa come un compito di coordinamento. Fui validamente affiancato, in tal senso, da un vicedirettore, nella persona di Maria Serena Piretti, e, dal 2001, da un secondo vicedirettore nella persona di Simone Neri Serneri, oltre che da un Comitato di redazione tanto efficiente quanto numericamente esiguo, collegato a una Segreteria di redazione. Senza di loro la rivista non sarebbe mai nata e, di certo, non avrebbe avuto le gambe per camminare. Nella costituzione del gruppo redazionale furono seguiti due criteri basilari: la preferenza accordata ad una giovane generazione di studiosi/e e ad un arco esteso di competenze specifiche. Questa iniziale struttura ha poi subito alcuni ampliamenti, con l’inserimento di nuovi studiosi/e allo scopo di acquisire altre valide competenze e nuovi terreni d’indagine, e alcune modifiche: queste hanno riguardato in particolare la costituzione di un Comitato di direzione (includente il direttore responsabile e la figura di un coordinatore o coordinatrice), coadiuvato dal Comitato di redazione, ma sempre nell’ottica di un ricambio periodico delle persone nei diversi ruoli, e del primato conferito al lavoro collegiale. Abbiamo invece escluso il ricorso a pletorici comitati scientifici, o simili.

Vorrei sottrarmi al compito di tracciare una “storia delle rivista”, per quanto sommaria e provvisoria. Mi limiterò ad elencare taluni aspetti di “Contemporanea” che mi sento di giudicare in termini positivi. Anzitutto l’ampiezza degli orizzonti storici affrontati, in senso cronologico, spaziale e tematico, cui ha corrisposto una collaborazione di studiosi non italiani particolarmente larga e qualificata (a questo proposito desidero richiamare l’attenzione sul fatto che dal 2013 la rivista pubblica contributi in lingua inglese oltre che in italiano). La vivacità e la varietà delle rubriche dedicate ai dibattiti critici o all’analisi, a più voci, di particolari opere (anche di grande rilievo nella storia della storiografia) o di questioni storiografiche connesse (dal 2015 uno dei fascicoli della rivista avrà carattere integralmente monografico). Lo spazio costantemente concesso a studiosi delle ultime generazioni, provenienti dalle più diverse scuole. L’attenzione prestata alle nuove metodologie e, più in particolare, agli effetti generati sulla ricerca storica dalla prorompente diffusione delle reti informatiche (per molti anni fece parte integrante della rivista una rubrica dedicata a tale argomento: “Navigare nella storia”).

4. e 5. Fare oggi “una rivista di storia”- ma soprattutto, vorrei aggiungere, di storia contemporanea – mi pare significhi principalmente misurarsi con due ordini di problemi. In primo luogo: con la straordinaria complessificazione dello stesso concetto di “conoscenza storica”, determinata, a mio avviso, dalla crisi o dalla estinzione delle filosofie o teorie della storia che, entro certi limiti, tendevano a conferirle un senso, o almeno un ordine, introducendovi una gerarchia di obiettivi cognitivi che lo storico era chiamato a perseguire, più o meno consapevolmente. In secondo luogo: con i profondi e forse irreversibili mutamenti intervenuti, in senso più generale, nei rapporti con il “passato” o, per meglio dire, con un passato che, al di là della passione antiquaria o della curiosità erudita, abbia qualcosa di significativo da dire a chi vive, oggi, il suo presente. Con questo, non voglio affatto allinearmi all’opinione di chi, un po’ affrettatamente, solleva forti dubbi circa la funzione attuale della ricerca storica (e dei suoi prodotti), proclamando non la “crisi”, ma la fine della storiografia. Voglio però asserire, da un lato, che il ruolo sociale e culturale (per non dire politico) di chi pratica professionalmente la ricerca storica non è più paragonabile a quello di un tempo (del resto, a mio parere, ormai remoto); e, dall’altro lato, che mi pare oggi di scorgere più nitidamente nella ricerca storica una funzione che definirei demistificante nei riguardi di un’attualità in apparenza trionfante perché onnipervasiva. Questo m’induce a pensare che sia questa l’epoca in cui proprio chi si occupa professionalmente, e coscientemente, dello studio critico del passato dovrebbe sentirsi chiamato a ridiscutere il significato del suo lavoro, allo scopo di riconvertire e, in un certo senso, di re-inventare una funzione nei riguardi della società e della vita circostante, che non gli è più, di fatto, riconosciuta in base ad antichi parametri.