Fare e leggere la storia. La riviste di storia contemporanea in Italia. Cinque domande a: Gabriele Turi – Direttore di “Passato e Presente”

Domande

Le domande

  1. Quando nasce la rivista? In quale clima politico e culturale si inserisce? Quali indirizzi storiografici intende accostare e con quali avere, invece, un rapporto più marcatamente dialettico?

  2. Che tipo di “gruppo” raccoglie nella redazione e tra i collaboratori? Quali ne sono le caratteristiche formative, generazionali, e come risponde agli interessi storiografici espressi dalla rivista?

  3. Se volessimo tratteggiare in uno spazio breve una sorta di “storia della rivista”, quali elementi indicherebbe per caratterizzarne l’evoluzione, quali i problemi affrontati, e quali gli esiti più rilevanti delle scelte editoriali fatte?

  4. Cosa significa fare oggi una “rivista di storia”? Quali problemi gli storici si trovano ad affrontare nel nuovo scenario disegnato dalla trasformazione non solo della scienza storica, ma più in generale dei mezzi e dei metodi attraverso i quali procede oggi la ricostruzione storica?

  5. Come Direttore di una rivista di storia ritiene che sia condivisibile il segnale d’allarme da più parti lanciato a proposito di una “crisi della scienza storica” ed addirittura di una “inutilità del mestiere di storico”? Quale rapporto ritiene che possa esistere oggi tra la storia concepita e fatta a livello scientifico e la divulgazione che ormai sempre più si affida a mezzi e soggetti che rischiano di eroderne la legittimazione?

1.“Passato e presente” nasce nel 1982, dopo alcuni anni di discussione e di riflessione fra alcuni storici trentenni. Essa si proponeva di affrontare la storia contemporanea senza appiattirsi sul ’900 come facevano le riviste contemporaneistiche italiane nate pochi anni prima – nel 1970 «Storia contemporanea» di Renzo De Felice, nel 1972 «Rivista di storia contemporanea» diretta da Guido Quazza -, ma partendo dalle novità economiche, politiche e culturali introdotte dalla «duplice rivoluzione» di fine ’700 (evidente era il richiamo a Eric Hobsbawm). Nell’editoriale che apre il primo numero questo obiettivo è dichiarato con forza, così come il richiamo alla lezione di Gramsci e la volontà di differenziarsi dalle riviste esistenti in Italia: rifiuto del loro carattere fortemente ideologico – su questa base era condotto allora l’aspro dibattito sull’interpretazione del fascismo e sulle tesi di Renzo De Felice sugli “anni del consenso” -, confronto con la storiografia internazionale, apertura a un pluralismo di opinioni, stretto legame tra ricerca, informazione critica, attenzione per le forme di circolazione della conoscenza storica.

Il rinnovamento culturale da noi proposto si univa a una presa di distanza non solo dagli ideologismi, ma anche dalla strada seguita allora da “Studi storici”, la rivista dell’Istituto Gramsci dalla cui direzione mi ero dimesso nel 1978 in polemica con l’indirizzo ad essa impresso da Rosario Villari, che attraverso la rivista intendeva sostenere con insistenza le voci del dissenso presenti in Unione Sovietica e nel mondo comunista (un aspetto, questo, sul quale mi sono soffermato in “Passato e presente” trent’anni dopo: “Passato e presente”, 2015, n. 94).

Questa presa di distanza rendeva necessario, oltre che salutare, non privilegiare metodi e approcci tematici specifici. Di qui la scelta di coltivare un eclettismo positivo, di manifestare interesse per le altre discipline sociali e coltivare un rapporto con la politica costante ma insieme mediato e articolato.

2.I membri della direzione sono cambiati nel corso di più di 30 anni, ma è rimasto fino ad oggi un numero significativo di fondatori. Gli allievi di Ernesto Ragionieri ne hanno costituito sempre una componente consistente, assieme a storici che fino alla nascita della rivista avevano avuto un rapporto privilegiato con le attività dell’Istituto Gramsci. Abbiamo cercato di coinvolgere studiosi competenti su periodi e temi diversi, ma non puri specialisti, pensando a un metodo di lavoro che prevede la lettura dei testi proposti da parte di tutti i membri della direzione. A lungo vi è stato anche un comitato scientifico che raccoglieva studiosi di esperienze diverse, e comprendeva storici stranieri e alcuni modernisti, in modo da realizzare in concreto il programma della rivista.

Non sempre siamo riusciti a tener fede alle nostre promesse: incostante è stata, ad esempio, l’attenzione per l’800 e per la storia economica, e poco più che enunciato l’interesse per il rapporto fra la storia e le altre scienze sociali, nonostante i suggerimenti metodologici offerti nel 1990 da Jürgen Kocka, Paolo Macry, Raffaele Romanelli e Mariuccia Salvati nella discussione su borghesie, ceti medi e professioni, o nel 1993 da Heinz-Gerhard Haupt, Geoffrey Crossick e Jürgen Kocka in quella sulla storia comparata. Si tratta di questioni, del resto, su cui il dibattito sembra essersi affievolito in Italia.

I collaboratori più giovani, aumentati negli ultimi anni, si concentrano spesso su temi e periodi ben circoscritti – in genere quello post 1945 – rendendo difficile quella riflessione sul lungo periodo che “Passato e presente” auspica, e non appaiono più sensibili della generazione precedente ai nuovi linguaggi delle scienze sociali. È venuto cambiando anche il tipo di attenzione al fascismo italiano, al quale la rivista dedicò nel primo numero gli interventi di Adrian Lyttelton, Jens Petersen e Gianpasquale Santomassimo a proposito de Lo Stato totalitario. 1936-1940 di Renzo De Felice, continuando a occuparsene con ben 56 articoli, fra saggi e recensioni, da allora fino al 2013: ma nel panorama italiano l’approfondimento di casi locali o di aspetti economici e sociali non è stato accompagnato da una riflessione su continuità e/o rottura del fascismo nella storia d’Italia e da una comparazione internazionale, come ho ricordato sul n. 94 del 2015 recensendo il numero monografico di “Studi storici” dedicato nel 2014 a Fascismo: itinerari storiografici da un secolo all’altro.

3.Al programma molto ambizioso enunciato nel 1982 abbiamo cercato di rispondere su vari piani. Abbiamo avuto qualche difficoltà a trattare il periodo della Rivoluzione francese e l’800, ma abbiamo fatto decisi passi avanti nell’affrontare la storia non italiana: dal 1982 a oggi sono cresciuti i temi extraeuropei, soprattutto dal 2002 quando è stata dedicata maggiore attenzione agli Stati Uniti, alla Cina, all’India o all’Africa – con i contributi di Terence Ranger e di Gareth Austin -, la schiavitù e la tratta o il clima. E di respiro internazionale sono i numeri monografici su Costruzioni di identità nazionali. L’Europa centro-orientale e balcanica (1996, n. 39), 1848. Scene da una rivoluzione europea (1999, n. 46), Le guerre del Novecento e l’uso pubblico della storia (2001, n. 54), Famiglia, società civile e Stato tra Otto e Novecento (2002, n. 57).

Ma l’aspetto decisivo è stata fin dall’inizio l’articolazione originale di “Passato e presente” in rubriche, che si è dimostrata funzionale ed è stata ripresa da altre riviste di storia. Uno spazio nuovo è stato riservato agli interventi commissionati, in modo che risultasse una rivista “costruita” dalla direzione, più che un collettore di lavori e proposte provenienti dall’esterno. Così l’Editoriale ha avuto il compito non solo di affrontare in modo problematico ricorrenze come il bicentenario del 1789 (1989) o quello dell’abolizione della tratta degli schiavi da parte della Gran Bretagna (2007) e il 150° dell’Unità d’Italia (2011), ma anche di illustrare i precedenti storici di eventi rilevanti dell’attualità italiana e internazionale, ricorrendo a giuristi – da Luigi Ferrajoli a Stefano Rodotà, da Salvatore Senese a Umberto Allegretti e Gustavo Zagrebelsky – per cercare di comprendere alcuni nodi politici e istituzionali: una manifestazione di impegno civile, nuova per una rivista accademica italiana o internazionale.

Altre rubriche “costruite” sono, oltre alle Recensioni e alle Schede – esse danno conto degli studi dedicati a un argomento negli ultimi tre-quattro anni -, le Discussioni che mettono a confronto voci diverse di storici (e non solo) italiani e stranieri, e Usi e abusi della storia. Oltre agli interventi presenti in queste rubriche o all’interesse per la storiografia – in Storici contemporanei e Storici e storia -, un aspetto caratterizzante della rivista è sempre stato il rapporto tra “passato” e “presente”: un rapporto non ideologico, ma esaminato con cautela per non attribuire alla storia un ruolo ancillare rispetto alla politica. Non è facile tenere insieme deontologia professionale e impegno civile, ma senza questa combinazione la storia si ridurrebbe a esercizio erudito.

4.Il contesto nel quale ci muoviamo è profondamente cambiato in Italia proprio dagli anni ’80, quando la rivista è nata. I luoghi di trasmissione della conoscenza storica si sono moltiplicati e l’uso pubblico della storia – non solo strumentale, ma connaturato al nostro mestiere – è diventato sempre più pervasivo. Ai linguaggi della televisione o del cinema, che “Passato e presente” ha cercato di analizzare nei primi numeri, si sono aggiunte proposte di intervento sull’insegnamento scolastico, operazioni editoriali e riviste di divulgazione e di propaganda che in Italia, soprattutto nella vasta e composita galassia della destra, hanno proposto una visione del processo storico secondo noi deformante. Per questo abbiamo deciso di inaugurare nel 2001 una nuova rubrica, Usi e abusi della storia, nella quale presentare il “senso comune” proposto da alcuni testi e polemizzare con iniziative dallo scoperto fine immediatamente politico: il referendum istituzionale del 1946 (2001), la “storia ufficiale” della Russia di Putin (2004), la legge del “buon francese” del 2005 sul ruolo positivo della colonizzazione della Francia (2006) o le celebrazioni italiane della “grande guerra” (2009).

Gli interventi di questa rubrica sono strettamente connessi al nesso irrinunciabile fra storia e attualità di cui ho parlato prima. Criticare la subalternità della storia alla politica è compito essenziale di una rivista, che ai suoi lettori non può solo segnalare i cantieri e i metodi di ricerca più innovativi

5.Può darsi che il mestiere di storico sia inutile, ma non perché lo sia diventato negli ultimi tempi. Non credo all’utilità della ciceroniana storia magistra vitae, ma penso che questa disciplina serva a contestualizzare i problemi e a cogliere le differenze. La divulgazione, anche come strumento di propaganda politica, non va demonizzata, ma deve essere analizzata per svelarne le finalità. Nei nuovi Stati, come quelli nati dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica o della Jugoslavia, alla storia si è chiesto di dar loro legittimità; lo stesso è avvenuto di recente in Italia con la cosiddetta Seconda repubblica, per raggiungere quella “pacificazione nazionale” che secondo alcuni presuppone addirittura una “pacificazione storiografica”.

Una neutralità storiografica è tuttavia impossibile. Compito della scienza storica, che esiste e persiste anche per questo, è quello di confrontarsi con la lettura degli eventi storici fornita da romanzi, cinema, radio e televisione, o da pulpiti accademici e scientifici, per scoprire se e quanto essa sia funzionale a obiettivi che stanno al di fuori del terreno storiografico. Il segnale di allarme non è quindi condivisibile se, appunto, facciamo seriamente il nostro mestiere.