Le domande Quando nasce la rivista? In quale clima politico e culturale si inserisce? Quali indirizzi storiografici intende accostare e con quali avere, invece, un rapporto più marcatamente dialettico? Che tipo di “gruppo” raccoglie nella redazione e tra i collaboratori? Quali ne sono le caratteristiche formative, generazionali, e come risponde agli interessi storiografici espressi dalla rivista? Se volessimo tratteggiare in uno spazio breve una sorta di “storia della rivista”, quali elementi indicherebbe per caratterizzarne l’evoluzione, quali i problemi affrontati, e quali gli esiti più rilevanti delle scelte editoriali fatte? Cosa significa fare oggi una “rivista di storia”? Quali problemi gli storici si trovano ad affrontare nel nuovo scenario disegnato dalla trasformazione non solo della scienza storica, ma più in generale dei mezzi e dei metodi attraverso i quali procede oggi la ricostruzione storica? Come Direttore di una rivista di storia ritiene che sia condivisibile il segnale d’allarme da più parti lanciato a proposito di una “crisi della scienza storica” ed addirittura di una “inutilità del mestiere di storico”? Quale rapporto ritiene che possa esistere oggi tra la storia concepita e fatta a livello scientifico e la divulgazione che ormai sempre più si affida a mezzi e soggetti che rischiano di eroderne la legittimazione?Domande
1.Se si considera “Il movimento di Liberazione in Italia. Rassegna bimestrale di studi e documenti”, edita appunto dall’Istituto per la storia del movimento di Liberazione in Italia, fondata nel luglio del 1949, “Italia contemporanea” – che di quella “Rassegna” è la prosecuzione – è la rivista di storia contemporaneistica più risalente nel tempo oggi ancora si attiva. Ma anche se si considera il 1974, il momento in cui dopo un quarto di secolo di pubblicazioni la “Rassegna” prende la sua denominazione attuale, cioè appunto “Italia contemporanea” (nei sui primi anni ancora con sottotitolo “Rassegna dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia”), questa è la rivista con la storia più lunga fra quelle di ambito contemporaneistico oggi ancora attive. Qualche volta questa lunga storia è dimenticata, più o meno volutamente.
Nei suoi primi anni – quando la disciplina accademica della ‘Storia contemporanea’ nemmeno esisteva, la “Rassegna” assolveva alla funzione per cui l’Istituto nazionale che la pubblicava l’aveva fondata: studiare la storia della Resistenza italiana, valorizzare la documentazione raccolta dai resistenti e versata negli istituti della rete relativa appunto alla Resistenza italiana e all’antifascismo. Ma il tema cui si dedicava era troppo rilevante e gli uomini che animavano l’Istituto erano troppo avvertiti per far restare la rivista un bollettino settoriale d’archivistica. Lentamente, quindi, mentre nelle Università si insegnava al massimo la Storia del Risorgimento, la “Rassegna” evolveva in una rivista storica dedicata ovviamente in primo luogo alla storia della Resistenza ma anche a quella del fascismo, della seconda e per certi versi della prima guerra mondiale. L’evoluzione è già evidente negli anni Sessanta.
Con il 1974, quando il numero degli Istituti regionali e provinciali era cresciuto, quando l’Istituto nazionale aveva già lanciato importanti ricerche storiche non più solo sulla Resistenza ma – ad esempio – sull’Italia dei 45 giorni e poi più in generale sulla transizione dal fascismo alla Repubblica e alla Ricostruzione, e quando la Storia contemporanea cominciava a diffondersi come disciplina autonoma di insegnamento nelle università, a sancire un ormai avvenuto cambiamento della “Rassegna” in rivista di storia contemporanea generalista, sia pure dedicata alla storia italiana, il vecchio periodico prese il nome di “Italia contemporanea”.
Si è richiamato qui le vicende della sua prima nascita, o – se si vuole delle sue due date di nascita – per dire che una rivista scientifica dalla storia così lunga non può non aver conosciuto diverse fasi. Dopo la “Rassegna” degli anni Cinquanta come bollettino e degli anni Sessanta come ormai rivista scientifica di storia, l’“Italia contemporanea” degli anni Settanta ha dato un impulso fondamentale allo sviluppo degli studi contemporaneistici: chi la riducesse alla storia del fascismo e spesso alle discussioni, esplicite o implicite, con “Storia contemporanea” diretta da Renzo De Felice, darebbe un’immagine distorcente e restrittiva d una rivista che invece, sia pur prima sotto la direzione di Enzo Collotti e poi di Massimo Legnani, ha sempre avuto un’impostazione plurale, una direzione collettiva, frutto di un incontro di studiosi più giovani con i rappresentanti migliori delle grandi tradizioni culturali e storiografiche marxista, cattolica e democratica. Non solo quindi storia politica ma anche storia sociale ed economica, come si usava a quel tempo, e come la direzione di Legnani incoraggiava, anche negli anni Ottanta.
Alla fine degli anni Novanta, quando ormai nessuno avrebbe potuto discutere l’approccio generalista della rivista e la sua qualità scientifica, la scomparsa di Legnani portò la direzione a Mario Giuseppe Rossi, che ha ulteriormente qualificato, garantito e incoraggiato il profilo di “Italia contemporanea” come rivista in grado di accogliere i frutti della ricerca più giovane assieme alle discussioni storiografiche generali sulla storia d’Italia, ormai non più solo sul fascismo e sulle guerre mondiali ma anche sui primi avvii della Repubblica.
Più di recente, ormai un quadrimestrale, “Italia contemporanea” si è ulteriormente rinnovata, con una nuova redazione, accogliendo i frutti della ricerca più giovane e più vivace. La Resistenza non è più il centro assorbente della rivista – ma si veda comunque lo spazio importante dedicatole, in un’ottica comparata con le altre riviste, in occasione del recente Settantesimo, a quanto pare ‘dimenticato’ da altre pubblicazioni – e “Italia contemporanea” si qualifica come una storia dedicata a tutto il Novecento italiano, nelle sue più diverse dimensioni, compreso l’ultimo ormai venticinquennio post-bipolare e post-Guerra fredda.
2.Nei suoi lunghi decenni, su “Italia contemporanea” ha scritto un numero enorme di studiose e di studiosi, così tanto e per così lunghi decenni che qualche volta essi stessi possono esserselo dimenticato. Poggiando su questa lunga tradizione, di recente la redazione ha potuto innovare ulteriormente.
Forse, il carattere di “Italia contemporanea” emerge bene dal nome delle donne e degli uomini che la fanno. Poiché la rivista non è espressione né di una sede accademica, né di un’unica tradizione o di un unico orientamento storiografico, né riflette il lavoro di un’unica generazione di studiosi, né può essere considerata – in ragione dei suoi vasti interessi – una rivista settoriale, conviene scorrere i nomi dei componenti dei suoi organi dirigenti.
La direzione, affidata a Nicola Labanca, si avvale di una redazione composta da : Enrica Asquer, Elisabetta Bini, Agostino Bistarelli, Alessandro Casellato, Lucia Ceci, Alessandra Gissi, Maurizio Guerri, Brunello Mantelli, Paola Redaelli, Toni Rovatti, Elisabetta Tonizzi, oltre ad alcuni specifici corrispondenti esteri, fra cui Ruth Ben-Ghiat, Christoph Cornelissen, John Foot, Olivier Wieviorka.
La rivista, inoltre, si avvale del Comitato scientifico dell’Istituto per la storia del movimento di Liberazione in Italia, con Marcello Flores Direttore scientifico (il Comitato è composto da poco da Mimmo Franzinelli, Marco Fioravanti, Gianluca Fulvetti, Enrico Galavotti, Piero Graglia, Isabella Insolvibile, Paolo Pezzino, Valentina Pisanty, Gabriele Ranzato, Marica Tolomelli, Marta Verginella, Gilda Zazzara; ed era composto per il triennio precedente da Luca Baldissara, Tommaso Baris, Antonio Brusa, Alberto Cavaglion, Stefano Cavazza, Filippo Focardi, Guido Formigoni, Carlo Fumian, Linda Giuva, Renato Moro, Silvia Salvatici, Daniela Saresella). Non è forse inutile sapere che l’Istituto è presieduto da Valerio Onida, con presidente onorario Tina Anselmi, vece presieduto da Alberto De Bernardi, con direttore generale Claudio Silingardi, e diretto da un consiglio d’amministrazione composto da Giulia Albanese, Guido D’Agostino, Carla Marcellini, Simone Neri Serneri, Stefano Pivato, Mario Renosio, Marco Rossi Doria.
La rivista non ama l’eclettismo ma favorisce l’intreccio delle tendenze storiografiche e il rinnovamento metodologico e contenutistico della ricerca. Promuove la ricerca (si considera una rivista “di spinta”) più storiograficamente problematizzata e consapevole: non cede quindi, come non di rado si osserva, all’abbassamento del livello con pubblicazioni di lavori poco meno frutto di tesi di laurea. L’adozione di un rigido, trasparente e verificabile sistema di revisione fra pari sia per la parte dei saggi sia per quella delle note di discussione storiografica tiene alto il livello qualitativo dei fascicoli.
3.Come si diceva, per la sua lunga storia e per la vastità dei temi affrontati, è difficile, se non impossibile, riassumere in così breve spazio l’evoluzione delle tematiche della rivista.
Solo per fare qualche esempio della varietà e della novità delle tematiche e delle metodologie potremmo trascegliere – dagli ultimi fascicoli – i temi di alcuni fascicoli monografici, o sezioni della rivista, o singoli articoli e saggi di ricerca dedicati all’impegno dei volontari nella guerra di Spagna, alla percezione culturale dell’età nucleare, all’impatto del Concilio Vaticano II, al mondo del lavoro dopo il 1968, al rapporto fra famiglie e cultura una volta tramontato il miracolo economico, al pacifismo degli anni Ottanta, all’Italia di Berlusconi come problema storiografico
I saggi di ricerca sono poi accompagnati in ogni fascicolo da riflessioni e note più storiografiche fra cui potremmo ricordare le discussioni su storici del rilievo di Delio Cantimori e Gastone Manacorda, Roberto Vivarelli, Luisa Mangoni, ma anche su ‘Partigia’ di Sergio Luzzatto e più in generale sui nuovi studi sulla Resistenza, sulla storiografia sulla “questione meridionale”, sugli indirizzi della storia orale, sul ‘revisionismo storico’ leghista, sulla più recente storiografia sui consumi dell’Italia repubblicana, sulla percezione odierna del fascismo quale è possibile desumere da alcune importanti esposizioni di storia dell’arte di quel periodo, sui lavori della Commissione storica italo-tedesca.
Considerazioni più dettagliate potrebbero essere condotte se si guardasse alle ultime annate della rivista secondo alcune grandi campiture cronologiche.
Per quanto riguarda la fine dell’Italia liberale, ci si è interrogati sulle modalità dell’ordine pubblico e sulla tenuta delle istituzioni, o le caratteristiche dell’associazionismo, piuttosto che indagare ancora la storia politica dei governi e dei partiti o movimenti politici.
Per quanto riguarda il fascismo e la seconda guerra mondiale, significative paiono le attenzioni andate al razzismo diffuso fra gli italiani e alla politica razzista del regime così come alla questione del confine orientale e alla violenza e al carattere totalitario del regime. Si tratta di tematiche che, com’è noto, hanno costretto a ripensare il giudizio sul fascismo quale era andato consolidandosi nei decenni passati attorno alla produzione defeliciana.
Sin qui sono i temi per i quali “Italia contemporanea” è diventata ormai anche oggetto di studi storici e non solo di rassegne storiografiche: è il caso ad esempio del volume di Gilda Zazzara, La storia a sinistra: ricerca e impegno politico dopo il fascismo (Roma-Bari, Laterza, 2011), che esamina fra l’altro le ricerche e gli studi promossi dall’Insmli ed anche pubblicati da “Italia contemporanea”.
Ma, sia pur senza perdere di vista i temi più classici e tradizionali, appare assai rilevante lo spazio di recente voluto da “Italia contemporanea” per una storia dell’Italia repubblicana, e per temi più nuovi di storia sociale e culturale. La storia repubblicana è quindi stata indagata – sempre per fare solo alcuni esempi – ancora una volta per il peso politico del movimento operaio o cattolico ma soprattutto (ed ecco i più nuovi approcci) nei caratteri e nelle dimensioni del suo sistema di welfare, nell’indirizzo del regime dei consumi, nel peso fatto gravare su di essa dalle strategie e dalle logiche della Guerra fredda, nei tratti culturali della percezione di una dimensione scientifica completamente nuova, nella dimensione religiosa dei cambiamenti impressi dalla svolta conciliare, nello spazio nuovo dei movimenti di contestazione antinucleari. E sempre, a leggere gli articoli, tutti i temi sono affrontati all’interno di un dibattito storiografico internazionalizzato. Non più quindi (se mai c’era stata) una “Italia contemporanea” tematicamente ripiegata solo sul fascismo e sulla guerra mondiale, né più ormai una rivista di sola storia politica. Insomma una rivista ormai pienamente partecipe e consapevolmente attrice di una storiografia rinnovata e aggiornata.
Ma, ripetiamo, si tratta solo di pochi esempi, e che traggono origine da saggi pubblicati soprattutto – ma non solo – nelle ultime annate. E come si intuisce, non solo storia politica, ma in misura significativa storia sociale, storia culturale, storia della storiografia, storia di genere.
4.Una domanda simile richiederebbe una riflessione che qui non ha senso poter solo abbozzare.
Come studioso, ritengo che il processo di trasformazione della ricerca storica, della trasmissione delle scienze storiche e degli stessi luoghi in cui avviene la formazione di un sapere storico professionalizzato – le università e i centri di ricerca – ha subito a livello generale ed internazionale un’accelerazione potente. La polarizzazione delle più importanti sedi di ricerca e di elaborazione, la differenziazione degli investimenti in ricerca da parte di alcuni Paesi e in essi di alcune sedi universitarie ha fortemente penalizzato l’Italia. Le dimensioni di scala in termini di biblioteche e di risorse ha moltiplicato la facilità che esse si candidino a dirigere o a far parte di reti di gruppi di ricerca sempre più innovativi. La disponibilità di risorse ha inoltre enormemente facilitato, per gli studiosi di alcuni Paesi, l’accesso alle risorse documentarie e archivistiche così come bibliotecarie proprie di quei Paesi e di quelle sedi. Questa verticalizzazione nettissima si è accompagnata, ma non ha superato, i benefici effetti di una moltiplicata integrazione e globalizzazione della circolazione dei saperi storici, che sempre meno hanno carattere nazionale e generale, ma transnazionale e settoriale.
La circolazione delle idee e dei contatti, nonché delle pubblicazioni e per quanto ci concerne delle riviste scientifiche, è assai cresciuta, ma anche qui non esente da processi (anche random) di verticalizzazione gerarchica.
Questo quadro della ‘produzione’ del sapere scientifico e non solo storiografico ha enormemente penalizzato l’Italia. La quale peraltro rimane caratterizzata da un panorama assai plurale e poco centralizzato e coordinato della produzione del sapere storico. Londra e Parigi, si potrebbe dire, non stanno in Italia, che rimane il Paese delle cento città e delle settanta università. In particolare, da noi, l’appannarsi di alcune grandi tradizioni storiografiche e in generale la trasformazione dell’orizzonte culturale del Paese negli ultimi venti-venticinque anni, sommato ad un passaggio di mano generazionale, ha prodotto una ulteriore frammentazione dello scenario. Per quanto qui ci concerne, poche riviste sono cessate e molte altre sono apparse (in particolare on line, un mercato però dove l’abbassamento radicale dei costi ha incoraggiato molte iniziative, alcune delle quali non di livello scientifico accettabile). Il tutto mentre, conviene notarlo, il corpo docente accademico degli storici contemporaneistici si riduceva – negli anni della crisi, dal 2008 in qua – di un quinto, mentre i fondi delle biblioteche pubbliche si riducevano drasticamente e la propensione agli abbonamenti individuali degli studiosi o degli interessati di storia crollava.
Gli effetti del combinato disposto di tutti questi fattori, internazionali e nazionali, accademici e economico-sociali, cumulati ad una crescente rilevanza della comunicazione online e open access, ha – a mio parere – evidente messo in difficoltà la formazione del sapere storico in Italia e in particolare la sua selezione, valorizzazione e circolazione attraverso le riviste scientifiche.
Molti caratteri che vengono di frequente lamentati delle e dalle riviste storiche (non solo contemporaneistiche) italiane mi paiono frutto di questa complessa realtà strutturale: la numerosità, il livello medio, l’assomigliarsi, l’assottigliarsi cioè degli aspetti distintivi sia sul piano culturale sia sotto quello formale, il loro essere spesso espressione arroccata di scuole (o di quello che ne rimane) o sedi universitarie o (difficile se dirlo carattere migliore) il loro presentarsi – solo – apparentemente come eclettico porto libero cui tutti possono attraccare, non di rado la difficoltà ad internazionalizzarsi, a valorizzare gli apporti più giovani e freschi, a superare barriere di genere (quante sono le direttrici delle riviste storiche contemporaneistiche?).
Le scelte delle istituzioni (ministero, Anvur, sedi universitarie) non sempre hanno aiutato, se è lecito usare un eufemismo.
Ad esempio, il mercato delle riviste – di storia, e non solo ovviamente – è stato pesantemente segnato negli ultimi anni dall’introduzione di meccanismi di valutazione. Nel complesso – ed anche se da una certa loro applicazione ‘Italia contemporanea’ è stata in prima battuta penalizzata – a giudizio di chi scrive il processo avviato è stato positivo. Ma è difficile negare che, per un altro tipo di combinato disposto, alcuni criteri prescelti per questa valutazione hanno lasciato largamente a desiderare e, non a caso, oggi si pensa finalmente di porre qualche correttivo. Il che, a sua volta, è un bene ma rende difficile comparare gli esiti della prima introduzione del sistema della valutazione con quello attuale e soprattutto con quello che si annuncia anche nell’immediato futuro: si pensa alla Revisione generale del sistema di classificazione delle riviste che si svolgerà nel 2016.
Per un verso, si è così assistito ad esempio alla distinzione delle riviste in fasce qualitative, legate ai SSD, e al disallineamento dei sistemi di valutazione che dovevano servire per qualificare le riviste scientifiche per l’Abilitazione scientifica nazionale di individui da quelli della Valutazione della qualità della ricerca, con il paradosso recente per cui i dati raccolti per quest’ultima (pensata all’inizio per valutare le strutture, dipartimenti ed atenei) rischiano di finire per valutare le riviste scientifiche. Ciò non attiene, ovviamente, solo le riviste di storia contemporanea, ma ha avuto in esso risultati peculiari e talora curiosi: sino a che la situazione non è stata di recente modificata, sino quindi all’inizio 2015, per il SSD M-STO/04 erano considerate riviste di fascia A 114 testate, di cui 25 italiane – non tutte contemporaneistiche – e le altre non italiane.
Per un altro verso, nessuna concreta politica di sostegno è arrivata a favore delle riviste storiche migliori, in particolare in quella che sembra la sfida maggiore: l’internazionalizzazione della circolazione del sapere da loro prodotto. Nessuno ha aiutato le riviste a superare alcuni caratteri che le penalizzano: l’utilizzo di una lingua come l’italiano in forte calo a livello internazionale, la ridotta dimensione di scala degli editori nazionali (poco attrezzati a operare ad un livello superiore alle loro forze), la scarsa sensibilità degli stessi storici. L’inserimento nelle grandi basi dati internazionali, le uniche che possano far circolare il sapere storico nazionale, è quindi per adesso avvenuto completamente random o più spesso non è avvenuto. Ancora peggio, sembra, si potrebbe dire dello stato attuale del passaggio all’open access, sempre più richiesto (dai bandi europei ad, adesso, dal Prin) ma non regolamentato e soprattutto non incoraggiato con misure di sostegno.
Molte sono le conseguenze di tutti questi processi, diciamo, strutturali della produzione del sapere storico in Italia e della sua circolazione, attraverso le sue riviste scientifiche migliori.
La più evidente mi pare la crescente frammentazione del sapere storico nazionale – contemporaneistico, per quanto qui ci riguarda –, la sua incapacità di dialogare nelle sue varie componenti, e quindi la sua decrescente capacità di poter contare: in una parola, la sua crisi. Non è sufficiente che alcuni storici, segnatamente alcuni storici contemporaneisti, siano sempre più richiesti, o sempre più si propongano, come editorialisti in una stampa quotidiana, peraltro in sempre maggiore crisi; né che i temi di storia contemporanea siano sempre apprezzati nelle librerie da una fascia importante di lettori medio colti, peraltro in una fase di costante contrazione del mercato librario; né che mass media come la televisione abbiano ‘scoperto’ (diremmo, finalmente e forse tardivamente) anche in Italia il mercato della storia, e in essa della storia contemporanea. Se si guarda al numero e alla qualità delle riviste italiane presenti nelle grandi basi dati internazionali, se si tiene conto della scarsa presenza degli autori italiani tradotti in lingue non italiane e nelle riviste internazionali, se si guarda all’insufficiente presenza di studi di autori italiani pubblicati su riviste scientifiche italiane citati negli studi internazionali (come è possibile rilevare anche solo dando una rapida occhiata a strumenti d’informazione bibliografica pure imperfetti come Googlescholar) si avrà alcuni indicatori dello stato di crisi della storiografia contemporaneistica italiana.
Usualmente, le riflessioni sulle riviste di storia contemporanea si concentrano sull’orientamento degli studi storici italiani, sul prevalere di questa o quella tendenza (dall’emergere della storia culturale al ripresentarsi ancora della più tradizionale storia politica), sul loro ritardo nell’affrontare questo o quel periodo storico, questo o quel tema specifico. Senza aver posto mano alle deficienze strutturali più sopra accennate, però, sarà difficile intendere – e modificare – lo stato attuale delle cose. In particolare, senza una politica di sostegno alle migliori riviste scientifiche del settore, a quelle che hanno già posto mano al loro miglioramento, sarà difficile superare le strozzature strutturali che rendono difficile la circolazione del sapere storico contemporaneistico italiano.
5.La “crisi della storia” non si risolve con i manifesti e – come dimostrano da trent’anni a questa parte i dibattiti sul relativismo – non è certo solo italiana. Alcune difficoltà si sentono maggiormente in Italia, dove le scienze storiche e segnatamente la storiografia contemporaneistica aveva avuto nei decenni precedenti un ruolo di primo rilievo non solo fra le discipline storiche ma anche nella formazione degli orientamenti culturali e persino delle culture politiche del Paese. Più di recente, quel ruolo si è appannato, per l’indebolirsi e il trasformarsi sia delle culture politiche sia della ricerca storica. Non vedo rischi di delegittimazione della ricerca storica che provengano dalla divulgazione: chiunque invece può vedere l’incapacità troppo frequente degli storici italiani a fare una buona divulgazione che possa erodere o quanto meno contendere lo spazio che naturalmente, in quest’ambito, hanno e devono avere altre professioni, come quella dei giornalisti e in genere degli operatori dei mass media.
La vitalità di una ricerca storica nazionale, lo stato della storia di un Paese si misura però anche nel livello delle sue riviste storiche cioè, per quanto qui ci concerne, di quelle contemporaneistiche. L’indebolirsi, l’appiattirsi, l’omologarsi di questi strumenti di circolazione, di professionalizzazione e di miglioramento della ricerca storica non fanno bene agli studi.
Per parte sua “Italia contemporanea” – con la sua redazione di studiose e di studiosi provenienti da diverse sedi universitarie, di diverse generazioni e di diversi interessi di ricerca, non tutte-i (ancora, speriamo) operanti nell’Università, alcune-i dei quali operanti nella rete degli Istituti della Resistenza regionali e provinciali –, cerca di dare un proprio contributo di forte innovazione storiografica nel solco di una lunga tradizione: una rivista rigorosa ma non omologata, aperta alle sperimentazioni e curiosa verso i percorsi meno battuti, capace di inserirsi dentro i grossi dibattiti della storia contemporanea, sensibile alle ricadute della pratica storiografica nel dibattito pubblico e, sempre, plurale e desiderosa di porre domande aperte.