Di Salvatore Botta
Il volume ha due indubbi pregi, uno di forma, l’altro di contenuti. È scritto bene, la narrazione risulta scorrevole, priva di spigolosità lessicali e concettuali. Non meno importante la ricerca di Lucarini accende i riflettori su un rappresentante del liberalismo conservatore a cui la storiografia non mi pare, ad oggi, abbia riservato il dovuto interesse. Mentre, per esempio, sull’opera di un altro esponente di spicco del conservatorismo postunitario come Sidney Sonnino – con cui Salandra avrà rapporti politici molto stretti – esistono ormai studi maturi, su Salandra sembra essere calato il silenzio. Eppure è stato uomo pubblico, delle istituzioni, ha ricoperto più volte il ruolo di ministro, è stato presidente del Consiglio, ed è stato tra i principali protagonisti e responsabili dell’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale.
Ma chi era Salandra? Discendente da un’agiata famiglia pugliese di proprietari terrieri, nel 1872 si laurea in giurisprudenza a Napoli e, dopo aver insegnato legislazione economico-finanziaria nello stesso ateneo, nel 1885 ottiene a Roma la cattedra di scienza dell’amministrazione. Nella capitale conosce ed entra in rapporti con Sidney Sonnino, che lo introduce alla politica. Nel 1886 viene eletto per la prima volta deputato e diviene ferreo oppositore di Agostino Depretis e del suo trasformismo. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento ricopre ruoli di governo prima con Di Rudinì, poi con Crispi, quindi con Pelloux e infine con Sonnino. Negli anni del governo Giolitti passa da convinto sostenitore del Presidente del Consiglio a suo oppositore – non condividendone affatto, tra l’altro, la politica di neutralità riguardo a quello che sarà il primo conflitto mondiale – fino a succedergli nel 1914. Da Primo Ministro, Salandra opta – per convenienza e non certamente per convinzione, almeno mi pare così emerga dalle pagine di Lucarini – per il non intervento nel conflitto europeo, nella speranza di ottenere dall’Austria attraverso una politica di “sacro egoismo nazionale” la restituzione dei territori della Venezia Tridentina e della Venezia Giulia. Rivelatasi vana tale aspirazione, attraverso il suo ministro degli esteri, Sonnino, avvia trattative segrete con Francia, Regno Unito e Russia e, il 26 aprile 1915, sottoscrive il Patto di Londra in base al quale i nuovi alleati riconoscono all’Italia, in cambio della sua entrata in guerra ed a vittoria ottenuta, il diritto di occupare la Dalmazia ed alcuni territori in Africa: patto che, peraltro, gli Alleati non rispetteranno. Il 23 maggio 1915, sull’onda delle violente dimostrazioni di piazza interventiste che infiammano il paese e della rinnovata fiducia del sovrano, andando contro una maggioranza parlamentare neutralista che lo aveva già costretto una volta alle dimissioni e che è stata lasciata all’oscuro sulle manovre di politica estera del governo, Salandra dichiara l’entrata in guerra dell’Italia contro gli austro-ungarici. Ma l’interventismo “strabico” (lo definirei così, visto che le ansie del governo non riguardavano la Germania, con la quale probabilmente avrebbe voluto continuare ad avere buoni rapporti), sostenuto fino al punto da attuarlo anche contro la volontà del Parlamento, si infrange contro i primi successi austriaci in Trentino e Salandra, nei primi mesi del 1916, si dimette. Conclusa la guerra, prende parte alla Conferenza di Parigi, nella quale gli Stati vincitori ridisegnano la carta geografica dell’Europa. Mentre agli esordi del fascismo Salandra mostra una certa simpatia per un movimento intorno al quale spera sia possibile coagulare le diverse anime di un liberalismo moderato che dopo la frattura del 1876 (se non ancora prima, dopo la scomparsa di Cavour) non ha più saputo darsi una propria identità e visibilità. Scelta che gli valse la dura reprimenda di Giovanni Amendola, esponente di spicco del liberalismo democratico, il quale prendendo le distanze dal conservatorismo di Salandra scriverà su “Il Mondo” del 21 marzo 1924:
Ci basta considerare che l’on. Salandra si pone di fuori dal pensiero storico del liberalismo italiano, il quale non avrebbe mai glorificato regimi basati sulla forza anziché sul consenso; e che egli non può ormai rivendicare il titolo di erede di quella destra storica, che Camillo Cavour consentì su basi ben diverse – col “connubio” famoso con elementi d’impostazione democratica – per rivendicare la libertà, tutte le libertà, e soprattutto quelle politiche, contro un’altra destra, quella di Solaro della Margherita, che bandiva idee non molto diverse da quelle attuali dell’on. Salandra.
Benedetto Croce, nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915, porrà Salandra fuori da quella tradizione di pensiero che affondava le proprie radici nel severo liberalismo di Silvio Spaventa. A onor del vero, alla fine del 1924 Salandra si dimette da Presidente della Giunta del bilancio rompendo con il Fascismo su cui ormai si stende l’ombra del delitto Matteotti e della politica liberticida. Ormai fisicamente provato nel 1925 abbandona la politica per dedicarsi ai suoi studi, prima di essere nominato senatore nel 1928.
Uomo di specchiata moralità e onestà, indubbiamente un “gentiluomo”, come lo definisce Lucarini nel titolo del libro, Salandra è stato intellettuale, giurista ed economista di spessore come emerge sempre dall’attenta ricostruzione che Lucarini fa di alcuni dei principali contributi scientifici redatti dal deputato di Lucera, accademico dei Lincei, il quale ha avuto il merito di elevare la “giustizia amministrativa” alla dignità di branca di studio autonoma all’interno del più ampio settore del diritto pubblico. È studioso attento che nel riflettere su alcuni temi “caldi” della politica otto-novecentesca come: le assicurazioni sulla vita (si oppone ad un ingresso a gamba tesa del pubblico nel privato), il divorzio (istituto che non contesta per principio, ma, in base allo “spirito dei tempi”, ritiene che l’Italia non si pronta ad introdurlo nella propria normativa civile), l’agricoltura e la questione meridionale (con una certa dose di “darwinismo sociale” sostiene che l’Italia, paese fondamentalmente agricolo, debba puntare su questa risorsa e non su una industrializzazione per la quale la società stessa non è pronta; e non con provvedimenti a pioggia, come oggi si definirebbero, bensì incentivando solo quei proprietari che dimostrino di saper aumentare la resa per ettaro migliorando anche le tecniche di coltivazione); la gestione della finanzia pubblica (ritiene che i comuni debbano essere classificati e quindi economicamente aiutati tenendo conto del grado di inurbamento, di accrescimento della proprietà immobiliare, della concentrazione dei capitali, del credito, dell’industria rispetto all’agricoltura) mostra una indiscutibile coerenza con i propri valori di liberale conservatore, ma allo stesso tempo una certa dose di “realismo” come lo definisce lo stesso Lucarini.
Un realismo inteso in senso positivo, ossia come strumento intellettuale che permette appunto di leggere i tempi, e non certo come animo al compromesso fine a se stesso, al sotterfugio, di cui mi pare leggendo le pagine di Lucarini, Salandra faccia un uso oculato almeno agli esordi della sua carriera politica. Entra a far parte come ministro o sottosegretario in governi di natura molto diversa, ma lo fa non per opportunismo, ritengo, bensì nella intima convinzione di poter trovare un giorno una pratica sintesi al suo progetto di “liberalismo nazionale”. Avvia infatti una proficua collaborazione con Francesco Crispi su alcuni temi che a Salandra stanno particolarmente a cuore: l’innalzamento delle tariffe doganali per la protezione della produzione agricola, l’estensione del suffragio amministrativo con l’abbassamento del censo per l’accesso alle consultazioni locali (con un occhio rivolto al sud), la messa a punto di un ruolo di garanzia, rispetto all’azione della pubblica amministrazione nei confronti dei cittadini, affidato al Consiglio di Stato. Entra negli esecutivi di guidati da esponenti politici a lui affini come Di Rudinì e Sonnino (nel 1906 collabora con il leader toscano al risanamento del deficit di bilancio che questi ritiene gli abbia lasciato in eredità il suo predecessore), ma per un certo periodo fiancheggia anche l’azione di Giolitti. L’occupazione della Libia e l’estensione del suffragio politico perseguiti dallo statista di Dronero, nell’ottica salandrina potrebbero infatti rientrare in quella visione di uno Stato forte, persino autoritario che, secondo il modello bismarckiano, avrebbe dovuto, al contempo, sapersi legittimare dal basso attraverso un voto ampiamente popolare.
Poi però, proprio quando raggiunge l’apice della carriera politica assumendo la guida del governo nel marzo del 1914 l’azione di Salandra risulta essere inficiata da una sorta di “miopia politica” che non si può certo ricollegare al fato “cinico e baro”. Indubbiamente, nel momento in cui Salandra diventa presidente del Consiglio, l’Italia si trova in balia di una fase storica turbolenta senza precedenti: “la settimana rossa”, “le radiose giornate di maggio”, il precipitare degli eventi internazionali, il socialismo e il nazionalismo che si contendono le piazze. Ma ciò non mi pare giustifichi quella sorta di “colpo di stato”, fatto aggirando il parlamento sull’onda delle proteste di piazza e su istigazione del re, di cui Salandra fu volente o nolente protagonista alla vigilia dell’ingresso italiano nel primo conflitto mondiale. Come emerge dal volume di Lucarini, l’entrata dell’Italia nella Prima guerra mondiale, secondo i disegni dell’esecutivo guidato da Salandra, avrebbe dovuto avere un duplice scopo: per quanto riguarda la politica interna, affossare il sistema giolittiano e affossare il movimento operaio cresciuto all’ombra dello statista di Dronero; per quanto riguarda la politica estera, dar sfogo al “sacro egoismo” di un’Italia che grazie allo scoppio della “quarta guerra d’indipendenza”, come all’epoca fu definita da una parte dell’opinione pubblica, avrebbe dovuto completare i propri confini naturali inglobando Trento, Trieste, la Venezia Giulia, l’Istria fino a Fiume. La domanda che sorge spontanea è perché però Salandra si sia prestato ad un disegno “sovversivo” ordito dal re e dai suoi generali, ignorando totalmente dinamiche parlamentari che se, da un lato, erano costrette a riconoscere al sovrano, come da Statuto Albertino, un ruolo di primo piano nella gestione della politica estera, dall’altro, si erano decisamente avviate (dopo la crisi di fine secolo) lungo i binari di un rapporto “dialettico”, di fiducia, tra le camere e l’esecutivo.
Salandra diventa presidente del Consiglio senza alcuna intenzione di preparare il terreno ad un ritorno di Giolitti, anzi nella convinzione che sia necessario dar vita ad un “liberalismo nazionale” capace di riparare ai guasti del giolittismo (ossia l’abbraccio mortale con due forze popolari ritenute scarsamente patriottiche: il socialismo “internazionalista” e il cattolicesimo “umanitarista e universalista”). Scriverà infatti Salandra a Benedetto Croce in una lettera del 28 gennaio 1928, nella quale il politico di Lucera tenta di qualificare i liberali giolittiani come “democratici” e se stesso, Sonnino e Pelloux, come “liberali” autentici, eredi di Silvio Spaventa:
Più giusto, a parer mio, sarebbe distinguere i liberali autoritari, che si ricollegano a Spaventa, e i liberali democratici. Io anzi vado più in là. Credo che in Italia il liberalismo fu spento dalla democrazia, dalla quale è diverso; spesso anzi la democrazia è il suo contrario, come allorchè il socialismo la investe e la domina. La vittoria di Giolitti e compagni su Pelloux e compagni segnò la svolta non dalla reazione al liberalismo, ma dal liberalismo alla democrazia, per la quale l’Italia era profondamente immatura e disadatta.
Ma nel portare avanti questo suo tentativo di ricomporre le schegge del liberalismo, Salandra non si affida ad una propria maggioranza (in un’epoca in cui il sistema costituzionale ha assunto ormai una spiccata impronta parlamentare) entrando perfino in rotta di collisione con Luigi Albertini, direttore-proprietario del Corriere della Sera, col quale alla vigilia della Prima guerra mondiale aveva condiviso il progetto di un rafforzamento in senso autoritario delle istituzioni: Albertini nel 1923 pensa polemicamente ad un partito liberale organizzato da contrapporre a quegli esponenti della classe liberale come Salandra che invece avevano segnato il tramonto del liberalismo italiano alleandosi col fascismo.
Come evidenzia lo stesso Lucarini, una volta giunto alla guida del paese, per tradurre in realtà la “politica nazionale” di cui si faceva portavoce avrebbe dovuto garantirsi l’appoggio integrale della maggioranza giolittiana, dall’altra dispiegare un’offensiva contro il partito socialista, cercando di attrarre nella propria orbita i cattolici e la pattuglia dei nazionalisti. Ma non fece nulla di questo, preferendo evitare manovre di corridoio. Nobile scelta, ma fallimentare perché ormai in pieno Novecento non solo appariva velleitario pensare ad un “liberalismo nazionale”, ma ancora di più pensarlo al di fuori di consolidate dinamiche parlamentari e non avendo un contatto effettivo con quel paese reale dal quale emergono soggetti nuovi, i partiti di massa con la loro capacità di creare empatia, certo non con le alchimie di corridoio, bensì con strumenti di propaganda e di lotta dagli effetti dirompenti rispetto agli equilibrismi della politica da salotto che aveva scandito i primi decenni post-unitari.
Atteggiamento anacronistico il suo? Croce inquadrerà le figure di Sonnino e Salandra tra quelle del conservatorismo “dottrinario”: cioè personalità animate da autentico patriottismo, ma prive della capacità di tradurre i loro intendimenti etici in progetto politico concreto (giudizio espresso pensando alla contrapposizione tra l’asse Sonnino-Salandra e l’intesa Zanardelli-Giolitti).
Rimane una figura sfuggente, quella di Antonio Salandra, che appare di sicuro ingiusto etichettare come il precursore di Mussolini, come qualcuno ha tentato di fare mettendo in parallelo le modalità con le quali si è consumata la marcia su Roma e le modalità con le quali il governo Salandra portò in guerra l’Italia. Tuttavia, nella gestione della crisi che apre le porte all’interventismo italiano, egli non pare comprendere fino in fondo quanto il tema della crescente polarizzazione dello scontro sociale sia ormai ineludibile per chiunque nel XX secolo intenda cimentarsi con un progetto di governo minimamente credibile. Sta di fatto che, Salandra, dopo aver scavalcato il parlamento, non si pone il problema di creare un governo di unità nazionale (come avvenne invece nella maggior parte degli Stati coinvolti nel conflitto bellico) in grado di traghettare il paese attraverso la Grande Guerra e di tenere almeno in scacco le istanze democratiche. Istanze democratiche che alla fine del conflitto, per la loro immaturità, ma anche per la intraducibile visione organicistica dello Stato moderato pensato da Salandra non riusciranno ad arginare l’ascesa del regime in camicia nera.