di Gianni Sofri
È sempre difficile, e anche doloroso, scrivere di una persona che ci ha lasciati, e doverne parlare con oggettività. È ancora più difficile quando la persona che ci ha lasciati è più giovane di chi rimane e si trova ora a parlarne: sopravvivere a una persona più giovane genera sempre sensi di colpa e acuisce la tristezza. La difficoltà tende ad aumentare ulteriormente quando di quella persona si è stati amici per quasi cinquant’anni, dapprima in un rapporto docente-studente, poi in un rapporto di colleganza in un mestiere comune a entrambi, e da entrambi svolto, quasi senza accorgersene, seguendo principi comuni. Una comunanza che non chiamerò di metodo (parola abusata, della quale ci si riempie troppo spesso la bocca), ma più dimessamente di un modo di lavorare, di intendere ricerca e insegnamento. Ho usato non a caso la parola “mestiere”, parola e concetto di gran nobiltà. Benché non ricordi di avere parlato esplicitamente di questi argomenti con Fiorenza, sono convinto che anche lei avrebbe condiviso e gradito la mia simpatia per questo modo di vedere il nostro lavoro, e di dargli nomi non altisonanti (ma non per questo meno chiari ed eloquenti), come mestiere o artigianato.
Conobbi Fiorenza, e insieme a lei Alberto Preti (di un anno più grande, che avrebbe poi avuto con lei una lunga e solo di rado interrotta condivisione di ricerche e di discussioni); conobbi Fiorenza, dicevo, nel 1967 o nel ’68, vale a dire quando aveva fra i diciannove e i vent’anni. Io ne avevo trentuno o trentadue, e dal 1961 ero assistente volontario alla cattedra di Storia contemporanea della Facoltà di Magistero, di cui era allora titolare Aldo Berselli. Mentre Berselli teneva prevalentemente dei corsi sull’Italia postunitaria, o quanto meno su problemi europei, io ne affiancavo l’attività con dei seminari su Paesi e problemi extraeuropei, neppure immaginando che avrei poi insegnato per ventidue anni la Storia dei Paesi afroasiatici. Fiorenza e Alberto, che si laureavano con Berselli, seguirono però anche, con grande partecipazione (di testa e di cuore, vorrei dire), il mio seminario, sicché potei capire molto presto che erano due studenti di grande intelligenza, animati da una voglia profonda di informarsi e capire. Considero tuttora un’autentica fortuna quella di averli avuti come studenti e poi, quasi da subito, amici.
Fiorenza non era originariamente quello che si dice una prima della classe, di quelle che arrivano all’università sapendo già tutto per aver avuto vita facile nelle scuole migliori e nelle migliori biblioteche di famiglia. Al contrario, veniva da una famiglia socialmente modesta, ed era (e rimase sempre) fortemente legata al suo contesto originario, a partire dall’essere nata alla Bolognina, il cuore della Bologna popolare (era nata nel 1948, e ci ha lasciato nel luglio di quest’anno 2017). Nel suo modo di vedere, la cultura era conquista lunga e difficile, legata all’idea di fatica, di lavoro non sempre agevole o lieve, ma da lei accettato con gioia perché rispondeva ai suoi interessi e alla sua ricerca di una funzione anche sociale. In quegli anni, la Facoltà di Magistero (che poi sarebbe diventata Scienze della Formazione) era considerata, un po’ snobisticamente, una facoltà di Lettere di serie B, se non altro perché i suoi studenti, prima di una riforma, avevano frequentato quattro anni anziché cinque di superiori, e perché era rivolta più a formare formatori che ricercatori scientifici. In realtà, molti fra gli studenti facevano già i maestri o avevano altri lavori. In alcuni casi si trattava di signore di quasi mezza età che, divenuti grandicelli i loro figlioli, si concedevano il gusto di tardive iscrizioni all’Università. Nel complesso, era una popolazione decisamente simpatica, con cui mi trovavo molto bene e che ricordo con affetto e nostalgia. Anche questi aspetti sociali contribuirono probabilmente a dare a Fiorenza (e anche ad altri) una tempra di studiosa che conosceva assai bene l’importanza e la responsabilità di ciò che stava facendo. Non si pensi però a una studiosa severa e quasi savonaroliana: tutt’altro. Fiorenza sapeva essere seria, ma il suo impegno non le impedì mai di divertirsi, nei rapporti con le persone ma anche nel suo lavoro, che amava molto: lo ha già osservato, assai giustamente, Elda Guerra.
Parlerò in seguito, ma piuttosto brevemente, delle fasi della sua carriera e soprattutto dei suoi temi di studio e dei suoi libri, perché queste sono le notizie che è più facile trovare nei pochi scritti che la ricordano affettuosamente o nei documenti accademici ufficiali, solo in piccola parte presenti in internet (Fiorenza era assai schiva, sarebbe stata una cattiva pubblicitaria di se stessa). Continuerei invece a parlare della persona e della studiosa nelle sue caratteristiche più profonde e più intime.
Vorrei sottolinearne, innanzitutto, due qualità molto importanti, che erano l’operosità e la generosità. La sua operosità scientifica in senso stretto (in particolare, quelle che si chiamano “pubblicazioni”) risulterà, spero, anche nel corso di questo scritto. Ma limitarsi solo a questo sarebbe fortemente riduttivo. Fiorenza aveva una capacità di lavoro che le permetteva di unire armoniosamente i vari aspetti della sua vita: studiosa e organizzatrice di cultura, ma anche impegnata nel gestire una casa e una famiglia, con il marito William e la figlia Elena, che ne ha ereditato la passione per la storia e la straordinaria voglia di fare. Era un’operosità, peraltro, quella di Fiorenza, mai frenetica, mai agitata, ma sempre serena e capace di trasmettere la stessa serenità a chi le era vicino e lavorava con lei. Non me ne voglia il caro Alberto Preti se ricordo che più volte, quando la loro collaborazione pareva a rischio per la stanchezza e l’incertezza che sono malattie professionali degli studiosi, era quasi sempre lei ad agire da elemento di equilibrio, a calmare e stimolare finché la crisi non fosse superata.
E poi la generosità. Fiorenza era quanto di più lontano si potesse immaginare dalla figura della studiosa solitaria, perennemente china sui libri in una biblioteca o nella stanza di un istituto. Certo, frequentava molto quei luoghi, ma sapeva uscirne, per esempio per ripercorrere le tracce delle sue ricerche di storia locale. Ricerche varie e numerose, ma mai riducibili alla categoria di una storia locale erudita fine a se stessa. Quando Fiorenza studiava le società operaie di mutuo soccorso, le cooperative o angoli particolari della Bologna ottocentesca fatti rivivere da raccolte fotografiche, non era mai un’impiegata addetta alla storiografia, ma una persona concretamente inserita in un contesto di luoghi e di altre persone, alle cui vite concrete andava soprattutto il suo interesse.
Ma Fiorenza non era mai sola anche in un altro senso. L’elenco delle sue opere (articoli o libri o volumi collettivi) mostra una nettissima prevalenza di lavori in collaborazione. Spesso i suoi collaboratori erano giovani neolaureati o ancora studenti, di cui lei accompagnava i non sempre facili esordi. E poi, Fiorenza aveva sempre voglia di imparare, di avere nuovi maestri o semplicemente di misurarsi con nuove ricerche e altri ricercatori. Ho già nominato Berselli e Preti. Ma molti altri vanno ricordati: per non citarne che alcuni, Carlo Doglio con il suo seminario interdisciplinare su Borgo-città-quartiere–territorio, Paolo Sorcinelli, Alberto Malfitano, Nico Berti e Giorgio Vecchio (e non va certo dimenticato Angelo Varni, successore di Berselli nella cattedra di Contemporanea) ebbero modo di collaborare con lei, di influenzarla o di farsene influenzare. (Ho volutamente lasciato da parte, per il momento, le storiche delle donne, che sono poi storiche tout court, sulle quali vorrei tornare perché mi sembra che Fiorenza lavorasse con loro in un rapporto particolare).
Della generosità di Fiorenza ho un ricordo che mi riguarda direttamente e che ho già raccontato in un piccolo libro, ma che vorrei qui brevemente riprendere. Negli anni Novanta (non ricordo esattamente quando) mi misi in testa che fosse possibile sperimentare, al livello delle classi finali delle superiori (preparazione alla maturità, per intenderci), un tipo di manuale, e quindi anche di insegnamento della storia, assolutamente diverso da quello tradizionale: riduzione della storia dei fatti, quella che i francesi chiamano événementielle, a una ricca cronologia ragionata, e affidamento del grosso della trattazione a capitoli di carattere tematico. Non dedicherò altro tempo e spazio a spiegare in questa sede un’idea piuttosto complessa. Preferisco passare a dire che non riuscii a scrivere questo libro, anche se all’inizio mi ero molto divertito a scriverne una parte. Ma dopo quel buon inizio, caddi vittima di un certo cincischiare, tipico sintomo di una crisi lavorativa e personale, che mi fece capire che era meglio abbandonare il progetto e affidarlo ad altri. Anche perché la casa editrice ormai se l’aspettava realizzato. A chi potevo rivolgermi? A Fiorenza e ad Alberto, naturalmente. I quali capirono subito la mia situazione e mi dettero la loro disponibilità ad aiutarmi (o meglio, a sostituirmi). In tempi relativamente brevi portarono a termine un’opera non ideata e non progettata da loro, il che rendeva la loro fatica più ingrata. Ma con l’aiuto di ottimi collaboratori realizzarono comunque un libro (si chiama: Percorsi di storia contemporanea, lo pubblicò la Zanichelli) che è stato apprezzato da numerosi studenti e professori. Io l’ho riguardato di recente e ho pensato che gli studenti che preparano la maturità avrebbero assai da guadagnare a leggerlo. E sarò sempre grato a Fiorenza (e ad Alberto) per avermi aiutato.
Questo per la generosità. Voglio solo aggiungere che il contributo principale di Fiorenza in quel libro si intitolava “Minacce alla vita”, e trattava di come le scienze, la medicina, l’igiene, avessero modificato, indubbiamente in meglio, la vita delle persone nel corso dell’ultimo secolo e mezzo. Aveva cioè scritto una sintesi molto bella, di alta divulgazione di suoi studi originali sugli stessi temi. La sua lettura, oggi, non farebbe certamente male neppure ai no-vax che hanno, ahimè, sfortunatamente invaso i social media e non solo.
Fiorenza Tarozzi si era laureata con lode nel 1970 con una tesi sulla Società Operaia di Bologna dal 1877 al 1885. Dai suoi primi interessi, legati in buona parte all’insegnamento di Berselli (storia del socialismo e dell’anarchismo, del movimento cooperativo e del mutualismo operaio dell’Ottocento, origini del fascismo) nacque già nel ’72 un primo articolo sui Fasci di combattimento bolognesi. E’ del 1987, frutto di un lungo lavoro, Il risparmio e l’operaio, primo di una serie di volumi dei quali mi limiterò qui a citare alcuni titoli tra i più significativi: Curare gli italiani, sulla legislazione sanitaria al momento dell’Unità; un ampio studio sui cent’anni di storia della Cooperativa Ceramica di Imola; una storia della cremazione in Italia fra il 1880 e il 1920 (La morte laica, con F. Conti e A. M. Isastia, e prefazione di F. Della Peruta); due volumi sul tempo libero: il primo intitolato Tempo della festa, tempo del gioco, tempo per sé, il secondo, una Storia fotografica della società italiana (con P. Sorcinelli); e ancora, Donne e cibo. Una relazione nella storia (con M.G. Muzzarelli).
Ognuno di questi volumi, e di molti altri che non ho qui ricordato, è accompagnato da studi preparatori, articoli su riviste, partecipazioni a convegni e a raccolte miscellanee di vari autori, introduzioni a mostre. In questo succedersi molto fitto di contributi (l’operosità di Fiorenza non ha mai conosciuto pause) si notano alcune caratteristiche particolari.
C’è, innanzitutto, una fedeltà di massima ai temi giovanili, quelli relativi all’economia e alla società dell’Italia (ma soprattutto di Bologna e dell’Emilia nell’età postunitaria). Ai quali si aggiunge un’attenzione mai interrotta al socialismo e al movimento anarchico, cui Fiorenza guardava con occhi di socialista libera e libertaria, quale voleva essere. Non a caso partecipò con molto interesse, insieme ad amici come Nico Berti, alla redazione del Dizionario biografico degli anarchici italiani, per il quale aveva redatto voci importanti come quella su Genunzio Bentini, di cui avrebbe voluto riprendere lo studio, e soprattutto quella su Virgilia D’Andrea, la poetessa dell’anarchismo cui aveva dedicato diversi lavori.
In secondo luogo, però, si nota un allargarsi progressivo degli interessi ad alcune tematiche storiografiche più recenti: la fotografia, la guerra come sofferenza e come memoria dei superstiti, l’emigrazione e una gran quantità di aspetti della vita quotidiana.
Spesso si collegano, queste nuove tematiche, a una riscoperta del Risorgimento, quasi per un bisogno di risalire a radici più antiche: Curtatone e Montanara, i diari di esuli e di patrioti, ma anche i manuali e i libri di letture per le scuole, le celebrazioni del 1859 a Bologna, il teatro, la letteratura, le lapidi patriottiche. In questa riscoperta del Risorgimento mi sembra abbiano avuto una particolare influenza la presidenza assunta da Fiorenza nel 1999 del Comitato bolognese dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, e alcune conseguenti amicizie e collaborazioni (in questo caso, quelle di Mirtide Gavelli e Otello Sangiorgi). (Fu anche, a lungo, membro del Direttivo dell’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea di Bologna. Ma di questa consuetudine di Fiorenza a impegnarsi e collaborare alla vita delle istituzioni parlerò ancora).
Uno degli ultimi scritti di Fiorenza, pubblicato su “Percorsi storici”, una rivista online del cui comitato scientifico aveva sempre fatto parte con i suoi preziosi consigli, è un articolo che esemplifica bene quanto dicevo del suo rinnovato approccio al Risorgimento, della sua raggiunta, matura capacità di guardare tranquillamente, alternando più paia di occhiali, a questa epoca così importante della nostra storia. Si tratta per l’appunto di una limpida sintesi del Risorgimento a Bologna, volta a combattere l’idea (ma le polemiche di Fiorenza erano sempre molto serene e pacate) di un ruolo secondario e marginale della città nel processo risorgimentale. Parte, questa sua sintesi, dal Congresso di Vienna e dai suoi effetti sulle Legazioni. Affronta poi i problemi economici: statistiche, ma anche il lavoro degli uomini, le istituzioni (la Società agraria, la Cassa di risparmio). C’è quindi, in queste poche ma dense pagine, il racconto dei fatti, l’histoire événementielle (guai a dimenticarla!): i patrioti, la cacciata degli austriaci nel ’48, le feste per l’unificazione. Ma qua e là il racconto si interrompe e si arricchisce di notazioni sui teatri e l’opera, e poi i giornali e i periodici, i salotti e la vita letteraria, la cultura e la ricerca scientifica nello Studio bolognese. E infine, last but not least, la partecipazione delle donne.
Arriviamo così a quella che è stata (penso veramente di poter usare questo termine) l’ultima, e quanto mai importante, passione storiografica di Fiorenza: la storia delle donne. È in questo campo che si vede soprattutto l’amore di Fiorenza per i lavori in collaborazione, e la cosa si può ben capire se si pensa a come la storia delle donne si leghi strettamente al femminismo, a esperienze di volta in volta felici o difficili, comunque implicanti condivisione, impegno e solidarietà. Perlomeno nell’impressione di un lettore maschio, e di un osservatore di persone, qui veramente non c’era gerarchia, non c’erano maestre e allieve, ma una cooperazione spesso gioiosa e allegra fra colleghe/amiche. Non potrei mai escludere, naturalmente, che ci fossero anche in questi gruppi che di volta in volta si creavano contraddizioni e diversità di pareri e di caratteri e di umori. Ma almeno per quanto riguarda Fiorenza, che io conoscevo bene, sono certo delle sua capacità di rasserenare, di trovare le mediazioni giuste, di aiutare. Portava peraltro questa voglia di aiutare, di essere utile anche affettivamente, nella sua attività di insegnante, sempre felice di cogliere le capacità di ragazzi e ragazze e di indirizzarne la crescita stando loro vicina. È facile capire come e perché certi scritti sulle conquiste politiche delle donne tra Otto e Novecento, ma anche sull’evoluzione della loro vita quotidiana, dai rapporti di coppia al tempo libero, dal rapporto fra il cibo e il ruolo femminile al lavoro delle donne, fino alla partecipazione delle donne all’antifascismo e alla Resistenza, si leghino strettamente (spesso anche attraverso una dichiarazione esplicita di collaborazione nella scrittura) a riunioni, discussioni, scambi: a volte, perché no, anche polemiche. Si legano alla Biblioteca delle donne, ad associazioni e comitati, a convegni, persino spettacoli. Ci sono tanti nomi che ricorrono, e sono quelli, per citarne solo alcuni (non me ne vogliano le storiche dimenticate), di Elda Guerra, Dianella Gagliani, Laura Mariani, Anna Salfi, Giuseppina Muzzarelli, Annamaria Tagliavini, Mirtide Gavelli, la giovane Elena Musiani, figlia amatissima e storica anch’essa.
Non si pensi però a un circolo chiuso. Le porte chiuse non appartenevano alla cultura e allo spirito di Fiorenza. Spesso colleghi maschi partecipavano tranquillamente a un lavoro comune, e non a caso ho citato qui sopra alcuni esempi di amicizia e collaborazione.
Fiorenza era veramente instancabile oltre che versatile, capace di adattarsi a ogni tipo di lavoro e quasi sempre disponibile rispetto alle richieste che le venivano fatte. Nel maggio del ’16 celebrò con una lezione il settantesimo anniversario del voto alle donne davanti al Consiglio comunale di Modena (ma già in precedenza aveva accettato impegni istituzionali di questo tipo anche a Bologna). Si occupò di geografia storica per curare, con Alberto Preti e Giovanni Greco, il volume su Bologna nei secoli XVIII-XX per l’ Atlante storico delle città italiane curato da Francesca Bocchi ed Enrico Guidoni. Scrisse molte voci (relative in prevalenza a patrioti risorgimentali, come Angelo Marescotti) per il Dizionario biografico degli italiani: una vera scuola di precisione e serietà filologica. Quando, nel 2005, la Facoltà di Magistero, ormai di Scienze della Formazione, festeggiò i suoi cinquant’anni di vita con un convegno e poi con un grosso volume, i due amici di sempre, Preti e Tarozzi, scrissero insieme un bilancio dell’insegnamento di Storia contemporanea. E ancora nel febbraio del ’17, quando già la sua salute era precaria, Fiorenza presiedeva un convegno su Luciano Lama e la CGIL.
Questo aspetto, della sua versatilità, è stato segnalato anche da Alberto Preti in un breve ma intenso ricordo. Preti ha osservato come l’ampiezza dei suoi interessi di studio le abbia consentito di tenere nelle Facoltà, Scuole e Master in cui ha lavorato, insegnamenti che vanno da Storia contemporanea a Storia sociale, dalla Storia del Risorgimento alla Storia delle donne in età contemporanea. Era però sempre una versatilità, una varietà di interessi, che non concedeva mai nulla alla leggerezza e al consenso facile. Al contrario, la curiosità nasceva dal lavoro e dalla fatica, e ad essi si accompagnava. Così come si accompagnava –l’ho già accennato- a un senso profondo della serietà e della responsabilità sociale del mestiere dello storico.
Per tutte queste ragioni, e per altre più personali (a cominciare dal suo sorriso), Fiorenza Tarozzi Musiani ci mancherà molto, e molto verrà ricordata.