di Francesca Cavazzana Romanelli, Ernesto Perillo
Abstract
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Una ideale linea del tempo
Convergenze e collaborazioni, quelle fra il mondo della scuola e la realtà degli archivi, oramai di lunga durata e dalle molte sfaccettature: un incontro che ci è parso interessante ripercorrere quantomeno per cenni, nel suo evolversi lungo il corso di questi ultimi quattro decenni, alla luce della categoria della ‘complicità’. A sottolineare non solo l’oggettivo confluire, inizialmente quasi clandestino e via via più manifesto e consapevole, di attività proprie delle rispettive professioni, ma pure l’atteggiamento di insegnanti, studiosi e archivisti nella comune costruzione di pratiche e saperi: che nella reciproca frequentazione hanno trovato e ritrovano tuttora felicemente nuovi significati e più vaste risonanze.
Le tappe di questo itinerario di avvicinamento e di collaborazione così come ci è parso di coglierle sono coincise, a guardar bene, con momenti forti del rispettivo dibattito disciplinare e della stessa fisionomia professionale di archivisti e insegnanti, mettendo in questione identità professionali consolidate e modelli tradizionali di organizzazione del lavoro. Sono state sollecitate riflessioni sul ruolo delle scuole e degli istituti archivistici nei confronti delle molteplici realtà del territorio. Si sono incrociate e confrontate problematiche didattiche e di ricerca con altre relative all’approccio e alla critica delle fonti, facendo emergere questioni storiografiche cruciali quali il rapporto fra trasmissione e costruzione delle conoscenze e delle competenze, fra storia e memoria, fra storia generale e storia locale.
Quella che tenteremo qui di tratteggiare è una sorta di sintetica rassegna di momenti di riflessione, dibattiti, pubblicazioni, realizzazioni attorno al nodo della didattica degli (o “negli”, o “con gli”) archivi: una riflessione per la quale attingeremo, talora riproponendone anche testualmente qualche settore, a una fitta letteratura disponibile sul tema, a cui rinviamo per eventuali riferimenti e approfondimenti; ricerche e attività d’altra parte tutt’ora in corso su orizzonti di grande attualità, sia per il mondo della scuola che per quello degli archivi, specie per quanto riguarda l’apertura al digitale tanto nella didattica che nella comunicazione e nella valorizzazione in ambito archivistico e in generale in quello dei beni culturali.
Una ideale linea del tempo ci ha guidato nell’individuare una sequenza significativa della tappe di questa evoluzione: uno sviluppo che procede specie nel suo avvio in ambiti separati. Fin dai tardi anni settanta del Novecento archivisti e insegnanti, sovente ognuno per suo conto, iniziavano infatti a prendere le distanze da modelli consolidati della teoria e della prassi dei rispettivi mestieri, e a misurarne con prudenza e curiosità limiti e confini.
Nuovi occhi, nuove mani
L’emergere del tema della didattica negli archivi italiani – inteso con riferimento alle attività educative e ai rapporti con il mondo della scuola e della formazione non specialistica – risale dunque, per concorde riconoscimento, a circa un quarantennio fa. (Germani 1991). Qualche lustro distanziava sotto questo aspetto l’avvio delle prime sporadiche sperimentazioni e riflessioni inerenti le attività didattiche negli istituti archivistici italiani rispetto a quelle, ben più precoci, di altri paesi europei (Bautier 1954; D’Angiolini, Pavone 1973): a esperienze francesi e inglesi facevano obbligatoriamente riferimento i resoconti delle prime iniziative di progetti o attività didattiche presso archivi italiani (Cavazzana Romanelli1980; Germani, Salterini 1985; Brogi 1992a; Cerri 1999). Diverso, anche sotto questo profilo, l’avvio delle attività didattiche negli archivi italiani: non previste esplicitamente dalla normativa del settore, né fornite di specifiche strutture. I compiti dell’amministrazione statale o degli enti pubblici, così come contemplati dalla legislazione allora vigente, non parevano lasciare aperte per gli archivi prospettive che esulassero dalla conservazione, dall’ordinamento e dalla consultabilità per gli ‘studiosi’ che ne facessero richiesta (Mordenti 1985, Romiti 1992). Di scuole si parlava pressoché esclusivamente a proposito di quelle di archivistica, paleografia e diplomatica istituite presso i maggiori Archivi di Stato, i cui programmi sono stati per il passato e in parte sono tuttora caratterizzati da un taglio accentuatamente specialistico.
Forse, più che esplicite indicazioni normative di ambiti e attività interni all’organizzazione archivistica, può contribuire a far cogliere i cambiamenti negli orizzonti di lavoro degli archivisti italiani fra gli anni settanta e ottanta del Novecento la radicale mutazione istituzionale e culturale che tenne dietro alla creazione del ministero per i Beni culturali fra la fine del 1974 e l’inizio del 1975 e alla fortunosa assegnazione allo stesso dicastero del settore degli archivi, in precedenza facenti parte dell’amministrazione dell’Interno. Né va sottovalutato su altro piano il ruolo che nella realtà italiana ebbe a ricoprire l’immissione fra le file dei dipendenti della pubblica amministrazione di un consistente numero di neoassunti grazie alla legge “Provvedimenti per l’occupazione giovanile” n. 285 dell’1 giugno 1977. Mutò con essi sensibilmente il clima complessivo pure entro gli istituti archivistici, che videro al lavoro una generazioni di nuovi operatori, in molti casi protagonisti naturali, quanto a vissuto personale e a formazione culturale, delle iniziative di accoglienza e di realizzazione delle attività didattiche.
Erano comunque la fisionomia e l’identità professionale stesse dell’archivista che divenivano in quegli anni oggetto di una riflessione a più voci. Come ricordava con il suo elegante argomentare Isabella Zanni Rosiello in un saggio cult comparso nel 1981 dal titolo Sul mestiere dell’archivista, “essere consapevoli della forza delle tradizioni non significa ignorare la necessità di adattarle ai mutamenti del clima culturale entro il quale si opera” (Zanni Rosiello 1981a, 57). E fra tali mutamenti la stessa Zanni Rosiello ricordava quella domanda del pubblico non specialistico cui, pur fra molte circospezioni e approssimazioni, la realtà archivistica italiana non aveva rinunciato a confrontarsi proponendo con frequenza e intensità in precedenza sconosciute attività espositive, sperimentazione didattica, visite guidate, produzione di itinerari documentari, lezioni-conversazioni: “si sono aperte le porte di un ‘tempio sacro’ finora riservato ad eletti. Non sarà facile richiuderle” (Zanni Rosiello 1981a, 71). Un’acquisizione si andava contestualmente imponendo anche entro la stessa amministrazione archivistica: quella della “vitalità di una risposta data ad un bisogno comunque espresso” (Attanasio 1985a, Mordenti 1985).
Si trattava di una vitalità che si sarebbe manifestata di lunga durata, accompagnata da produzioni di materiale didattico di qualità e da un dibattito, lungo gli anni ottanta e novanta del secolo passato e nei primi lustri del Duemila, esteso quanto l’intera penisola e tuttora, alternando fasi di maggiore e minore intensità e creatività, ben aperto (Cavazzana Romanelli 2000; Perillo 2008): un tacito passamano, per citare solo alcuni dei numerosissimi incontri e convegni spesso seguiti da pubblicazione degli atti, da Taranto a Caltanissetta, Catania, Lucca, Modena, Bari; e ancora a Parma, Pisa, Quartu Sant’Elena, Treviso, Carpi, Venezia, Bologna, Trento, Milano.
I soggetti istituzionali promotori di tali incontri non erano più oramai le sole strutture archivistiche statali: a esse si erano ben presto affiancate con vigore, impegno e originalità di approccio quelle degli enti locali o di altre realtà a carattere pubblico, privato o confessionale; entravano inoltre in campo con sempre maggiore frequenza e con ruoli definiti associazioni professionali quali l’Anai (Associazione nazionale archivisti italiani) nelle sue autonome sezioni regionali o enti quali gli Istituti regionali di ricerca, sperimentazione e aggiornamento educativi dipendenti dal ministero della Pubblica istruzione (Irrsae, poi Irre), mentre la dimensione della divulgazione didattica veniva sottolineata con forza nei programmi di realtà culturali autorevoli e ben radicate sul territorio quali gli Istituti per la storia della resistenza e della società contemporanea o di associazioni di storici locali: non a caso compresenti in modo ricorrente nell’organizzazione di comuni iniziative di formazione e di studio.
Precoci e stimolanti, a questo proposito, le attività di taluni archivi storici di enti locali, per loro natura particolarmente sensibili alle necessità dell’utenza più varia e di quella scolastica in particolare, a ciò addestrati da una lunga tradizione di affiancamento dei servizi archivistici con quelli bibliotecari. Negli archivi comunali divenuti “case della memoria” della propria comunità, attenti non solo alla conservazione della documentazione passata ma pure alla raccolta di quella del presente – fotografie, video, fonti orali – per costruirvi attorno occasioni di studio e di dibattito (Barizza 1996, Vanzetto 1996); in quegli archivi storici locali che ambivano di “dare al localismo radici culturali dotate di qualità e di spessore storico”, e che non attendevano passivamente il loro pubblico, ma lo andavano a cercare “con iniziative che fuoriescono dalle mura dell’archivio e oltrepassano i compiti della conservazione e della consultazione”, si auspicava dunque – con suggestive espressioni – che le vecchie carte venissero “toccate da ‘nuove mani’ e lette da ‘nuovi occhi’” (Cerri 1999a; Cerri 1999b).
Inediti apparivano poi sicuramente, e destinati a promettente futuro, taluni orizzonti del lavoro didattico negli archivi quali quelli che, prendendo qua e là le distanze da un approccio tecnico e ‘positivistico’ alle fonti, lasciavano piuttosto liberare l’afflato narrativo o persino fantastico della documentazione, divenuta in tal modo traccia per la creatività di sceneggiature e di connesse animazioni teatrali o per laboratori di scrittura creativa (Cattaneo 1999); o come ancora quelli che attraverso l’elaborazione di ipertesti sperimentavano precocemente la possibilità – come si specificherà più avanti – di muoversi liberamente entro o fuori lo svolgimento lineare cronologico, di integrare con collegamenti veloci e adeguati la scala della storia locale con quella della storia generale, recuperando contemporaneamente la dimensione a rete della narrazione documentaria.
In uno degli istituti più dinamici non solo nelle realizzazioni ma pure nella concomitante riflessione, l’Archivio di Stato di Bologna (Zanni Rosiello 1981b, 1985, 1988) furono elaborate alcune coordinate concettuali rimaste fondamentali nell’analisi delle attività didattiche con le fonti d’archivio: riferimenti dai quali ancor oggi non possiamo prescindere.
Ricordavano dunque le archiviste e gli archivisti bolognesi l’opportunità di distinguere – con una endiadi che avrebbe avuto notevole fortuna – fra una didattica degli archivi e una didattica negli archivi. Obiettivo manifesto della prima era, come rammentava Ingrid Germani, promuovere la conoscenza dell’archivio “in quanto istituzione culturale, e cioè le sue funzioni, il suo ruolo, il suo significato” (Germani 1991, 14798). Un apposito itinerario di iniziazione – analisi di dossier di documentazione appositamente predisposta; esame dei documenti nel loro concreto contesto di appartenenza al fascicolo o al registro, alla serie, al fondo e così via – culminava con la visita ai depositi e con l’impatto straniante e inatteso con la globalità della mole documentaria nel suo complesso, ricevendo la conferma che “l’archivio nella sua materialità, fatta di chilometri di scaffalature ricolmi di polverosi volumi scritti da uomini vissuti prima di noi è di per sé un segno carico di significato”. “Il passato è avvenuto veramente” potevano infine esclamare – a controprova dell’efficacia di una tale didattica del bene culturale archivistico – i giovani studenti bolognesi (Germani 1991, 14799).
Diverse invece quelle iniziative di didattica negli archivi, il cui scopo preminente non mirava alla conoscenza dell’archivio-istituto o archivio-complesso documentario nel suo insieme, ma si proponeva di penetrarvi, attraverso veri e propri itinerari di ricerca che avrebbero dovuto portare studenti ed insegnanti – ma in molti casi anche pubblico adulto – a sperimentare in vitro, ossia come in un laboratorio le tecniche del lavoro storico a partire dalle fonti (Attanasio 1985b).
Oltre l’egemonia del manuale: il laboratorio didattico
Dietro a tali sperimentazioni, che videro impegnato un buon numero di istituti archivistici e di operatori scolastici, non è difficile cogliere gli echi di un vivace dibattito che, nel campo della didattica della storia, aveva messo progressivamente a fuoco, a partire sempre dagli anni settanta, la necessità del superamento dell’egemonia delle lezioni frontali e del manuale scolastico e la sua auspicabile integrazione con esperienze dirette di ricerca sulle fonti: ciò anche con il proposito di raccogliere le suggestioni provenienti dalle nuove correnti storiografiche, e nella sottolineatura dell’inevitabile valore formativo di itinerari intellettivi, quale quello della ricerca archivistica e della lettura della documentazione originale.
L’esperienza del laboratorio didattico prendeva avvio in effetti dal riscontro dei pesanti limiti del modello tradizionale dell’insegnamento della storia. Irrigidita nella sua sequenza ciclica e ripetitiva (dalla preistoria ai giorni nostri, per tre volte nel corso della carriera scolastica dello studente); indifferente al presente, alle sue domande e alle sue necessità; disinteressata alle reali motivazioni e ai bisogni affettivi e cognitivi degli studenti; concepita come materia scolastica che si confina nelle pagine del manuale; incapace di rendere tangibili e concreti i suoi benefici, la storia tradizionale sembrava dunque essere un sistema di idee, non connesso con il consueto modo di vivere, e forse con nessun altro e avulso da qualsiasi fare e saper fare.
All’origine del laboratorio didattico alcuni presupposti. L’importanza delle pratiche e perlappunto del ‘saper fare’ nei processi di costruzione delle conoscenze scientifiche e umanistiche si riteneva potesse valere anche per i processi di apprendimento, che non avrebbero dovuto potersi limitare al semplice trasferimento delle informazioni, richiedendo al contrario l’assunzione di “dispositivi cognitivi” finalizzati alla costruzione di conoscenze attraverso operazioni e attività di ricerca” (Mattozzi 2006, 10; Baldelli, Borsari 1998; Ori 1999).
Si veniva sostenendo che la storia si costruisce, dunque, ad opera di un soggetto attraverso strumenti, operazioni, pratiche. Senza storico e officina dello storico non c’è storia, non c’è discorso sul passato. Il laboratorio era dunque concepito come un modello di “apprendistato cognitivo” (Mattozzi 2006, 16) nel quale l’interazione tra docente e allievi e tra gli stessi allievi fosse molto alta, la mediazione didattica si intrecciasse con l’operatività degli studenti in ambienti di apprendimento ad hoc, le attività degli alunni fossero guidate, sostenute e valutate, venissero stimolate la riflessione e la consapevolezza critica delle conoscenze e delle procedure necessarie alla loro produzione.
Le pratiche laboratoriali potevano in effetti riguardare diversi ambiti curricolari: dalla didattica, a quella dei quadri di civiltà, ai processi di grande trasformazione del passato dell’umanità, alle conoscenze di temi e problemi storiografici. E naturalmente esse hanno ricoperto un rilievo particolare nei percorsi di ricerca storico-didattica con le fonti e gli archivi. “La conoscenza di tutti i fatti umani del passato, e della maggior parte di essi nel presente, ha come sua prima caratteristica quella di essere una conoscenza per via di tracce” (Bloch 1950, 63): perché ogni traccia possa darci delle informazioni sarà allora necessario imparare a “interrogarla”. “Il lavoro dell’insegnante di storia deve essere fondato sulla critica dei fatti e dei documenti storici”, nel presupposto che “il fatto storico non è dato, bensì costruito”. Nel laboratorio gli alunni andavano perciò “sensibilizzati alla fabbricazione della storia. Bisogna[va] mostrare loro che il lavoro dello storico non consiste[va] nel ricomporre la storia, ma nel fare la storia” (Le Goff 1991, 35).
Ed ecco ritornare, anche per questa via, la complicità. Era nel laboratorio di storia che si vedeva possibile da parte degli studenti cimentarsi in modo più denso e significativo con la sfida del fare la storia, con lo sperimentare “il vincolo ultimo dello storico [che] è quello di costruire il suo discorso intorno alle prove” (De Luna 2001, IX).
Le fonti vicine: archivi e storia locale
Uno dei risvolti che ci consente di cogliere in modo privilegiato alcune valenze del nodo archivi e didattica è sicuramente l’emergere vigoroso al suo interno delle problematiche della storia locale. Un fenomeno storiografico quest’ultimo con una sua ben radicata tradizione e larga diffusione, sottoposto nel corso degli anni ottanta e novanta del Novecento a riprese, bilanci e valutazioni (Violante 1982; Torrisi 1992; Brunello 1992; Comune di San Giovanni in Persiceto et al.1993; Cavazzana Romanelli, Puppi 1995; Vanzetto 1995; Gasparini 1995): estese sovente al particolare utilizzo che la storia locale risulta aver instaurato con la didattica e in particolare con le fonti, specie con quelle archivistiche (Cavazzana Romanelli 1995; Mattozzi 1995; Scalco, Bonfiglio Dosio 1996; Comune di Modena 2001). E se vale pur sempre ricordare come, in un chiaroscuro di discordanti considerazioni sul genere storiografico e sulla effettiva qualità di molti dei suoi prodotti, meritasse in ogni caso raccogliere l’invito a lasciare sullo sfondo la discussione sul valore scientifico di talune di quelle ricerche per analizzarne il portato di complessivo fenomeno culturale (i nuovi soggetti-autori, la committenza, il consumo, la circolazione, la funzione nella costruzione di identità …), sarebbe stato in particolare nella dimensione didattica che l’utilizzo della storia locale ‘esperta’ avrebbe trovato un imprevedibile spazio di utilizzo: indispensabile per far uscire il sapere scolastico dalle secche della storia cronologico manualistica, “fondata su grandi generalizzazioni, […] incapace di far uso di procedure discorsive quantificatrici e descrittive che possano dare l’idea della pluralità dei focolai di storia in un periodo, in un paese, in un processo” (Mattozzi 1995, 77), lontana in ogni caso, quanto a scala spaziale dei fenomeni descritti, dalla possibilità di favorire per molti temi storici un’effettiva percezione del rapporto presente-passato.
La storia locale nella didattica e nei programmi scolastici dunque, inserita con predisposti accorgimenti entro il curricolo verticale dell’insegnamento ordinario della storia; e con essa – nella permanente prospettiva dell’apprendimento di laboratorio – le sue fonti, tutte quelle che il rapporto con il territorio delle comunità e con la sua storia richiede: non solo archivistiche, ovviamente, ma pure e talora in primo piano archeologiche, architettoniche e artistiche, naturali e paesaggistiche, etnologiche, linguistiche e letterarie. Ripetutamente richieste comunque, quelle archivistiche, nei laboratori di didattica della storia locale. Saldamente ancorate fin dal loro originario prodursi alla molteplicità e alla ineluttabile frammentarietà delle puntuali situazioni amministrative, patrimoniali, giudiziarie che le hanno generate, le carte d’archivio si ritrovano, per la loro grande maggioranza, in singolare consonanza di scala quanto a tenore informativo con le ricerche a dimensione locale, su ambiti territorialmente e cronologicamente definiti.
Nuovi archivi cominciarono allora a venire con più insistenza interpellati, e con essi nuove tipologie di fonti, incrociate con quelle già utilizzate negli Archivi di Stato (Della Peruta 1992; Cavazzana Romanelli 1995; Vanzetto 1996). Si trattava degli archivi vicini alle comunità e che della loro storia, dei loro protagonisti, delle loro vicende e dei loro progetti, dei bisogni e delle sofferenze, dei contrasti e delle ricorrenze offrono più direttamente informazioni e notizie: gli archivi degli enti locali, particolarmente dei comuni, delle parrocchie, delle strutture assistenziali, dell’associazionismo antico e moderno e della cooperazione, delle imprese e delle aziende, di singoli privati; e gli archivi vicinissimi infine, quelli delle scuole stesse, il cui apprezzamento storiografico ha conosciuto – di pari passo con la loro valorizzazione e il loro utilizzo didattico – una stagione di grande interesse (Cavazzana Romanelli, Martino 1997; Klein 1997; Anai Sezione Venezia Giulia [1996]; Antonelli 1997; Sega 2002).
Ed ecco uscire dal convegno La storia locale tra ricerca e didattica tenutosi nel 1995 a Treviso (uno degli epicentri, nel cuore del nord-est d’Italia, della produzione e della riflessione sulla storia locale) una sorta di manifesto scritto a più mani da storici, insegnanti e operatori della scuola, archivisti e bibliotecari, amministratori pubblici, associazioni culturali, dal titolo Carta dei diritti della storia locale. Per la conoscenza delle storie locali nella scuola, le cui linee generali, riprese e aggiornate nel 2002 con il titolo Insegnare le storie locali nell’età della globalizzazione e inserite fra le tesi dell’associazione Clio ‘92 (http://www.clio92.it/index.php?area=2&menu=40), ritorneranno in numerose altre occasioni di studio e incontro, in una sorta di collettiva elaborazione itinerante le cui tappe sono di necessità segnate – anche nei riscontri bibliografici – da un fertile policentrismo. Fra i molti richiami agli archivi, inseriti a pieno titolo con musei, biblioteche e siti archeologici nelle articolazioni del sistema formativo, compariva nella Carta di Treviso la richiesta di “intrecciare la conservazione del patrimonio archivistico […] con la ricerca e la didattica delle storie locali” e “il compito di predisporre i materiali didattici strutturati che sono indispensabili strumenti di lavoro per gli insegnanti” (Carta dei diritti della storia locale 1996, 146; Perillo 2010).
Fa parte del patrimonio della elaborazione teorica sulla didattica delle fonti, applicata spesso alle esperienze di didattica della storia locale, anche lo sviluppo di quella singolare prassi di lavoro che va sotto il nome di “archivio simulato”. Sorta al di fuori degli istituti archivistici e in molti casi anche a seguito della difficoltosa agibilità di alcuni di essi, vi si riconoscono le tracce di altre analisi, specie di quelle che da tempo Ivo Mattozzi va definendo a proposito della possibilità di introdurre nella didattica il modello della ricerca storica specialistica: procedendo cioè all’individuazione delle fonti relative a un determinato tema attraverso gli strumenti inventariali, leggendo i documenti e compilando per ognuno schede predisposte di registrazione delle informazioni, elaborando queste ultime fino a produrre un nuovo testo. L’insegnamento storico parrebbe dunque l’ambito disciplinare più adatto non solo per imparare le ricostruzioni storiche, ma pure per formare e far crescere alcune abilità mentali quali selezionare, analizzare, classificare, argomentare. Da esso ci si aspettano dunque non solo conoscenze, ma anche la capacità di riflettere su come esse sono state ottenute, e la perizia nello sperimentare tecniche di interrogazione delle fonti; ma ci si aspetta in aggiunta – e qui l’obiettivo didattico si colora di valenze squisitamente storiografiche – di portare alla luce le procedure di ricostruzione di aspetti o di processi del passato, per capire come esso viene usato, come giungono a formarsi la memoria collettiva piuttosto che l’amnesia sociale (Mattozzi 1992, 1999; Vanzetto 1995). Una riedizione della didattica dell’archivio dunque, in queste suggestive proposte? In un certo senso sì. Una sintassi dell’archivio unita ad una grammatica dei documenti – che ricorda da vicino l’analisi diplomatica del tenor formularis del documento – veniva proposta in aggiunta da consimili sperimentazioni, basata su operazioni quali scegliere, interrogare, interpretare, scrivere nuovi testi (Miglietta 1997; Mattozzi 1997; Brusa, Bresil 1994-1996).
Il gioco della complicità. I protagonisti, la formazione
Che le aspettative di fronte a tali sperimentazioni, sia da parte del mondo della scuola che da quello degli archivi fossero dunque alte e composite, e che il compito fosse connotato da una sua intrinseca delicatezza e complessità, appare evidente non solo dalla qualità e dall’originalità – didattica, archivistica, e storiografica assieme – di molti degli elaborati cui si faceva cenno più sopra, ma pure dalle voci che si levarono fin dagli anni novanta a segnalare difficoltà e rischi (Guarracino 1987; Zanni Rosiello 1988, Brogi 1992b).
Fra gli elementi che furono in aggiunta sottoposti a verifica di questa fase di attività vi fu certamente anche quello dei soggetti cui affidare il compito di dar vita alle varie fasi della didattica in archivio e dei connessi laboratori con le fonti: una sottolineatura dell’opportunità di integrare professionalità diverse quali quella archivistica e quella specificamente didattica, ma pure il rilievo di come talora l’insegnante si fosse limitato ad essere “un attore muto, a volte solo una comparsa, essendo riservato il ruolo di coprotagonisti agli archivisti e agli studenti” (Germani 1991, 14802). Di qui l’opportunità che una collaborazione reale e non ‘sottotono’ fosse messa alla base della costruzione degli itinerari e dei sussidi didattici; di qui ancora l’esigenza di spostare il tiro della formazione all’archivio e alla ricerca sulle fonti verso quegli indispensabili mediatori che sono gli insegnanti, e dietro ancora al ‘narratore’, ossia a chi già avesse elaborato storicamente temi e trattazione della documentazione, con il ricorso sistematico quindi alla bibliografia esistente e al terzo ‘attore’, cioè lo storico; di qui infine l’importanza che gli stessi insegnanti e archivisti non fossero abbandonati all’apprendimento sul campo o al volontarismo, ma che alle nuove competenze richieste potessero corrispondere adeguate strutture e curricula formativi.
Quali i raccordi dunque – ci si chiedeva –, quali le interazioni dei laboratori di didattica degli e negli archivi entro il curriculum scolastico? A quali strutture, nella scuola ed entro gli archivi, o forse anche a fianco di entrambi, ancorare la molteplicità e l’estemporaneità delle esperienze per dar loro stabilità e prospettiva? Attorno a quali poli far confluire documentazione, mettere in comune materiali e strumenti: per conservarne memoria, ma soprattutto per evitare di dover ricominciare ogni volta da principio e potere, se del caso, affinare, approfondire, personalizzare? Si tratta di interrogativi attorno ai quali in effetti è cresciuto un confronto senza battute di arresto.
Le operazioni di ricerca e di trattamento dei documenti per la didattica non potevano essere improvvisate, richiedevano a insegnanti e archivisti tempi adeguati di preparazione, “risorse mentali e fantasia”(Cerri 1999a, 22) e pertinenti inserimenti entro snodi non casuali dei programmi di insegnamento. Era inevitabile pertanto che ritornassero – e che siano più che mai anche oggi aperti – quegli interrogativi, così lucidamente formulati nello scorcio del Duemila e ripresi dalla Carta di Treviso nelle sue due redazioni, sulla concreta realizzabilità di una tale didattica di laboratorio archivistico, sulle figure professionali che potessero predisporla e guidarla, sulle strutture istituzionali che dovrebbero farsene carico, dando spazio a luoghi di elaborazione, di accoglienza, di valorizzazione o addirittura di promozione: a dimensione non solo didattica, se del caso, ma di più generale educazione alla tutela e all’uso del bene culturale archivistico dalle valenze propriamente civili.
Una cosa pareva definitivamente assodata: che non bastava aprire l’archivio – fosse esso quello di Stato, quello comunale, quello parrocchiale o della cooperativa locale – “e poi dire lasciate che gli insegnanti vengano a me” (Mattozzi 1999, 20). L’esigenza di istituire sezioni didattiche presso gli istituti archivistici si riproponeva così – e permane viva anche in tempi difficili quanto a risorse e a disponibilità di personale come quelli odierni – non solo come opportunità per gli archivisti stessi di potersi dedicare con la necessaria continuità a un impegno che il complesso dei compiti loro affidati tenderebbe a declassare a secondario o sussidiario, ma pure come possibilità di contribuire a offrire in modo continuativo e professionale strumenti adeguati al lavoro dell’insegnante.
Quanto al grado ottimale di istituzionalizzazione di tali sezioni negli archivi, alla possibilità e agli effetti della loro creazione, all’individuazione di figure professionali ‘bifrontali’ che in esse dovrebbero operare, aperte e molteplici sono tuttora le proposte e le realizzazioni: archivisti sensibili alle problematiche della didattica; insegnanti esperti delle fonti archivistiche; figure di tutor o gruppi fornitori di servizi molteplici nel settore archivistico, coinvolgendo pure la mediazione degli istituti di ricerca o di singoli storici (Baldelli 1999; Ori 2000).
Archivi, didattica e nuove tecnologie
Gli ambienti digitali e le loro continue evoluzioni hanno rappresentato per il mondo della scuola e degli archivi un ulteriore terreno di riflessione e di lavoro, che continua a interrogare spazi, tempi, modi e contenuti stessi della realtà archivistica e di quella della formazione (Calvani 2001; Rivoltella 2001; Vitali 2004; Ferri 2008; Calvani, Fini, Ranieri 2010; Di Tonto, Perillo 2011).
I nuovi scenari impongono innanzitutto un ripensamento dei modi di insegnare e apprendere la storia, in parallelo con l’applicazione delle tecnologie informatiche alla ricerca storica e in particolare agli archivi: dalla creazione di strumenti di ricerca informatici e sistemi informativi archivistici (Cavazzana Romanelli, Franzoi, Porcaro Massafra 2012), alla riproduzione digitalizzata di fonti cartacee, alla creazione e alla conservazione di fonti che nascono già in formato digitale. I siti web di molte istituzioni archivistiche italiane e straniere (e fra le prime vanno segnalati per qualità scientifica e comunicativa, i portali del Sistema archivistico nazionale: http://san.beniculturali.it/web/san/archivi-tematici), dedicano sovente ampio spazio a sezioni didattiche online o, comunque, alla pubblicazione di riproduzioni digitali di documentazione appositamente selezionata per il proprio significato storiografico, fortemente emblematico e/o evocativo.
Il valore aggiunto dell’uso degli archivi digitali nella didattica della storia può essere indicato nell’ampliamento dello spettro e della quantità di materiali utilizzabili per costruire percorsi didattici basati sulle riproduzioni digitali di fonti originali (documenti, testi, immagini, file audio e video etc.); nell’uso di strumenti di ricerca informatizzati e fruibili in rete; nella costruzione di competenze specifiche sulle operazioni euristiche e cognitive necessarie per l’uso dei documenti digitali; nell’essere il medium digitale anche per la ricerca storica il codice più familiare e ‘tollerabile’ dalle strategie di apprendimento delle nuove generazioni dei digital natives (Vitali 2011). D’altra parte, non si tratta solo della possibilità di accedere con un clic allo sconfinato patrimonio documentale immagazzinato nella rete: negli ambienti digitali si è venuta modificando anche la struttura e il modo di narrare, scrivere e comunicare la storia.
La ‘ri-mediazione’ insita nella comunicazione digitale, ossia la capacità di un nuovo medium di assumere alcune caratteristiche del vecchio codice di comunicazione e di introdurne di nuove (Bolter, Grusin 2003), lascia intravvedere anche per la ricerca storica l’utilizzo di tre inedite dimensioni: l’ipertestualità (superamento della struttura lineare della comunicazione cartacea e organizzazione a rete dei nodi informativi, secondo un ordine non sequenziale ma con associazioni libere: Landow 1998;
http://www.eastgate.com/Hypertext.html); la multimedialità (la possibilità di gestire tutti i codici di comunicazione, da quella visiva a quella testuale a quella sonora); l’interattività (il lettore non è semplice fruitore delle informazioni veicolate dall’ambiente digitale ma può interagire con esso, aggiungendo, modificando, condividendo dati e conoscenze: Heeter 1989; Negroponte 2004; Zinna 2004). Non poche infatti le ripercussioni sul piano didattico, dall’inizio del nuovo millennio, anche a proposito del cosiddetto web 2.0, termine utilizzato per indicare “l’insieme di tutte quelle applicazioni online che permettono uno spiccato livello di interazione tra il sito e l’utente” (http://it.wikipedia.org/wiki/Web_2.0). Con riferimento al patrimonio documentale, agli archivi e alla storia insegnata la rivoluzione digitale in atto offre dunque un’opportunità assolutamente straordinaria, una sfida che richiede esercizi di immaginazione, intelligenza e complicità ancora maggiori. E in questo ambito, sia negli archivi che sul piano didattico si sono andate affermando un grande numero di esperienze e proposte innovative (Vitali 2008).
Se quelle sopra indicate sono alcune tra le possibilità e potenzialità delle nuove tecnologie con riferimento agli archivi e alla storia insegnata, non va sottaciuto come si vengano anche segnalando rischi di non lieve portata di un uso ingenuo o fondamentalista, se non ideologico, di tali tecnologie: dai casi di descrizioni archivistiche e di riproduzioni digitali decontestualizzate, prive di riferimenti alla struttura complessiva dei fondi, a quelli degli “archivi inventati” a fini prevalentemente evocativi o ideologici (Vitali 2004, 116-119); dai siti didattici enunciativi e autoreferenziali in funzione prevalentemente di ‘vetrina’, all’egemonia della rete stessa quale fonte primaria per qualsivoglia ricerca. Autenticità, affidabilità, autorevolezza, significatività delle fonti, degli archivi e dei siti sono dunque – anche nel mondo della didattica – i problemi che oggi non si devono sottovalutare.
Educazione ai beni culturali, alla cittadinanza, all’interculturalità
Una convinta riproposizione delle problematiche della didattica nel contesto della valorizzazione e della promozione dei beni archivistici, senza sottovalutarne i perduranti aspetti di problematicità, pare dunque essere la chiave dominante per interpretare i segni e le voci dell’oggi. Le occasioni di riflessione sulla fisionomia e sull’evoluzione del pubblico degli archivi si intensificano, nell’intento di individuare, compatibilmente con le risorse disponibili, adeguate forme di accoglienza, di programmazione del lavoro scientifico, di messa a punto di servizi in termini di standard di qualità. L’attenzione a cogliere non solo la domanda espressa ma pure quella inespressa alimenta atteggiamenti di rinnovato interesse al contesto sociale e culturale in cui l’istituto archivistico è collocato, di ascolto verso i messaggi, i fermenti e le inquietudini dell’ambiente, nella sottolineatura di un ineludibile rapporto con il territorio che anche presso gli archivi di Stato, forse con più frequente ricorrenza in quelli a dimensione media o medio-piccola, ha costituito elemento forte della politica culturale degli istituti. Recenti e meno recenti iniziative a carattere nazionale (si pensi ad esempio alle “Domeniche di carta”) cui numerosi istituti pur nell’affanno della crescente povertà di risorse paiono non voler rinunciare, e la dinamica attività di alcuni comuni, provincie e regioni all’avanguardia come quelli lombardi e dell’Emilia Romagna con l’appuntamento annuale della settimana della didattica in archivio (http://www.ibc.regione.emilia-romagna.it/wcm/ibc/eventi/quantestorie2011.htm), confermano la risposta del pubblico a tali proposte di valorizzazione e divulgazione, e la creazione di consolidate aspettative; provocando in aggiunta inedite rielaborazioni sulla necessità di ricontestualizzare, con l’apertura dei luoghi di conservazione in orari e in momenti inconsueti, la documentazione archivistica attraverso narrazioni che consentano di ritrovare nella storia un comune patrimonio non meno che un condiviso racconto (Toccafondi 1999).
Una lunga complicità dunque quella tra mondo della scuola e realtà degli archivi: che lungi dall’essere conclusa continua ancor oggi a dare risultati significativi e a trovare nuovi ambiti per il suo esercizio. Tra questi vorremmo in chiusura segnalarne almeno tre, che riteniamo particolarmente rilevanti: l’uso degli archivi per l’educazione al patrimonio dei beni culturali, alla cittadinanza attiva e all’educazione interculturale.
A partire dalle pratiche di ricerca che si possono realizzare con e negli archivi è possibile accentuare l’attenzione all’archivio come istituzione e bene culturale, parte di quel patrimonio che appartiene a tutti e per questo da conoscere, tutelare e valorizzare responsabilmente. Se educare alla cittadinanza attiva significa anche promuovere negli studenti l’assunzione di atteggiamenti, comportamenti, azioni responsabili verso il bene comune e favorire il dialogo e confronto tra tutte le componenti delle comunità, allora gli archivi possono costituire per queste finalità strumenti e opportunità decisivi, anche e forse soprattutto nei nuovi contesti sociali e culturali della città multietnica.
Così come essenziale è la possibilità attraverso l’incontro fra scuola e archivi di esplorare “le modalità attraverso cui le nostre società hanno costruito e continuano a costruire il loro rapporto con il passato, il suo uso pubblico e le finalità legate all’elaborazione dell’immaginario collettivo in relazione al tempo” (Perillo 2010, 26). L’archivio, quindi, anche come dispositivo di accesso alla memoria di gruppi umani e comunità, come luogo del potere e dei conflitti che caratterizzano da sempre le qualità e le funzioni di questo accesso e che nella società contemporanea complessa e in rapidissimo cambiamento acquista nuovi e molteplici significati (Giuva, Vitali, Zanni Rosiello 2007).
La complicità, con cui abbiamo inteso leggere e ricostruire convergenze, collaborazioni, intrecci tra scuola e archivio, ci pare dunque destinata a continuare, alimentata da una comune passione per la ricerca scientifica, la progettazione didattica e l’impegno civile.
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