Francesca Somenzari I prigionieri tedeschi in mano statunitense in Germania (1945-1947) Torino, Silvio Zamorani Editore, 2011, pp. 169

di Fabio Casini

Lo studio della Somenzari, pubblicato nella collana del Dipartimento di Storia dell’Università di Torino, è basato su ricerche presso l’Archivio del Comitato internazionale della Croce rossa, il Bundesarchiv di Coblenza, i National Archives di Washington, l’Archivio segreto Vaticano, nonché sostenuto da una ricca bibliografia, e affronta un tema ancora parzialmente esplorato, cioè quello della prigionia tedesca del secondo dopoguerra. Il volume ha il pregio di offrire un quadro ampio, articolato ed unitario sulla storia dei prigionieri tedeschi in mano statunitense in Germania, dal 1945 al 1947.

L’accurata analisi della Somenzari inizia con una necessaria premessa: non si può trattare il tema dei prigionieri tedeschi in Germania, senza prima evidenziare quale fosse il contesto generale ed emergenziale che gli Alleati – americani in primis – dovettero affrontare in un Paese tramortito dalla guerra e con uno Stato che si era praticamente dissolto (p. 28).

Gli statunitensi, soprattutto nei primi mesi successivi alla resa incondizionata, dovettero gestire, infatti, nella loro zona di occupazione, una serie di problematiche. La prima fu quella relativa alla costituzione ed organizzazione dell’Omgus (Office of Military Government of United States for Germany). Successivamente gli americani dovettero fronteggiare l’emergenza dei DPs (Displaced Persons) ai quali fu riconosciuta la priorità nei piani di intervento, rispetto ai prigionieri di guerra. I DPs erano costituiti da un’enorme massa di profughi che comprendevano ex deportati per lavori forzati, perseguitati politici, ebrei sfuggiti ai campi di sterminio; ex prigionieri di guerra trasferiti in Germania dai paesi occupati, profughi tedeschi e dell’Est europeo. I DPs, divisi per categorie, divennero per decisione americana, categoria protetta e dunque ricevettero alloggi, vestiti, cibo e cure sanitarie adeguate. La priorità riconosciuta ai DPs sui prigionieri tedeschi, avrebbe penalizzato questi ultimi, rendendoli “destinatari delle risorse rimanenti e dunque più esigue” (p. 44).

La questione dei prigionieri di guerra fu affrontata, dal 1943 al 1944, dall’Ufficio del Chief of Staff ed il piano Eclipse ne costituì la vera “presa di coscienza” da parte statunitense. Fu deciso che per i tedeschi catturati prima della capitolazione dell’8 maggio 1945 (sia coloro che erano stati mandati oltre oceano, sia coloro che erano stati consegnati ad altre potenze belligeranti) sarebbe valso lo status di prigioniero di guerra. Chi fosse stato catturato dopo la resa incondizionata sarebbe rientrato nella categoria di DEFs (Disarmed Enemy Forces) divenendo così un prigioniero senza diritti (p. 51). Quasi la metà dei prigionieri di guerra che caddero nelle mani degli statunitensi in tutta Europa, rientrarono in quella categoria.

Se il piano Eclipse costituì la base di partenza per affrontare il problema dei prigionieri, fu la guida intitolata What about the german prisoners, elaborata dal War Department nel novembre 1944, a stabilire la politica comportamentale nei confronti delle varie categorie di prigionieri tedeschi ed a fissare le rigide regole per le gestione dei campi di detenzione.

Due furono le tipologie di campi destinati ai prigionieri tedeschi. I Pwte (Prisoners of War Temporary Enclosures), campi di transito, creati fra la fine della guerra e l’inizio dell’occupazione (settembre 1945), sorgevano in gran parte sulla riva sinistra del Reno. I Rheinwiesenlager (come furono chiamati) “erano luoghi di prima raccolta, in vista di una conseguente selezione che [avrebbe portato] in alcuni casi al rilascio, in altri ad una successiva prigionia” (p. 81).

Questi temporanei screenings camps, inizialmente controllati dalle autorità americane e dopo qualche mese cogestiti assieme ai francesi (con difficoltà e malumori diplomatici), furono del tutto improvvisati e mal organizzati. I rapporti del Cicr (Comitato internazionale della Croce rossa) ed anche le interessanti testimonianze dirette ed indirette che l’A. riporta, evidenziano la situazione di profondo degrado che emergeva da quei lager: cibo scarso, assenza di letti (i prigionieri dormivano per terra), mancanza di illuminazione e riscaldamento, insufficienti condizioni igienico-sanitarie.

Come ben evidenzia l’A., l’incapacità da parte dello Shaef (Supreme Headquarters Allied Expeditionary Forces) di gestire adeguatamente quei campi, violando così le normative previste in materia dalla Convenzione di Ginevra, non fu frutto di premeditazione. Tuttavia la precedente scoperta da parte degli americani dei terribili lager nazisti, incise psicologicamente e condizionò la loro azione successiva che fu, in quei campi di primo periodo, un’azione tendenzialmente e volutamente punitiva.

Del resto “la riabilitazione morale del popolo tedesco e la sua integrazione in una comunità internazionale sono passate attraverso una fase colpevolizzante, che ha visto intransigenza e grande durezza da parte degli Alleati e che ha trovato nei Rheinwiesenlager la prima forma di sfogo” (p. 137).

Dopo l’esperienza fallimentare dei campi-transito, gli americani, più consapevoli e maturi nella loro politica occupazionale, inaugurarono a partire dall’autunno 1945, una sorta di nuovo corso nell’organizzazione e gestione dei campi di prigionia: un periodo che terminerà nel 1947, anno del rilascio definitivo dei prigionieri in mano americana.

I cosiddetti campi permanenti furono stabiliti in Assia, nel Baden-Wurttemberg ed in Baviera. Erano ben recintati, con tende, baracche o costruzioni in legno o mattone; comprendevano cucine, refettori, lavanderie e le condizioni igienico-sanitarie erano dignitose. Inoltre in ogni campo erano organizzati gruppi di lavoro, attività ricreative e sportive; anche la corrispondenza con le proprie famiglie era assicurata ai detenuti.

“Dal confronto con i campi-transito, scaturiscono differenze abissali: i campi permanenti [offrivano] soddisfacenti condizioni di vita, che [rispettavano] il più possibile le prescrizioni della Convenzione del 1929” (p. 121). Ecco allora che il contesto generale della prigionia, seppur caratterizzato da elementi di sofferenza e da un rigido sistema di controlli, raggiunse un livello di accettabilità.

Già dal 1945 gli americani si posero il problema della liberazione dei prigionieri di guerra e furono i primi, fra le potenze vincitrici, ad avviare procedure in tale direzione. Occorre considerare infatti, come evidenzia l’A., che gli Usa non avevano subito un’occupazione del proprio territorio e perciò non necessitarono della manodopera dei prigionieri di guerra come invece accadde per altri paesi. Nel 1946 il processo di liberazione subì una forte accelerazione e nel 1947 fu completato.

Dall’attenta ricostruzione della Somenzari emerge dunque un bilancio positivo sul trattamento dei prigionieri tedeschi da parte americana: se si esclude infatti la parentesi iniziale e sperimentale dei campi-transito, la situazione dei prigionieri fu sicuramente migliore nei campi americani che non in quelli sovietici, belgi e francesi.