Giuseppe Ferraro, Il prefetto e i briganti. La Calabria e l’unificazione italiana (1861-1865), Firenze, Le Monnier, 2016, pp.228.

di Roberto Parisini

L’interessante lavoro di G.F. ha come riferimenti un preciso territorio, Cosenza e la sua provincia (la Calabria Citra), e un preciso protagonista, Enrico Guicciardi, che per un quinquennio tenne quella prefettura, appunto tra il 1861 e il 1865, gli anni del cosiddetto grande brigantaggio. Un’insolita longevità di funzione per quel periodo e per quelle terre che, secondo l’a., fa della vicenda del prefetto valtellinese un utile punto di osservazione per ripercorrere alcuni dei grandi nodi della sempre discussa costruzione dello Stato unitario.

Nel momento della disgregazione politica e sociale del Meridione in bilico tra velleitarismi borbonico-pontifici, banditismo e pulsioni democratiche, tocca a “esperti funzionari settentrionali” – più realisticamente in bilico tra disagio contadino, disponibilità liberali di una rapace classe possidente e disperante arretratezza -, il compito di ricostruire “un apparato amministrativo, una burocrazia, un esercito, una rete di comunicazione e una giurisdizione uniforme” [p.7]. Figure come quella di Guicciardi erano state scelte dallo stesso Cavour per realizzare quella mediazione conciliativa che le diverse spinte presenti sul campo (a cominciare dal dualismo tra potere politico e potere militare) rendevano assai difficile. Esse, soprattutto, avrebbero dovuto costituire gli esempi di una nuova classe dirigente capace di passare dal ristretto orizzonte regionale ad “una più vasta progettazione” [p.17]; passaggio inevitabilmente imposto dalla svolta unitaria e, verrebbe da dire, ancora di più dal suo collocarsi, come ha suggerito Marco Meriggi, nella prospettiva transnazionale del lungo Ottocento.

Certo le insufficienze strutturali dei governi liberali furono innegabili, e molti di quei funzionari fallirono il loro compito non comprendendo ciò che avevano davanti, contribuendo così a dare fondamento a quella che sarebbe stata rapidamente intesa come “la conquista del Sud” (Alianello).

Ma il nuovo Stato italiano non fu solo in grado – sostiene l’a. – di ribadire assenze, riproporre secche divaricazioni e alimentare eterogeneità e frammentazioni. Al contrario, Guicciardi seppe costruirsi la considerazione di essere uno di quei settentrionali capaci di rapportarsi alla realtà del Sud “senza misurare tutto il mondo dal loro paese” [p.21]; e cioè fu in grado di riportare al proprio controllo i pur pesanti eccessi della guerra ai briganti e, soprattutto di collegarla alle prime riflessioni sulla questione meridionale che emergevano, ad esempio, dalle pagine de “Il Bruzio” di Vincenzo Padula.

Che il brigantaggio rappresentasse in qualche modo un moto strettamente connesso alla questione fondiaria non era sfuggito al prefetto valtellinese, e che la sua soluzione non poteva essere puramente militare gli era altrettanto chiaro. Il clima di attesa era generale: le classi “subalterne speravano che il nuovo governatore desse impulso all’opera di riforma della proprietà della terra sciogliendo le usurpazioni dei demani. I proprietari speravano invece di trovare un sostenitore delle loro prerogative” [p.22]. Nel mezzo stava il brigantaggio, letto da F. come fenomeno tendenzialmente delinquenziale e di lungo corso, sostanzialmente svincolato dalla società locale, ma che pure ne rifletteva il disagio e ne subiva le strumentalizzazioni.

Accanto al sostegno offerto alle feroci repressioni del colonnello Fumel, gli sforzi di Guicciardi andarono nella direzione di combattere le usurpazioni, le inefficienze amministrative e infrastrutturali. Ma tutto questo mentre le questioni demaniali divenivano per le élites meridionali merce di scambio per il proprio arruolamento nello stato liberale; e l’efficienza amministrativa penava per il torpore e le cattive comunicazioni.

Toccò infine alle rigidità militari di La Marmora e Pallavicini porre fine alla parabola del prefetto valtellinese.

Abbandonando Cosenza, tra delusioni e e diffusi rammarichi, Guicciardi lasciava la provincia nel pieno corso di una grande trasformazione che si era sforzato con qualche successo di interpretare e governare, cercando di animare quanto di più vivace il ceto medio meridionale potesse offrire tra impiegati, ecclesiastici, militari e professionisti. Era la conclusione di un quinquennio che F. ci presenta intenso nella sua articolata complessità; un quinquennio che lasciava una sorta di eredità ma che tuttavia, e questa è caratteristica di lungo periodo nella storia del nostro Sud, non trovò nessuno a raccoglierla.