Emanuela Minuto
Abstract
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Premessa
Il 7 giugno del 1897 il periodico malatestiano “L’Agitazione” pubblicava una lettera aperta in cui Pietro Gori annunciava l’imminente ripresa della sua attività nel territorio italiano. A distanza di quasi tre anni dalla partenza per Lugano, che segnò l’inizio della multiforme e ricchissima esperienza al di fuori dei confini nazionali, Gori (1897a) dichiarava: “Pendente ancora sul mio capo la minaccia governativa della libertà condizionale, ritorno al mio lavoro – non vi spaventate, giacchè quest’opra della toga faccio del mio meglio, per renderla ancora una missione pietosa: ars aequi et boni – ritorno alle serene battaglie del pensiero e della libertà”1. Venti giorni dopo tale dichiarazione, usciva la prima delle molte segnalazioni pubblicate da“L’Agitazione”in merito all’“opra di toga” condotta nel centro-nord fino alla nuova emigrazione avvenuta alla vigilia della condanna a otto anni di reclusione emessa dal tribunale di guerra di Milano nel luglio del 1898 (Cordova 1983). Per l’intero anno, l’esercizio dell’avvocatura costituì il nucleo centrale dell’azione di Gori anche in virtù della minaccia di assegnazione al domicilio coatto nel caso in cui avesse tenuto conferenze2; peraltro queste ultime non mancarono del tutto così come si registrò la partecipazione ad eventi pubblici di particolare rilievo.
In questo arco temporale, l’itinerario goriano si snodò intorno all’esigenza di garantire agli anarchici italiani il diritto all’esistenza individuale e collettiva attraverso l’apparente paradossale rivendicazione dei principi fondanti lo Stato di diritto liberale. L’operato si inseriva e sosteneva una traiettoria generale del gruppo malatestiano che si articolava su due livelli: la difesa delle libertà democratiche in concorso con le altre forze popolari e la subordinata costruzione di un partito e di una presenza solida e stabile all’interno delle organizzazioni di mestiere. Il primo pregiudiziale livello d’azione era imposto dagli orientamenti della polizia e di una parte della magistratura e dall’agenda ministeriale; nell’aprile del 1897 infatti il Senato aveva approvato un disegno di legge governativo per la modificazione della normativa sul domicilio coatto che di fatto avrebbe reso permanenti i famosi dispositivi repressivi concepiti da Crispi con le leggi eccezionali del 1894. La battaglia contro un progetto privo ancora della ratifica della Camera assorbì così molte energie della pattuglia malatestiana che si presentava nel frattempo indebolita al suo interno da notevoli problemi, primi fra tutti il ben noto abbandono di Merlino e l’adesione di Cipriani alla pratica della candidatura-protesta.
Uno strumento amministrativo per reprimere la libertà di manifestazione del pensiero: il domicilio coatto
Introdotto per la prima volta nel 1863 come provvedimento eccezionale per combattere il brigantaggio meridionale e trasformato due anni dopo in un dispositivo ordinario di pubblica sicurezza, il domicilio coatto costituiva una misura preventiva di polizia, ossia un atto amministrativo e non giudiziario, la cui intrinseca alta discrezionalità era ancor più ampliata dall’inclinazione assai poco garantista della giurisdizione amministrativa italiana (Colao 1986; Brunelli 1989). Insieme ad altri provvedimenti preventivi di natura amministrativa, quali i vincoli alla libertà di stampa, le interdizioni delle riunioni e lo scioglimento di queste e delle associazioni, l’obbligo di dimorare per un tempo determinato in un comune dello Stato o nelle colonie penali, costituite già nel 1863(Fozzi 2004), era stato impiegato in modo costante per reprimere le varie espressioni di opposizione al sistema liberale. In aggiunta, in tutte le fasi di criticità della vita del regno i governanti avevano riplasmato lo strumento in modo da slabbrare le già poco ortodosse procedure e da ampliare le categorie punibili; sarebbero stati però i provvedimenti eccezionali del 1894 a fare del domicilio coatto una misura politica di “diritto”(Fozzi 2004, 218) per reprimere anarchici, socialisti e anche repubblicani. Come noto, le leggi 314, 315 e 316 del 19 luglio 1894 furono approvate a ridosso dell’attentato Lega e dell’uccisione del presidente francese Sadi Carnot, sebbene fossero state concepite a partire dalla proclamazione in gennaio dello stato d’assedio in Sicilia e in Lunigiana(Boldetti 1977; Canosa, Santosuosso 1981). La legge 316 (1894) in particolare aveva previsto l’assegnazione al domicilio coatto di “pericolosi alla sicurezza pubblica”, condannati in precedenza una sola volta per i reati contro l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica e per quelli commessi con materie esplodenti (art. 1) e delle persone incensurate, che avessero “manifestato il deliberato proposito di commettere vie di fatto contro gli ordinamenti sociali” (art. 3). Al contempo per gli aderenti alle associazioni e alle riunioni che avessero “per oggetto di sovvertire per vie di fatto gli ordinamenti sociali” era previsto il confino fino ai sei mesi (art. 5). L’applicazione della legge aveva prodotto la denuncia di quasi tremila persone allo scadere del 1894, lo scioglimento simultaneo in ottobre, dietro mandato di Crispi, delle società socialiste esistenti in trentacinque delle sessanta province continentali per un totale di 348 organizzazioni e 1500 rinvii a giudizio (Adorni 2002; Canosa Santuosso 1981), la concentrazione a partire dal gennaio del 1895 di circa 500 anarchici nella colonia penale di Porto Ercole (Boldetti 1977; Masini 1981; Berti 2009), divenuta presto famosa per il trattamento inumano. A un anno di distanza dall’entrata in vigore i condannati politici al domicilio in base agli art. 1 e 3 della legge 316 erano risultati 664 (Atti parlamentari 1896b, 12-13). Il 31 dicembre del 1895 la normativa aveva cessato di avere effetto, secondo quanto stabilito alla sua emanazione, nonostante Crispi alla vigilia della scadenza avesse tentato la strada della proroga per un ulteriore anno in mancanza della trasformazione in legge del testo di riforma dell’ordinamento preparato da una commissione da lui istituita nel mese di aprile (Violante 1976). Scomparso di scena lo statista siciliano, il nuovo presidente del consiglio Rudinì si sarebbe comunque speso a lungo nella direzione tracciata dal predecessore. Rudinì infatti recuperò il progetto elaborato dalla commissione senatoriale nominata da Crispi che mirava a convertire in legge gli articoli 1 e 3 del provvedimento eccezionale, aggiungendo semmai delle variazioni peggiorative sotto il profilo della definizione del reato e della dipendenza dal potere esecutivo delle commissioni giudicanti3; variazioni peraltro rettificate dall’ufficio centrale del Senato. Nell’aprile del 1897, a distanza di dieci giorni da una tornata elettorale per la Camera che aveva assicurato a una composita estrema sinistra più di un quarto dei suffragi, veniva presentato a un Senato addomesticato con una recentissima infornata di 36 membri (Belardinelli 1976) il testo emendato dall’ufficio centrale che, pur presentando alcuni perfezionamenti, manteneva inalterato l’impianto e le finalità della legge crispina. D’altronde era il relatore stesso a sottolineare che si era proceduto “a trasportarla nella presente legge con sostanza di normalità”. In una cornice di deliberata attuazione “di un vero e proprio sistema penitenziario” (Atti Parlamentari 1897, 67), i famigerati articoli 1 e 3 venivano condensati nell’articolo 3 che nella versione approvata dalla Camera alta proponeva l’assegnazione al domicilio degli incensurati “che con atti preparatorî abbiano manifestato il deliberato proposito di attentare, con vie di fatto, all’ordinamento della famiglia o della proprietà” (Atti parlamentari 1897, 78). Che la nuova formulazione contenesse un’identità di sostanza con la vecchia lo si poteva immediatamente cogliere dalle osservazioni del senatore Parenzo, dalle note formulate dalle autorità prefettizie nel 1894-1895 e da una consistente interpretazione giurisprudenziale dello stesso periodo. La vicenda relativa all’applicazione dell’art. 5 della legge 316 alle organizzazioni socialiste e agli aderenti fornisce in questo senso molti elementi di comprensione. Le incriminazioni, le condanne e i giudizi di legittimità ad esse favorevoli erano avvenuti sulla base esclusiva del programma politico del partito socialista. Gli estremi del reato costituito dall’associazione e dalla riunione avente “per oggetto di sovvertire per vie di fatto gli ordinamenti sociali” erano stati ravvisati nella finalità futura e indeterminata della socializzazione dei mezzi di produzione. L’ordinamento sociale era stato spesso assimilato alla proprietà privata e la locuzione “sovvertire per vie di fatto” era stata declinata in un senso affatto diverso dal concetto di atto materiale concreto. Infatti, la presunzione che la violenza fosse l’unica modalità per conseguire la socializzazione dei mezzi di produzione era stata assunta come criterio cardine di punibilità. La supposizione di violenza e non un’azione effettiva finalizzata alla realizzazione dello scopo ultimo del partito era servita così ad apparecchiare il panorama accennato (Brunelli 1989). Ora quindi programmi, articoli, opuscoli, manifesti, conferenze o semplici grida di viva l’anarchia o il socialismo avrebbero potuto costituire il reato contemplato dalla nuova normativa sul domicilio coatto. Il senatore Parenzo non avevo dovuto spendere troppe energie per convincere la maggioranza della camera alta dell’assoluta interscambiabilità dei termini proprietà e famiglia con quello di ordinamento sociale; a conclusione delle sue osservazioni infatti quest’ultima nozione che in origine accompagnava le altre due venne eliminata dal testo. Rispetto poi al comportamento incriminabile, per “atti preparatorî” manifestanti “il deliberato proposito di attentare, con vie di fatto” all’ordinamento doveva intendersi senz’altro, come osservavano lo stesso Parenzo e Paternostro, gli atti di propaganda, ossia, i giornali, i meeting, le associazioni, insomma la sfera delle manifestazioni del pensiero (Atti Parlamentari 1897, 71-73). La riforma rischiava così di normalizzare la lesione del diritto di manifestare il pensiero praticata in precedenza in antitesi con i fondamenti del liberalismo, rendendo di fatto assai difficoltosa qualsiasi forma stabile di organizzazione del dissenso.
Un dovere, tutto costituzionale: la Resistenza
L’allarme nelle file anarchiche per le conseguenze connesse all’approvazione di questo articolo del disegno emerge con grande chiarezza dal pezzo Per la libertà che Gori pubblicò su “L’Agitazione”. Il provvedimento, scriveva, “mira adi introdurre nella legislazione permanente dello Stato la vera e propria deportazione in via amministrativa, per ragioni politiche”; si trattava di “una legge dei sospetti, nuda e cruda”, “di una rappresaglia legislativa” e non “di una legge d’eccezione, né di disposizioni, per quanto odiose, tuttavia speciali contro la libertà personale d’ogni cittadino dello Stato, giacché questa cosa, al di sopra d’ogni altra sacra, si vorrebbe porla in balìa dei questurini, alti e bassi – sotto il solo controllo di una vaga speranza: che essi si degnino manometterla quanto meno è possibile”. La novità legislativa presentava per Gori pericoli ben più gravi dell’assai temuto art. 247 del codice penale impiegato fino ad allora per reprimere il dissenso politico. I reati di opinione in esso contemplati quantomeno erano perseguibili solo in sede giudiziaria; il carattere “mostruoso” dell’uso dell’art. 247, denunciava l’avvocato toscano, “ comincia a diventare un nulla di fronte alla reazione folle e scellerata, a cui porgerebbe le armi più aguzze ed insidiose il progetto di legge sul domicilio coatto”(Gori 1897b, 101-102). Diventava così urgente e indispensabile la partecipazione degli anarchici alla campagna promossa dagli altri partiti popolari in tutto il paese, con cui si rianimava lo spirito della Lega per la libertà ideata da repubblicani, socialisti e radicali nel 1895; una partecipazione che per molti versi assumeva proprio il significato di un’adesione al modello della Lega al tempo osteggiata dagli anarchici e che il nucleo de “L’Agitazione”concepivacome una premessa per un’ampia e non occasionale collaborazione nella sfera della tutela delle libertà civili. Sullo sfondo della maggiore importanza attribuita alla difesa di queste ultime nella più recente riflessione malatestiana (Masini 1981) e in quella di altri protagonisti, “L’Agitazione”da tempo pubblicava articoli su questo tema, affidandosi più di frequente alla penna di Nicola Samaja. Il 30 maggio per esempio erano usciti due pezzi, Il dovere della resistenza e In difesa delle leggi dove si insisteva appunto sulla centralità delle libertà politiche e civili e sull’opportunità di norme garantiste a partire da quelle sul domicilio coatto, come sottolineava Samaja (Larsen 1897) nel secondo intervento. Tuttavia un accelerato passaggio dalla dissertazione su tali argomenti alla decisa proposta di una cooperazione con gli altri partiti si verificò dopo la pubblicazione di Gori, mentre dalla fine di settembre maturarono le condizioni per una effettiva convergenza con repubblicani e socialisti finalizzata alla lotta contro la misura di polizia preventiva4, sebbene permanessero vive tensioni e polemiche. Dall’autunno al marzo del 1898, il giornale fornì costantemente notizie circa conferenze anarchiche e socialiste, magari in circoli messi a disposizione dai repubblicani, comizi partecipati da esponenti delle diverse forze popolari, arringhe difensive e commemorazioni collettive incentrate sulla libertà di manifestazione del pensiero, comitati unitari per l’abolizione del domicilio coatto e funerali di condannati a quella pena presenziati dai principali protagonisti della campagna in corso. Diversamente, non venne raccolta dai vertici dei partiti popolari l’iniziativa lanciata in febbraio dalla Federazione socialista anarchica romagnola “per costituire nei varii paesi comitati, composti di radicali, repubblicani, socialisti-democratici e socialisti anarchici, in difesa della libertà di associazione, iniziando conferenze, comizii, numeri unici, manifesti, ecc.” (“L’Agitazione” 1898a). La Federazione era sorta nel corso del 1897 e, almeno nelle intenzioni dei promotori, aspirava a costituire il nucleo originario del partito anarchico vagheggiato da Malatesta e dai militanti a lui vicini. L’arresto di Malatesta e dei sui collaboratori il 18 gennaio del 1898 ipotecò l’agenda della Federazione, fresca del primo congresso a fine dicembre (Masini 1981). Il 7 febbraio infatti lanciò la proposta accennata insieme all’idea di un manifesto-protesta contro l’applicazione “a danno dei compagni di Ancona” della famosa norma sull’associazione a delinquere, manifesto pensato con la finalità di accelerare la strutturazione del partito nazionale5. Più di un mese dopo, in merito al primo progetto, Samaja lamentò il silenzio della stampa nazionale socialista e repubblicana (Larsen 1898) e prima dell’ondata di reazione di maggio, che avrebbe travolto uomini e partiti, non vi furono spinte dal centro per formare comitati unitari per la libertà di associazione; in ogni caso però, soprattutto nelle aree classiche del “romagnolismo”, solidarismo e collaborazione si espressero in una molteplicità di forme sul piano locale, comprendente anche i comitati unitari, mentre, come noto, il processo Malatesta accese un fronte protestatario generale.
Le direttrici indicate furono innervate potentemente da Gori tramite l’attivazione di un ventaglio di presenze, di modalità di azione e di trame discorsive che ne avrebbero fatto un’icona del mondo popolare e, per questo, un’effige persistente della composita galleria socialista dei grandi del primo ventennio del Novecento (Ridolfi 1992). Gori praticò tutti gli spazi pubblici della propaganda oratoria; le informazioni fornite da “L’Agitazione”suggeriscono una differenziazione credibile al di là delle ovvie omissioni a tutela della persona. Tra giugno e febbraio, i luoghi pubblici frequentati furono sostanzialmente le aule dei tribunali, i tragitti urbani dei funerali e le sedi commemorative. Le numerose difese furono intervallate per esempio dalla partecipazione al funerale di Silio Tabai, definito “un’altra vittima del domicilio coatto” (“L’Agitazione” 1897c), e dall’intervento a un’imponente manifestazione pisana in onore di Giordano Bruno. Al funerale di Tabai presenziò insieme al deputato repubblicano De Andreis, membro del comitato centrale per l’agitazione contro il coatto e condannato poi nel 1898 dal tribunale di guerra di Milano a dodici anni di carcere (Levra 1975); Gori e De Andreis trasformarono così l’evento in un gesto politico ad alto contenuto simbolico in continuità con una radicata tradizione ottocentesca. Di uguale segno fu la vicenda relativa alla commemorazione pisana di Giordano Bruno che, come noto, insieme a Galilei, rappresentava per l’intero universo radicale il principale nume della libertà di pensiero. Il tributo al nolano comprese l’inaugurazione di una lapide con l’epigrafe del repubblicano Bovio, uno dei contemporanei più cari all’anarchismo italiano, e un comizio con gli esponenti delle tre anime della battaglia contro il coatto: Gori, il repubblicano Faustino Sighieri e il socialista Costa fino a poco tempo prima giudicato uno dei principali responsabili dell’indebolimento del movimento anarchico e per questo fatto segno di una durissima campagna di accuse (Antonioli, Bertolucci 2011).
Nei roventi mesi di marzo e aprile del 1898, le aule dei tribunali continuarono a restare la scena privilegiata da Gori con la significativa aggiunta dei circuiti conferenzieri, ubicati quasi sempre nelle città di svolgimento dei processi, e degli itinerari della più imponente commemorazione organizzata dalle forze popolari alla vigilia della reazione. Questa complessiva preponderanza delle presenze in tribunale impone alcune osservazioni preliminari. Negli ultimi anni, i processi penali di fine Ottocento hanno rappresentato l’oggetto di un filone di studi particolarmente fertile che ha restituito la centralità dello spazio giudiziario nell’Italia liberale sotto diversi aspetti. Il paradigma dell’assoluto protagonismo dell’opinione pubblica nel processo penale ha costituito l’asse di indagini sui numerosi attori di quello che è stato identificato, con particolare attenzione alla Corte d’assise, come uno dei maggiori spettacoli dell’epoca (Alessi 2001; Giornale di storia costituzionale 2003; Lacchè 2006; Lacchè 2007; Colao, Lacchè, Storti 2008). Su questo sfondo la figura fondamentale dell’avvocato e le sue arringhe hanno occupato un posto decisivo nella riflessione. L’importanza a fine Ottocento dell’oratoria del tribunale sotto il profilo della formazione di un consenso personale e di partito aveva ricevuto una parziale attenzione in alcuni studi, come quello di Ridolfi dedicato al socialismo (1992); tuttavia i contributi sulla sfera defensionale si sono arricchiti di più articolati tasselli, come dimostra, per esempio, una ricerca sulle Difese penali del principe del foro Enrico Ferri che si focalizza sul prontuario di consigli elargiti agli avvocati per affrontare un dibattimento pubblico in grado di trasformarsi in un “ottimo pulpito per la divulgazione” delle tesi positiviste (D’Amico 2008). La vastità della platea in tribunale costituita in parte da un pubblico connotato da una cultura ancora impregnata di oralità, la presenza della stampa e la enorme fortuna del genere giudiziario garantivano all’arringa un auditorio formidabile. Sulla base di tali premesse, risulta senz’altro utile una rivisitazione delle arringhe di Gori che, tra l’altro, non fu meno consapevole del suo collega della potenza di quel canale di circolazione; peraltro al nodo della diffusione e della ricezione se ne aggiunge un altro importante in questa sede. I processi politici innescavano dinamiche di convergenza peculiare tra forze corroborate non di rado dall’adozione di un linguaggio comune che sfumava le divergenze e i duri scontri sul piano nazionale, proiettando nel pubblico un’immagine di corrispondenza con pochi chiaro scuri. Un aspetto questo che tra l’altro fornisce un ulteriore tassello in merito al noto tema delle complesse articolazioni della geografia politica e partitica italiana. I processi “goriani” del 1897-1898 risultano in questo senso emblematici in virtù di quella sorta di anestetizzazione delle aspre polemiche del biennio precedente che si produsse nelle sedi giudiziarie6. Le radici della rarefazione delle divergenze affondavano intanto in un modello di difesa basato sul frequente ricorso a figure e canoni tipici della democrazia radicale; modello particolarmente caro e non solo in quel frangente a Gori. Le difese di Gori assai raramente si consumavano intorno a specifiche questioni normative e giurisprudenziali; piuttosto le trame si presentavano come una miscela di ingredienti che inglobava e riplasmava patrimoni culturali liberali e democratici e immaginari e simboli popolari. Sotto questo profilo risulta interessante l’analisi di due processi del 1898, quello intentato contro una trentina di carraresi e il famosissimo procedimento a carico della redazione de “L’Agitazione”. Il primo fu innescato dall’attentato a un delegato di pubblica sicurezza in seguito al quale repubblicani, socialisti e anarchici vennero denunciati con le imputazioni di associazione a delinquere (famigerato art. 248), detenzione ed esplosione di bombe (legge crispina 314) e tentato omicidio. Per legittima suspicione il processo si celebrò presso la Corte d’Assise di Casale Monferrato dal 1° marzo sino alla fine di aprile e si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati salvo uno, condannato ad una pena irrisoria7. Per molti aspetti la vicenda presenta forti analogie con il processo agli anarchici di Bedizzano di Carrara che, come ha rilevato Brunelli, costituì uno dei primi tentativi della magistratura di strumentalizzare un gesto individuale per colpire attraverso l’art. 248 un’intera area politica(Brunelli 1989). Come nel 1891, l’aggressione venne configurata nei termini di una mera manifestazione di un disegno eversivo finalizzato all’abolizione della proprietà privata con mezzi violenti, ma a differenza di allora si registrò lo sforzo di coinvolgere tutte le forze politiche popolari mediante l’attribuzione indistinta dello ‘stigma’ dell’anarchismo con esiti però assai diversi da quanto accaduto in precedenza. L’impianto accusatorio fondato soprattutto su manifesti usciti in occasione del 1° maggio del 1896, su commemorazioni della Comune e sullo statuto del 1883 della ‘setta’ anarchica carrarese, usato già nel 1891, non resse e il processo si chiuse appunto con l’assoluzione degli imputati. Gori si presentò il 13 aprile, allestendo “una barricata di volumi” (“Lo Svegliarino” 1898) che si componeva di testi della letteratura anarchica e socialista e di opere di straordinario successo, quali La delinquenza settaria di Sighele, La dottrina dei partiti politici di Bovio, La sovranità popolare di Ellero e La vita di Gesù di Renan (“Eco del Carrione” 1898). Nella vetrina allestita si contavano alcuni classici strumenti dell’oratoria di Gori, mentre non figuravano opere relative a pensatori spesso presenti nelle sue evocazioni e citati anche in questa occasione, come Francesco Carrara, Guglielmo Ferrero e l’abate Lamennais. Il rinvio ad essi si manifestava infatti di frequente nell’articolazione di uno schema difensivo poggiante su due perni: il mito popolare del Gesù socialista e la rivendicazione del principio della tutela dei diritti individuali come fondamento della norma penale. Nel caso specifico, Gori non trattò neppure di sfuggita il nodo del reato di sangue, concentrandosi esclusivamente sul tema della natura dell’anarchismo e sulla non perseguibilità di una dottrina professata da un movimento in assenza di veri e propri delitti. L’essenza dell’anarchismo veniva definita proprio attraverso la vecchia e la più recente trasfigurazione di Gesù divulgata dalla democrazia e dal socialismo italiano. Al che cos’è l’anarchismo, Gori infatti rispose citando “la vita di Gesù di Renan che dice anarchico il Nazareno sotto certi punti di vista […] il Ferrero e…. la Bibbia” e rilevando che “Cristo non ebbe la croce di commendatore, ma fu messo in croce, però la sua religione sopravvive dopo 18 secoli” (“Eco del Carrione” 1898). Se l’inossidabile Gesù umanizzato di Renan apriva il ciclo delle citazioni, il Lammenais della cultura politica liberale e radicale quarantottesca, in particolare di quella toscana (Verucci 1996), lo avrebbe chiuso. All’accostamento cristologico, seguì infatti una trama di difesa della libertà di pensiero che, ricalcando per molti versi la traiettoria del processo Galleani di quattro anni prima, recuperava alcuni nuclei del garantismo giuridico delle diverse anime della penalistica italiana e due celebri passaggi de La dottrina dei partiti politici di Bovio e delle Parole d’un credente di Lamennais. Contro il “processo alle tendenze”, si appellò in primo luogo a Francesco Carrara, la cui concezione del diritto penale come “scienza della libertà, delle riforme e dei diritti civili” (Sbriccoli 1974-1975) fu, come noto, preservata e rielaborata dalla corrente più fertile del socialismo giuridico di fine Ottocento interpretata da Turati e alimentata nella sua formazione dalla produzione di Ellero e Bovio, entrambi presenti appunto nell’orazione di Gori. Il ricorso a questi ultimi due, in analogia con umori diffusi, rinvia peraltro alla peculiare congenialità delle loro composite riflessioni. Le opere e discorsi del penalista conservatore Ellero e dell’avvocato repubblicano arricchivano potentemente da anni il filone antisistema e antiparlamentare dei circuiti politici e culturali italiani e fornivano al contempo un materiale giuridico complesso che incorporava elementi dell’ideologia penalistica classica, sotto il profilo garantista, e concezioni del reato e della giustizia fondanti la penalistica sociale8. Nel caso specifico, Gori riprendeva, seppur genericamente, la comune denuncia degli abusi e degli indirizzi preventivi del sistema italiano che sfociavano in un processo ad “un’utopia”, per la quale in conclusione spendeva la consuntissima formula estrapolata dal volume di Bovio – “anarchico è il pensiero e verso l’anarchia va la storia” – e le parole di Lamennais. La parabola lamennaisiana del destino dei primi cristiani costretti nelle catacombe perché accusati di propagandare dottrine pericolose con la connessa ammonizione a garantire a tutte le fedi la libertà di espressione terminava, come accennato, il ciclo delle citazioni. L’evocazione costituiva la prima delle due immagini di persecuzione dei profeti dell’avvenire che avrebbero chiuso la difesa. Ad essa sarebbe infatti seguita quella dei patrioti del quarantotto, “i perseguita di ieri”, ai quali si doveva lo statuto: “il patto bilaterale”, di cui si festeggiava il cinquantesimo anniversario, era infatti il “frutto del sangue di cospiratori” (“Lo Svegliarino” 1898). La chiave evolutiva-deterministica del processo storico con i due stadi temporali di persecuzione dei cristiani e dei padri della patria portatori di idee grandiose e vittoriose introduceva così naturalmente la rappresentazione implicita del terzo e conclusivo approdo intravvisto dalla nuova ‘setta’ di profeti. Per gli ultimi ‘giusti’ si chiedeva, in virtù dunque anche dell’ammaestramento della storia, quella libertà di pensiero negata inutilmente ai predecessori.
Questa tipologia di affresco venne riproposta nel processo alla redazione de “L’Agitazione” accusata, come ben noto, di dirigere la regia dei moti per il caro-viveri verificatisi ad Ancona nel gennaio del 1898. Malatesta e i compagni vennero incriminati del reato previsto dall’articolo 248 e di quello contemplato nell’articolo 247, che rappresentò, come ricordato, uno dei principali congegni per reprimere la propaganda socialista e anarchica. La vicenda si concluse, tuttavia, con l’applicazione dell’articolo 251, con cui l’associazione anarchica venne identificata come sediziosa, concedendo così al sodalizio, seppur attraverso palesi violazioni, una patente più nobile rispetto al marchio della comune delinquenza solitamente affibbiato ai gruppi anarchici (Brunelli 1989; Berti 2009). Gli elementi probatori furono ravvisati nelle pubblicazioni de “L’Agitazione”, nel Fra contadini di Malatestae nelle conferenze di quest’ultimo sul domicilio coatto e sul socialismo anarchico, il cui contenuto violento veniva ricostruito attraverso le notizie riportate dai confidenti. Le udienze registrarono la presenza di repubblicani, socialisti e anarchici in qualità di testimoni della difesa, alcuni dei quali avevano partecipato con Malatesta alle conferenze contro il domicilio coatto, o di avvocati del gruppo. La presenza massiccia di socialisti di primo piano, come Enrico Ferri, e la natura dei loro interventi quasi tutti incentrati sul distinguo tra la corrente individualista e quella degli organizzatori, sul binomio individualismo-violenza e sulla debolezza dell’impianto probatorio concorse con buona probabilità all’emissione di una sentenza anomala. L’arringa di Gori riprese alcuni accenti, pur seguendo poi binari peculiari. Al pari per esempio dell’avvocato Angelucci in apertura mise sotto accusa la pratica giudiziaria diffusissima di affidarsi alle testimonianze degli agenti di polizia, basate sulle narrazioni di confidenti anonimi, adoperando la lunghissima citazione di una pagina di Francesco Carrara, già avanzata nel corso del processo di Casale Monferrato, sul metodo da Inquisizione di “convertire i denunziatori ufficiali in testimoni legittimi” (Gori 1899). Sempre nel solco dei precedenti oratori, ricostruiva la dottrina “pacifica” degli organizzatori anarchici. Tuttavia dopo la lettura di un ampio passaggio dell’Anarchia di Malatesta sulla naturale spinta progressiva alla cooperazione e alla solidarietà, fuggiva dall’equazione individualismo-violenza- legittimità della repressione attraverso il riadattamento della tesi turatiana del fattore sociale del delitto (Sbriccoli 1974-1975) e la contrapposizione tra morale anarchica e morale borghese; contrapposizione che finiva per costituire il fondamento quasi esclusivo della diversità di due sistemi politici ed economici sommariamente identificati con i termini di società borghese e di consorzio anarchico. Assimilata a quella ‘barbarica’ dei Papui descritta da Ferrero, la morale borghese restava eminentemente una morale di violenza nutrita di rapine della ricchezza prodotta da altri, di militarismo, di strazio delle famiglie e di espropriazione della patria. Nel gioco delle antitesi, contrapponeva ad essa la raffigurazione di una morale interpretata dagli ultimi profeti “dell’era nuova” inchiodati “sulla croce” di due articoli del codice, croce destinata a trasformarsi nel “simbolo della purezza” quale fu quella del “mite Gesù”, il primo “malfattore” della storia. La grande trasformazione si consumava in una immagine radicata di purificazione che si declinava nelle forme della spoliazione dei beni, del tolstoismo, della redenzione della famiglia e dell’umanismo della lettura fornita da Gaetano Meale, figura centrale del circuito del socialismo umanitario milanese animato da Ersilia e Luigi Majno. La fine delle guerre di Meale introduceva il ciclo evolutivo dei tre stadi di sviluppo dell’umanità, corrispondenti all’egoismo individuale barbarico, al patriottismo e all’umanismo, inteso però come sorellanza delle patrie, e delle tre cerchie di profeti – gli evangelici, i rivoluzionari democratici del quarantotto e gli anarchici – perseguitati e traditi nei loro ideali, ma non per questo sconfitti. La connessa proposizione dell’ascendenza evangelica e democratica e l’idea di filiazione dalla generazione risorgimentale divenivano il cardine della rivendicazione delle libertà, in primo luogo quella di pensiero, per le quali si era consumata l’ultima rivoluzione. Di fare la propaganda anarchica, sosteneva, “noi rivendichiamo il diritto, in nome di quelle stesse libertà, che tanto sangue costarono ai padri nostri, ed a cui non vogliamo rinunziare, perché le conquiste della civiltà sono imprescrittibili, e che difenderemo contro chiunque”(1899, 95). La perorazione finale per l’assoluzione degli imputati avrebbe infine incorporato le chiavi ripercorse: “Ve la chiediamo – dichiarava Gori –, in nome della libertà di pensiero […] ve la chiediamo in nome di quegli stessi principi, per cui lo Stato inaugurò in Italia la sua funzione nazionale […] ve la chiediamo per la giustizia della loro causa, per la onestà della loro vita, per la purezza delle idealità loro”. La sentenza contraria si sarebbe comunque profilata semplicemente come “una fosca macchia di questa epoca di transizione, innanzi al tribunale dei secoli” perché la rivoluzione “arriverà lo stesso”. Il Carducci degli Inni Satanici restava in fondo per Gori il miglior interprete della “logica” delle rivoluzioni, quando aveva scritto:“Conoscete voi un ergo più logico del 10 agosto 1792 e che meglio conchiuda l’antecedente del 14 Luglio 1789? E quale organizzazione contro le speranze d’Italia di Cesare Balbo e le teoriche dei moderati del quarantasette, ha vinto in perscuità le 5 giornate di Milano? E qual promessa v’è stata al mondo più vasta e terribile delle giornate di giugno 1848?” (1899, 95-96). L’ altro quarantotto e l’altro cinquantenario erano giocati sul filo dell’eco della commemorazione recente delle cinque giornate di Milano organizzata da repubblicani, socialisti e anarchici in difesa delle libertà e contro il domicilio coatto.
In quello che fu uno dei principali momenti di fine secolo di rito collettivo dei movimenti popolari, Gori aveva elaborato un discorso in rappresentanza degli anarchici che riprendeva alcune delle più forti categorie risorgimentali declinate in una chiave comune agli internazionalisti e alla democrazia radicale dell’Ottocento. La trama retorica era stata calibrata attorno a tre nuclei – la patria sognata dai Pisacane, la patria tradita e la patria finalmente redenta – nutriti di immagini potenti e consolidatissime: il martire, l’esilio di popolo e di apostoli e la risurrezione con la vittoria ultima come realizzazione del disegno incompiuto dei padri. La redenzione assumeva i contorni di un risveglio dello spirito del quarantotto contro il nuovo straniero scandito dall’Inno di Garibaldi di Mercantini e destinato alla “liberazione finale” nel segno appunto del patrimonio dei predecessori.
Su questo altare della rivolta – annunciava Gori – io spezzo le catene della così detta libertà condizionale, impostami dall’alto – quasi domicilio coatto al pensiero – e parlo in nome dei perseguitati […]. Parlo a voi, o morti per la libertà, affinché i vivi mi ascoltino […]. Parlo a voi, da mezzo secolo morti combattendo e sognando, che il vostro sangue avrebbe fatto germinare su questo suolo il frutto anelato di tutte le ribellioni di popolo: la giustizia sociale e la libertà. Destatevi, o morti, dal sogno d’oro; perché la realtà è ben altra […]. Non c’è più lo straniero; ma la patria dov’è?….la patria madre a tutti i suoi figli?… Li ho visti io, sugli angiporti dell’estremo occidente, questi figli d’Italia, raminghi e scherniti […] Li avete visti pur voi, o cittadini, i crocesignati concessionari […] passare impuniti […]. Li avete visti voi gli apostoli, i precursori, i combattenti per la redenzione del lavoro, sospinti in massa nelle galere ed al domicilio coatto. Perfino in questi giorni di giubileo dello Statuto ben 52 generosi gemono tuttora coatti, nelle isole infami […]. Li avete visti voi, i pietosi provvedimenti governativi contro la canaglia […]. No, che la patria non è dunque redenta; lo attesta il popolo innanzi a questa ara della rivoluzione […]. Ma questo monumento per noi non è solo ricordo del passato; è vaticinio dell’avvenire. Il soffio potente del 48 si sprigionerà da quel sepolcro di gloria – come vento di procella purificatrice – quando l’ora irrevocabile della Nemesi squillerà nel gran cielo della storia […] ed anche allora il popolo canterà, come nella epopea garibaldina: “le case d’Italia son fatte per noi” […]. E canterà la strofa della vostra resurrezione morale, o martiri!: “i martiri nostri son tutti risorti”. E tu, o popolana, bronzeo simbolo della riscossa, suonerai ancora a stormo contro i nuovi croati […] Cittadini! Innanzi all’alba rossa del XX secolo, che si affaccia su questo cinquantennio di combattimenti e di speranze deluse e tuttora rinascenti, nel cospetto di questi morti immortali, noi dobbiamo promettere in nome degli sfruttati e degli oppressi di tutte le patrie che la liberazione finale […] la compiremo noi come retaggio storico di tanta fede e di tanto martirio (“L’Agitazione” 1898b).
Due mesi dopo, l’orazione avrebbe arricchito il materiale dell’accusa nel processo intentato dal Tribunale di guerra di Milano conclusosi, come accennato, con la condanna di Gori a otto anni di carcere (Cordova 1983), quando ormai aveva già lasciato il paese in direzione dell’Argentina. Nel paese sudamericano peraltro avrebbe riprodotto tesi e discorsi circolati nel breve soggiorno italiano come nel caso della pubblicazione del processo Malatesta concepita per una propaganda mirata in primo a luogo ad alimentare un progetto di partito.
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Biografia
Biography
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- Tra i più recenti contributi dedicati alla figura di Gori si segnalano Antonioli 1996; 1999; Binaghi 2002; Antonioli, Bertolucci 2003; Antonioli, Bertolucci 2011. [↩]
- A questo proposito il 9 dicembre 1897 veniva pubblicata sulle pagine de “L’Agitazione” la seguente notizia: “Il compagno avv. Pietro Gori, non potendo rispondere personalmente a tutti quei compagni e gruppi che lo richiedono per conferenze di propaganda, avverte che egli si trova impossibilitato, per la libertà condizionale di cui gode, a tenere qualsiasi discorso sulla questione sociale, sotto comminatoria, più volte fattagli dall’autorità politica, di esser mandato a domicilio coatto. A stento gli si riconosce il diritto di recarsi in altre città a difendere delle cause, trovando abbastanza audace che egli prediligesse quelle politiche. Gli fu anche proibito di scrivere per l’Agitazione articoli… firmati. È dunque solo sotto l’aspetto professionale che può essere – perora – utilizzato il compagno nostro. E sotto questo riguardo egli non chiede di meglio che d’essere utile ai compagni ed alla causa” (“L’Agitazione” 1897d). [↩]
- Cfr. Nel comma b dell’art. 3 si prevedeva l’assegnazione al coatto, “quando siano pericolosi alla sicurezza pubblica” “di coloro che con atti preparatorî abbiano manifestato il deliberato proposito di attentare all’ordinamento della famiglia o della proprietà o di sovvertire i principî pei i quali è fondato l’ordinamento sociale” (Atti parlamentari, 1896a, 3). Era cancellata cioè la pur blanda condizione di un attentato per vie di fatto all’ordinamento sociale, prevista dal provvedimento crispino. Nella relazione introduttiva al disegno Rudinì stesso sottolineava poi di aver preferito “mettere nelle Commissioni locali e centrale, ufficiali di polizia giudiziaria anziché magistrati”, Ibidem, p.1. Per un riferimento a questo progetto in prospettiva comparata con il caso francese (Marchetti 2009). [↩]
- Alla vigilia dell’attento di Angiolillo si dava notizia di un comitato milanese, composto da 118 associazioni, per l’abolizione del domicilio e il ritiro del disegno di legge. “Gli anarchici – esortava l’articolista – facciano il loro dovere. Questa è un’agitazione nella quale, e per il fine e per il metodo, noi possiamo trovarci d’accordo con tutti quelli che vi partecipano” (“L’Agitazione” 1897a). A meno di un mese di distanza compariva la lettera Per un’azione comune ai vari partiti di progresso a firma “alcuni socialisti”, che annunciava un comizio popolare contro la legge sul domicilio coatto da tenersi a Fabriano entro settembre all’insegna della concordia; in risposta “L’Agitazione” scriveva: “tutti siam d’accordo oggi, o dovremmo esserlo nel volere strappare al governo il più di libertà possibile e nel voler migliorate il più possibile le condizioni dei lavoratori” (“L’Agitazione” 1897b). [↩]
- Il manifesto-protesta era concepito nei termini di un’esposizione dei principii e della tattica e prevedeva la pubblicazione con le firme di “tutti i compagni d’Italia” (“L’Agitazione” 1898a). Per quanto concerne questo aspetto cfr. (Larsen 1898; “L’Agitazione” 1898d). Il manifesto venne pubblicato con il titolo Al Popolo italiano! (“L’Agitazione”1898c) e raccolse più di 3.000 firme di anarchici (“L’Agitazione” 1898d). [↩]
- Sbriccoli (1974-1975, 588) ha rimarcato come i processi politici successivi al maggio 1898 rappresentassero “il punto di coagulazione di tendenze diverse”, “il punto d’arrivo di una ‘battaglia giuridica’ (combattuta ‘dentro’ la battaglia politica), che aveva visto impegnati per lungo tempo i giuristi socialisti e ‘democratici’ (in particolare nei primi mesi del ‘97, contro il disegno di legge Di Rudinì sul domicilio coatto), ed il punto di partenza per ulteriori battaglie”. [↩]
- Duecento furono i testimoni, numerose le testate giornalistiche, di cui due carraresi che riprodussero in supplemento l’intero processo, mentre le porte dell’aula rimasero sempre aperte al pubblico (“Lo Svegliarino” 1898). Per alcune notizie sul processo cfr. Gestri 1976, 206-211. [↩]
- A proposito di Ellero, Colao ha però insistito su una evoluzione del suo pensiero; dall’originaria condivisione delle tematiche fondamentali della scuola classica sarebbe passato a una posizione “in netta antitesi con le teorizzazione garantiste svolte in precedenza” (1986, 84). Per quanto concerne la complessa visione penalistica di Bovio (Colao 1986 89-90). In merito alla centralità di Ellero nello scenario del socialismo giuridico di fine secolo cfr. Sbriccoli 1974-1975, 567; in relazione invece ai suoi esordi segnati dalla battaglia contro la pena di morte cfr. Id 1990, 163-164. Sulla fortuna tra le file radicali e socialiste della requisitoria antiborghese di Ellero sviluppata nel volume La tirannide borghese cfr. Banti 1996, 230-231. [↩]