Gli eroi dello sport: i giganti del basket

di Saverio Battente

 

Il tema dell’eroismo applicato allo sport, in generale, in età contemporanea ha finito per assumere un ruolo importante in relazione alla sua funzione sociale ed identitaria, tanto in tempo di pace che di conflitti, per le società di massa (Hobsbawm, 1986; Mosse, 1975). Lo sport in senso moderno, secondo G. Panico, ha progressivamente sostituito il concetto di agonismo a quello di antagonismo, impostandone una rinnovata concezione (Panico, 1999). A. Guttmann, infatti, ha individuato, tra l’altro, nella spettacolarizzazione uno dei tratti tipici propri dello sport moderno (Guttmann, 1978). Altrettanto rilevante ed essenziale, in chiave moderna, per lo sport è stata una sua burocratizzazione, sempre secondo Guttmann, prodromo di una regolamentazione politica della società, secondo N. Elias (Elias, 1989). Proprio una professionalizzazione della pratica sportiva, in seno alla società, nell’alveo del leisure e del tempo libero, secondo D. Mandell, ha segnato una ulteriore svolta (Mandell, 1989; Pivato, 1994). Alla concezione sportiva anglosassone elitaria ed etica, propria dell’età vittoriana, come leva per la selezione di una rinnovata classe dirigente, si era saldata una diversa impostazione dello sport, estesa alle classi più basse, fino ad investire l’intera società. Si erano create le premesse, nell’alveo del capitalismo, per una nuova “religione laica”, secondo E. Hobsbawm (Hobsbawm, 1986; Corbin 1996). Ad un eroe gentleman, contraddistinto nelle sue gesta, dalla ricerca della gloria, e riconoscibile per fattezze e stile di vita, si andava sostituendo un eroe per professione, attento anche al riconoscimento economico delle proprie gesta. Con il professionismo, infatti, al filantropismo etico aristocratico, si era sostituito uno spirito capitalistico, proprio, con motivazioni diverse, tanto della borghesia quanto del proletariato (ibidem). Gli ideali sportivi, usciti dal mondo anglosassone, ed il relativo eroismo, una volta giunti sul continente, su di un piano collettivo, avevano finito per intercettare l’idea di nazione, spostando la competizione ed il relativo eroismo in chiave nazionalista, fino alle derive dei regimi totalitari (Mosse, 1975; Weber, 1989). L’eroe, in generale, doveva essere colui capace di lottare con coraggio straordinario, fino all’estremo sacrificio, per difendere un ideale, al di là delle proprie qualità, arrivando a gesta ed imprese eccezionali. Applicato al mondo dello sport, per tanto, l’eroe era colui capace di eccellere nelle competizioni, contro ogni avversità (Barthes, 2007). Il concetto di eroe applicato allo sport, quindi, era passato da colui che ha tempo da sprecare, all’individuo che si carica sulle proprie spalle i destini di una intera nazione, rappresentandola, fino all’eroe qualunque degli ultimi quarant’anni (Holt-Lanfranchi-Mangan, 1996). La spettacolarizzazione dello sport, cornice essenziale per la genesi di un suo eroe, quindi, presupponeva una serie di elementi, quali, tra gli altri, una liturgia laica, luoghi preposti per la pratica, un pubblico e dei “cantori”, tutti elementi in divenire con la modernizzazione. In tal senso lo sport, in generale, ed il tema dell’eroismo sportivo, nello specifico, hanno finito per assumere una valenza rilevante, quando non centrale, in termini sociali, culturali, politici ed economici, con tratti distintivi a seconda dei paesi, delle epoche e delle ideologie di rifermento, quali caleidoscopi privilegiati ed originali per analizzarne le dinamiche ed i nessi di causa effetto nelle loro relazioni dinamiche.

In particolare, in Italia, l’eroismo sportivo, sebbene giunto in ritardo rispetto a gran parte del mondo occidentale, retaggio di varie discipline, ha attraversato in vario modo tutta la storia unitaria del paese, accompagnandone ed adattandosi alle sue varie stagioni in modo originale (Marchesini,2016). In Italia il ciclismo, il calcio, il pugilato, gli sport motoristici, l’atletica, il tennis e lo sci, tra gli altri, infatti, hanno segnato a vario titolo con le loro imprese gesta divenute eroiche nell’immaginario collettivo degli italiani, nel corso delle diverse stagioni del percorso unitario, rispecchiate dall’attenzione dedicata ai loro eroi dalla letteratura scientifica e non (ibidem). Un ruolo peculiare, al contrario, l’ha assunta l’idea di eroe, applicata al basket, per la sua connotazione nazionale ed internazionale, per quanto molto meno analizzata, peculiare caleidoscopio capace di contribuire all’analisi di alcuni tratti tipici dell’identità italiana, nel corso dei vari regimi succedutisi in Italia.

La Grande Guerra aveva aiutato, infatti, in Italia, grazie all’esempio del contingente alleato americano, a trasformare la pallacanestro da una pratica ginnica per fanciulle in una disciplina sportiva per uomini (Battente-Menzani, 2009). Le forze statunitensi, infatti, avvalendosi dell’opera di sostegno della Young Men’s Christian Association (YMCA), utilizzarono, durante il primo conflitto mondiale, alcuni sport di squadra, già in uso nei college americani, per ricreare il morale delle truppe nelle retrovie del fronte (a cura di Belloni-Giuntini-Teja, 2014) 1. Tra questi un ruolo importante finì per averlo il basket che, in tal modo, per imitazione, iniziò a diffondersi anche sul vecchio continente tra le fila degli eserciti alleati, tra cui, appunto, quello italiano. La pallacanestro, peraltro, vi era già arrivata a cavallo tra Otto e Novecento, ma percepita, appunto, come pratica ginnica più consona all’universo femminile che come disciplina sportiva adatta alla virilità maschile.

I Giochi Interalleati del 1919, tenutisi a Joinville, vicino Parigi, per celebrare la vittoria alleata nella Grande Guerra, furono un primo palcoscenico, in cui una selezione militare italiana poté cimentarsi con il nuovo gioco, a livello internazionale (AA.VV., 1919). I primi del mese di maggio, in senso propedeutico per la vetrina celebrativa internazionale, i giocatori dell’esercito italiano avevano sfidato una rappresentanza studentesca dell’Istituto Cavalli e Conti presso la Villa reale di Monza (Landoni, 2011). Quello stesso anno, in occasione dell’arrivo del Giro d’Italia a Milano, la folla degli spettatori trepidante per la carovana rosa, fu intrattenuta da un’esibizione di pallacanestro tra due compagini italiane (Battente-Menzani, 2009). Si trattava della II Compagnia Automobilisti di Monza e la Compagnia Aviatori di Malpensa. L’incontro finì in pareggio sul risultato di 11-11. Emergeva confermata la rilevanza delle forze armate e secondariamente della scuola come volano di pratica e decollo non solo del basket, ma di gran parte dello sport italiano, sintetizzata dalla centralità delle discipline ginniche e dal ruolo di relativo indirizzo demandato alla Federazione ginnastica italiana. Per quanto il ruolo dell’esercito in questa prima fase di decollo del basket fosse determinante, tuttavia, ciò non significò la genesi di un epos sportivo centrata sul campione e sul suo eroismo agonistico applicata al basket (Ferrara, 1972; Ulzega-Teja, 1993; Landoni, 2012; Giuntini, 2000). Solo in apparenza poteva sembrare una contraddizione, se rapportata alla funzione tecnica e di disciplina che, invece, abitualmente, la pratica fisica aveva rivestito in Italia (Landoni, 2012).

La squadra italiana che gareggiò a Parigi nel 1919 con le divise bianche e lo stemma sabaudo era composta dai fratelli Muggiani, Baccarini, Sessa, Palestra, Pecollo e Bagnoli (Battente-Menzani, 2009). Sulla scia del successo sui cugini transalpini, in Italia il basket ebbe un sensibile interesse e relativo seguito, sul momento, a traino di un montante sentimento nazionalista. Mancava, tuttavia, ancora una compiuta consapevolezza delle potenzialità del giovane gioco, ancora troppo acerbo per essere in grado di esprimere una propria epica dell’eroe e del campione, anche a fronte dell’oggettivo ritardo palesato dalla cocente sconfitta maturata con la compagine americana a Joinville, che, tuttavia, non aveva scalfito l’enfasi per il successo sulla Francia. Tolti gli Usa, infatti, sul vecchio continente tutte le altre nazioni sembravano partire alla pari. In questa prima fase pionieristica del gioco del basket, inoltre, in Italia, la nuova disciplina continuò a rimanere sotto l’egida di indirizzo e di governo della Federazione Ginnastica Nazionale Italiana (FGNI). Era, come anticipato, l’indiretta conferma della continuità conservatrice dell’approccio allo sport in Italia, così come si era strutturata tra Otto e Novecento in età liberale. Ciò, per certi versi, contribuiva a rendere ancora più complesso e a rallentare il decollo di una sacralizzazione dei suoi atleti, per il mondo della pallacanestro, rispetto ad altre discipline assai più popolari, come il ciclismo. Tuttavia, in seno alla società civile, nel primo dopoguerra, si stava preparando il terreno ad un cambiamento di impostazione per la pallacanestro italiana, sebbene ancora non lineare e confuso, geograficamente concentrato al nord e circoscritto: l’8 ottobre 1921, infatti, presso la Birreria Colombo di Milano, appoggiandosi all’Internazionale F.C., un gruppo di atleti guidati dai fratelli Muggiani dette vita alla prima Federazione italiana pallacanestro, rendendosi autonomi dalla FGNI.2 Si trattava, in parte, di ex militari, espressione della borghesia cittadina, tornati alla vita civile. Muggiani ricordava come negli Usa si giocasse “in ogni palestra, in ogni scuola, in ogni classe”, essendo facilmente disponibili le infrastrutture per la pratica del basket. Diversamente dall’Italia dove la situazione era molto più pionieristica3. Muggiani, sul momento, non sembrava dare molto interesse alla propaganda nazionalista che individuava nel medioevo la genesi del gioco della palla al cerchio, precisando come la cosa importante fosse il gioco così come era stato strutturato e giocato negli Usa 4. Lo stesso Muggiani, infatti, ammetteva che esisteva un divario enorme con “gli yankees”, come la sfida di Joinville aveva palesato. Nonostante i grandi sforzi profusi, la palla era stata costantemente nelle mani degli americani, in quell’occasione, che solo per spirito “cavalleresco” avevano lasciato agli italiani ogni tanto esprimersi 5. Emergeva una vena di sincera ammirazione per il mondo americano, dietro cui stava anche un sentito anelito e desiderio di modernizzazione, che attraverso lo sport, era auspicato per l’Italia intera, a parere dei primi pionieri del nostro basket. In tale contesto era difficile ipotizzare una sacralità eroica applicata ai risultati sportivi dei primi giocatori di basket italiani. Tuttavia, con realismo Muggiani ricordava anche l’euforia che la vittoria sui francesi aveva acceso in Italia tra la pubblica opinione, di chiara intonazione nazionalista, funzionando da traino per “formare squadre…e farsi propagandisti del gioco” 6. Di fronte al valore ed al sacrificio dimostrato sul campo di battaglia e nelle trincee del primo conflitto mondiale da milioni di soldati, inoltre, ancora così drammaticamente fresco, le imprese sportive dei primi pionieri della pallacanestro difficilmente potevano assumere i toni della epicità eroica.

La Grande Guerra, tuttavia, sembrò aprire ad una rinnovata visione dello sport in Italia, anticipando l’utilizzo fattone poi dal fascismo (Landoni, 2016). Un ruolo interessante in tal senso lo ebbe la genesi e lo sviluppo del Coni, legato alla figura di Carlo Montù (Colasante, 1996; a cura di Bonini – Lombardo, 2015) 7. Gli sport di squadra iniziarono ad avere una più ampia diffusione. Si aprì, inoltre, una diversa concezione dell’atleta, anticipata, sempre per il tramite dell’esercito dalla figura dell’ardito, in antitesi ad una visione della truppa come sommatoria di fanti subordinati e disciplinati, fin lì predominante (Rochat,1981; De Felice, 1965). Questi corpi speciali, sebbene emblematicamente di élite, videro anche attraverso la ginnastica e lo sport il sedimentarsi di una visione più dinamica dell’individuo, poi fatta propria, in parte, dal fascismo e piegata di nuovo ad una visione di costruzione della nazione, sebbene autoritaria, come tentativo di soluzione della questione delle masse. Era lo stesso dualismo che si andava creando in seno al “vario nazionalismo” delle origini, diviso tra una sua impostazione organicistica ed una più individualistica, poi confluite e sintetizzate in seno al fascismo.

Nel 1926 Muggiani era partito per gli Stati Uniti, lasciando vacante la direzione della Federazione italiana palla al cesto. Al suo posto fu chiamato, non casualmente il generale Ferdinando Negrini. Il primo atto fu lo spostamento della sua sede a Roma, presso il Poligono della Cagnola.8

“L’eminente parlamentare…valoroso mutilato, …uomo dinamico e volitivo per eccellenza” aveva come merito, di nuovo, quello di aver organizzato una squadra nazionale capace di battere “dopo un match memorabile” la Francia.9 Il 4 aprile, infatti, a Milano l’Italia aveva battuto i Transalpini, con il risultato di 23 a 17 (Battente-Menzani, 2009). Tale vittoria fu replicata a Parigi l’anno successivo, il 18 aprile 1927, con il risultato di 22 a 18 (Ibidem). Lo stesso anno, tuttavia, l’Italia arrivò terza nel campionato mondiale maschile, organizzato dalla YMCA, dietro ad Usa e Francia. Gli stessi avversari del torneo di Joinville del 1919, ma con risultato invertito, rispetto ai francesi.

In questa fase pionieristica i primi giocatori italiani, seppur diretta o indiretta espressione delle forze armate nazionali, per quanto prestanti sul piano atletico, non necessariamente potevano essere identificabili come giganti. Il basket, infatti, venne ben pesto percepito come una disciplina in cui la stazza e l’altezza erano fondamentali. La pallacanestro, pur acquisendo una valenza di verticalità, in questa prima fase, inoltre, per quanto più dinamica di altre discipline, risultava uno sport ancora statico. Da subito, in Italia, si colse la poca consonanza tra le caratteristiche fisico-atletiche richieste dal basket e la struttura genetica della “razza” italica. In tal senso emblematica era la posizione di Gianni Brera, che riteneva il basket inadatto all’Italia, proprio per tali ragioni (Signori-Rubini, 1968).

La pallacanestro in Italia, come nel resto del mondo occidentale, fin dalla sua esperienza in seno alle Forze Armate, si connotò in chiave borghese. La pratica sportiva del basket, quindi, rientrava, tra l’età liberale e l’avvento del fascismo, tra quelle categorie di attività ludiche, in quanto, apparentemente, non ancorata ad un’utilità pratica oggettiva e sociale, diversamente dalla genesi propria degli sport di squadra nel mondo anglosassone (Barthes, 2007; Veblen, 2007; Bonetta, 1990; Ferrara,1992) 10. Il concetto stesso di eroismo sportivo incardinato sull’idea di campione, applicato alla pallacanestro finì, in questa fase, per risentirne. Mancava nel basket degli albori qualsiasi traccia di riscatto sociale attraverso la pratica sportiva ed il successo, come invece, era visibile, ad esempio, nel ciclismo o nel pugilato, non casualmente, di diversa estrazione sociale (Marchesini, 1998; 2009; 2006). Diversa era anche la genesi e la natura rispetto al calcio, con cui tuttavia, condivideva la matrice borghese (Foot, 2007; Panico-Papa, 2002; Pivato, 1990).

La pratica della pallacanestro, quindi, rientrava tra quelle attività fisiche, con una valenza ludica, indirettamente riconducibile ai valori formativi morali, educativi e salutistici, propri della ginnastica, di cui, appunto era stata una costola. Parimenti con il processo di emancipazione dalla disciplina ginnica, il basket tentò di intraprendere, durante il ventennio fascista, un proprio percorso di modernizzazione, ampliando la propria componente agonistica, speculare ad un anelito di modernità interno al regime. In tal senso, tuttavia, l’idea del campione applicata al basket, vuoi per i limitati risultati internazionali delle compagini nazionali, vuoi per l’impostazione del regime, centrata sul nazionalismo organicistico applicato anche allo sport, risultò impalpabile, specchio della fragilità dello sviluppo della società civile italiana e dei suoi ceti medi (a cura di Canella-Giuntini, 2009; Landoni, 2016).

Il basket italiano, nella sua fase pionieristica, al contrario, creò un proprio epos interno, applicato, ai primi giocatori che, per praticare la loro disciplina, erano pronti ad atti di “eroismo e sacrificio”, come sobbarcarsi trasferte a piedi per raggiungere i vari campi, lavorare prima dell’incontro per mettere il terreno in condizione di praticabilità, e solo in ultimo, finalmente poter giocare, animati dal sacro fuoco della passione. In questo periodo, infatti, si giocava su campi improvvisati, all’aperto, preparati all’uopo preventivamente dagli stessi atleti, su fondi in erba o terra battuta. Gli arbitri, poi, si muovevano a loro spese e “pericolo”. L’abbigliamento era spesso preso a prestito da altre discipline e gli stessi palloni erano di dimensioni mutevole da città a città. Ma quasi ovunque si finiva sempre all’osteria di fronte ad un “piatto di pastasciutta e bere vino da Romoletto” (Bensi, 1990). In questo stava l’eroismo di atleti improvvisati che, per dare seguito a quanto appreso sotto le armi in tempo di guerra, in assenza di una società civile pronta a recepire il concetto di sport, si inventavano di tutto per sopperire alle carenze strutturali più elementari. Il basket, pur essendo nato come sport indoor, in Italia, si strutturò in questo momento come disciplina outdoor, contribuendo a forgiare il mito dell’eroismo dei suoi pionieri, per il solo fatto di praticarlo, al di là della bravura e dei risultati acquisiti.

Durante il ventennio, inoltre, i risultati delle squadre nazionali, pur dopo un iniziale brillante avvio, non riuscirono a riportare vittorie eclatanti tali da essere elevate a mito, a sostegno della retorica propagandistica del regime e della sua ideologia, non diversamente da quanto fatto dal fascismo in altre discipline, in assenza di trionfi o al loro venir meno (a cura di Canella-Giuntini,2009; Landoni, 2016; Marchesini, 2006).

Interessante come il primo eroe del basket fosse, invece, un italo-americano, Angelo “Hank” Luisetti che rivoluzionò il gioco con l’introduzione del tiro ad una mano, trascinando ad una trilogia di successi consecutivi l’Università di Stanford, tra il 1936 ed il 1938. La sera del 30 dicembre 1936, infatti, per la prima volta Luisetti si esibì nel tiro ad una mano (Pallette, 2005). Interessante, tuttavia, come Luisetti ebbe notorietà negli Stati Uniti, senza che il regime fascista provasse ad impossessarsi del mito leggendario creato intorno alla sua figura, passando quasi inosservato in Italia. Questo, indirettamente, da un lato, confermava quanto il basket fosse nella penisola italiana ancora in una sua fase acerba di sviluppo. Dall’altro, la scarsa notorietà di Luisetti in Italia ed il mancato tentativo di sua strumentalizzazione da parte del regime fascista, erano riconducibili anche all’inizio del declino delle simpatie tra gli italo americani della figura del Duce, a rimorchio dei limiti del modello corporativo come alternativa all’onda lunga della crisi del 1929, accompagnato da una sempre più marcata acculturazione in seno alla società statunitense degli ex emigranti italiani (a cura di Franzina-Bevilacqua, 2001).

In questa fase, invece, in Italia, un ruolo rilevante lo ebbe Giorgio Asinari di San Marzano, non per le gesta sul campo, ma per il ruolo avuto nell’organizzazione della governance della pallacanestro a livello internazionale, sfruttando la sensibilità manifestata dal regime fascista in tal senso, a fini propagandistici, trovando un valido interlocutore in William Jones, proseguendo il dialogo da questi avviato con Aldo Nardi (Arceri-Bianchini, 2004). Nel tempo, infatti, la figura di Asinari di San Marzano finì per assurgere ad un ruolo quasi eroico per la sua tenace e pervasiva azione di organizzazione spianando la strada al basket moderno.11

Fu, tuttavia, nel secondo dopoguerra, nel solco del boom economico e dell’american way of life sottesa al miracolo che anche il basket italiano iniziò a conoscere un primo epos applicato alla palla a spicchi, capace di trasformare in eroi i suoi interpreti, narrandone le gesta mitiche sul campo. Questo in primo luogo perché iniziò ad esistere un primo giornalismo specializzato, le cui radici culturali affondavano nella cultura classica dei licei, dove si erano formati. Emblematica la figura di Aldo Giordani. In secondo luogo perché, pur nella penuria di trionfi della nazionale, le squadre per club iniziarono a riportare vittorie prestigiose sul piano interno ed internazionale. Perché ci potesse essere un epos dell’eroe sportivo applicato al basket, infatti, era necessario qualcuno che ne narrasse le gesta ed un pubblico di riferimento. Oltre agli atleti le cui gesta narrare (Marchesini, 2016).

Proprio la nascita di un giornalismo sportivo, infatti, dedicato al basket dette vita alla possibilità di intraprendere un’epica dell’eroe sportivo legato alla pallacanestro, da sacralizzare agli occhi dei lettori sempre più numerosi, che, sulla scia del miracolo economico, si stavano espandendo. Da prima la “Gazzetta dello Sport”, seguendo le suggestioni di Bogoncelli dell’Olimpia Milano, infatti, iniziò a dare alla pallacanestro sempre più attenzione, avviando una collaborazione con il giovane Giordani nel 1951. Quest’ultimo a partire dal 1953, inoltre, prese a collaborare con “Lo sport illustrato” ed il “Guerin sportivo”, aprendovi una sezione tematica intitolata il Guerin Basket. La platea dei lettori, in generale, rispecchiava quella dei frequentatori delle arene da gioco, sia come spettatori che come praticanti: si trattava della gioventù italiana di estrazione piccolo e medio borghese, residente nei centri urbani, di sesso maschile. Si stava avviando quella che sarebbe stata l’anticipazione della nascita delle due più importanti riviste di settore dedicate al basket, i “Giganti del basket” e “Superbasket”, rispettivamente nel 1966 e nel 1978, che accompagnarono gli anni della crescita e del boom della pallacanestro italiana, raccontandone le gesta epiche, fermando sulla carta i tratti eroici dei suoi protagonisti. Non era il racconto di semplici campioni, ma per la prima volta applicato al basket, si ponevano le premesse perché un atleta assurgesse al ruolo aureo di eroe. Nel 1954, inoltre, lo stesso Giordani divenne la voce ufficiale che accompagnò per oltre un trentennio le imprese della nazionale di basket in televisione sui canali della Radiotelevisione italiana (Rai), aprendo un nuovo modo di narrarne le gesta, attingendo dalla sua formazione classica, epiche alimentandone una impostazione epica in sintonia con una visione eroico sportiva.

Il boom economico, inoltre, dette il via ad una prima fioritura di impianti dedicati al basket, capaci di attirare l’attenzione e l’interesse di un pubblico sempre più nutrito e composito, in termini generazionali e di genere (Battente-Menzani, 2009).

Il primo grande fenomeno di massa ad entrare nel mito dell’immaginario del basket italiano furono le “scarpette rosse” del Simmenthal Milano. La squadra di Milano, infatti, riuscì a trionfare sia sul piano nazionale che su quello internazionale, con i nove scudetti conquistati durante il sodalizio con l’Olimpia, di cui quattro consecutivi dal 1956 al 1960, e con la Coppa dei campioni del 1966. Era la naturale prosecuzione dell’enfasi già avviatasi con il marchio Borletti sotto il cui nome l’Olimpia Milano era riuscita ad inanellare ben cinque scudetti consecutivi dal 1950 al 1954.12 A crearne il mito, oltre ai successi, fu anche il genio di Adolfo Bogoncelli che introdusse un nuovo abbigliamento tecnico, imitato dal basket d’oltre oceano, sostituendo alle t-shirt le canotte sintetiche e le scarpe da gioco rigorosamente rosse come i colori sociali della squadra, la cui fondazione fu fatta datare al 1936, anno del primo successo nazionale.13 Il Simmenthal, inoltre, fu anche un emblema dell’arrivo dell’american way of life in Italia con il boom economico: la carne in scatola entrava nella dieta abituale di un paese ancora povero ma che si stava lasciando alle spalle la miseria del periodo precedente, fino a lasciare il testimone ad un altro glorioso sodalizio quello tra Varese e la Ignis, specchio di una società pronta per i consumi di massa, di cui gli elettrodomestici erano la sintesi (Viberti, 2017). Ad entrare nella leggenda, quindi, fu l’intera squadra, al cui interno si innalzavano alcune individualità, tra cui, Cesare Rubini ed il primo grande giocatore straniero Bill Bradley ( dopo i tesseramento del greco Mimis Stefanidis nel 1955). Per motivi diversi questi due atleti finirono per rappresentare i due primi miti eroici dello sport. Non solo dei grandi campioni, ma degli eroi di fronte al pubblico che li ammirava. Rubini, infatti, riuscì a primeggiare in due diverse discipline, la pallanuoto ed il basket, conquistando il soprannome di “Principe”. Bradley, invece, portò sui campi italiani , per la prima volta la grandezza e la classe cristallina del basket a stelle e strisce, contribuendo in maniera determinante a salire sul tetto d’Europa, dopo la finale vinta a Bologna contro lo Slavia Praga.14 Bradley, infatti, si trovava in Inghilterra per una borsa di studio ottenuta dal Worcester College di Oxford e ciò permise a Bogoncelli di mettere sotto contratto per la Coppa dei campioni, la medaglia d’oro della nazionale americana alle Olimpiadi di Tokyo del 1964, futura stella dei New York Knicks, capace di conquistare da protagonista il titolo della National Basketball Association (NBA) nel 1970 (Arceri­-Bianchini, 2004). Nel clima della guerra fredda, il basket, così, più o meno consapevolmente, si rivelò un potenziale strumento utile per contribuire a sostenere la propaganda della superiorità del modello americano in Italia. Interessante, tuttavia, come ad entrare nel mito in senso eroico, fossero le gesta dell’intera squadra oltre o più che quelle del singolo, sebbene l’estrazione politica dei dirigenti dell’Olimpia Milano, fosse azionista, e il professionismo sportivo fosse da loro preferito ed auspicato rispetto allo spirito dilettantistico, per lungo tempo, invece, ufficialmente prevalso nello sport italiano, ivi incluso il basket, conferma dell’influenza sullo sport della cultura cattolica e socialista, oltre al retaggio del ventennio fascista, in cui, in senso organicistico, il gruppo superava il singolo.

A questi si aggiungeva Sandro Riminucci soprannominato “l’angelo biondo” che riuscì il 3 maggio del 1964, contro La Spezia, a segnare ben 77 punti in un solo incontro, sempre con i colori di Milano. La figura di Riminucci risultava particolarmente interessante perché riuscì a stupire malgrado “la normalità” del proprio fisico, sebbene dotato di grande atletismo, sembrando contraddire le teorie sull’inadeguatezza della razza italica al gioco del basket, sostenute, tra gli altri, come ricordato, da Brera. In modo emblematico il suo esordio con la maglia di Milano avvenne nel 1957 al velodromo Vigorelli di fronte a 22000 spettatori, accorsi a vedere l’esibizione contro gli Harlem Globbtrotters, evento organizzato da Bogoncelli.

Il basket, in termini di eroismo sportivo, quindi, si poneva potenzialmente come un vettore innovativo per facilitare la genesi e la diffusione di una diversa identità sociale e collettiva di massa, in Italia, sebbene in chiave generazionale, non necessariamente basata sull’idea del sacrificio e del riscatto, come in altre discipline sportive, ma più dinamica vincente, ancorata anche al singolo. Poteva essere il traino naturale utilizzato da una nuova generazione di imprenditori legato al miracolo economico, per un cambiamento non solo di costume, ma di mentalità. Nel medio periodo al contrario, continuò ad essere dominante una visione più incline al concetto di terzietà, tra socialismo reale e capitalismo occidentale, in continuità con la tradizione nazionale, a cui anche il basket finì per omologarsi. L’idea che in Italia, infatti, mancassero veri “giganti” necessari per il gioco costringendo a “prenderne” all’estero finì per ridimensionare le potenzialità di innovazione e cambiamento, sottese all’eroismo sportivo della pallacanestro.

Tale impostazione rimase, peraltro, valida per lungo tempo, in quanto ad assurgere al ruolo di eroismo per le proprie imprese sportive furono spesso squadre, piuttosto che singoli giocatori, tra cui vale la pena menzionare, tra le altre, l’Ignis Varese del commendator Borghi, la Virtus Bologna dell’avvocato Porelli, fino alla Mens Sana Siena del sodalizio con la banca cittadina Monte dei paschi. Quest’ultima riuscì a cementare intorno ai propri successi resi eroici, nell’immaginario collettivo, l’identità stessa di una intera città particolare come il capoluogo toscano, fino a raggiungere l’appellativo di sua “diciottesima contrada”, con riferimento al palio di Siena (a cura di Boldrini, 2008; Valacchi, 1991; a cura di Stelo, 2002). Un percorso che si era avviato tramite un epos locale, ai tempi della conquista della serie A, negli anni settanta, per poi acquisire una dimensione nazionale ed internazionale negli anni dei successi del nuovo millennio.

Un’ulteriore esempio di mito, collegato ad una squadra, fu rappresentato dai gruppi della nazionale, capaci di vincere l’argento olimpico a Mosca nel 1980 e l’oro europeo a Nantes nel 1983, fino all’argento, di nuovo olimpico, di Atene del 2004.15

Di nuovo ad assurgere al ruolo epico eroico era il collettivo azzurro, che come una sorta di Davide era riuscito a sconfiggere i grandi campioni delle corazzate straniere, reincarnazione di Golia. Si trattava di giocatori “normali” quasi della porta accanto che con sacrificio ed abnegazione avevano raggiunto grandissimi traguardi, scrivendo pagine indelebili di sport, da regalare all’immaginario identitario di un’intera nazione. I grandi atleti stranieri giunti a giocare nel campionato italiano, al contrario, riuscirono ad assurgere al ruolo di personaggio epico, le cui gesta sportive finivano per essere mitizzate in senso eroico, superando il confine di grandissimi campioni. Venivano, infatti, visti, come marziani, quasi una sorta di predicatori venuti a mostrare il verbo, portando la superiorità del basket americano o slavo nel nostro paese, dietro cui vi era un’enfasi idealizzata in chiave ideologica dei due modelli propri della guerra fredda. Tra i tanti vale la pena ricordare il folletto di Roma Larry Wright, capace di trascinare la squadra capitolina allo scudetto prima e alla coppa dei campioni poi, grazie alle sue doti, rispettivamente nel 1982 e 1983.16 In questo caso la limitata prestanza fisica ne aveva fatto una sorta di eroe “gigante” per il coraggio e la destrezza.

Interessante, al contrario, come il cinema di Nanni Loy riuscì ad utilizzare proprio il basket per smascherare i falsi miti, sottesi allo sport, con una pellicola come Sistemo l’America e torno, del 1974, con Paolo Villaggio, peraltro incappata nella censura, stava a testimoniare.

Il concetto di sacrificio e di forza di volontà, al contrario, avevano fatto breccia anche nell’immaginario del basket italiano, veicolato dalla distanza che separava gli atleti autoctoni dall’idea di “giganti”, ritenuta necessaria per il gioco, condizionandone la visione eroica. Le stelle della pallacanestro americana della NBA rimanevano i veri eroi, le cui gesta per lungo tempo trovarono una loro forma di mitizzazione nell’immaginario collettivo degli appassionati italiani, prima dell’avvento della tv commerciale, veicolate dalle rare fotografie riportate dalle riviste patinate, capaci di alimentare miti e leggende, come quella di Julius Erving “Doc J”, le cui mani avrebbero avuto una falange in più per dominare meglio il pallone. La tv commerciale pose fine alla leggenda del mito, aprendo ad una nuova epoca in cui le gesta eroiche dei campioni NBA entrarono nelle case degli italiani, a tarda notte, a partire da Bird e Magic, fino a Jordan.

Rimanevano, tuttavia, due eccezioni di grandi miti legati a personalità italiane assurti al rango di eroi per le loro capacità e gesta, per motivi diversi: Davide Ancillotto, giovane promessa della pallacanestro italiana, morto durante un incontro per un aneurisma;17 e Dino Meneghin, il monumento della pallacanestro italiana, capace di vincere tutto e sfidare il tempo giocando oltre la soglia dei quarant’anni, capace di tener testa, domare e dominare i grandi campioni stranieri, nel ruolo dei titati, il pivot, al punto da meritare di entrare nella Hall of fame della pallacanestro americana e l’appellativo emblematico di “Dino nazionale”. Meneghin, infatti, fu percepito per lungo tempo come l’unico “gigante” italiano capace di stare al pari dei “giganti” stranieri, vincendo tutto sul piano nazionale ed internazionale, fino a meritarsi una chiamata per andare a giocare in America nella NBA, rifiutata per motivi burocratici.

Per concludere, il mito dell’eroe applicato al caso italiano della pallacanestro è stato il risultato della volontà di enfatizzare e mitizzare una nazione ritardataria ma non ritardata, povera ma creativa, la cui forza stava nella collettività e nella capacità di soffrire e sacrificarsi, oltre che nell’ingegno. Un eroismo che rimandava all’apparente, secondo la logica, impossibilità di primeggiare in un gioco straniero per caratteristiche fisiche non adatto agli italiani ma che per il coraggio e l’ingegno nazionale era stato possibile. Invece di essere percepito come un elemento innovativo capace di introdurre una diversa mentalità identitaria in Italia sulle ali del miracolo, per il suo legame con gli Usa, il basket finì per risentire della tradizione nazionale, propria di altri sport, rispecchiata appunto dalla medesima idea di eroismo sportivo.

Le squadre, quindi, più degli individui hanno sintetizzato tale spirito, in sintonia con ideologie e culture che per motivi e con fini diversi hanno segnato la storia del paese, dal fascismo, al socialismo fino al cattolicesimo. Al contrario proprio le gesta degli atleti stranieri, in una logica propria della guerra fredda, finirono per assurgere a modelli e miti da imitare. Unica eccezione è rappresentata, come detto, da Meneghin, il primo e forse unico campione in grado di primeggiare e competere ad armi pari per forza, tecnica e stazza con i grandi atleti internazionali, dietro la cui ombra stava quasi una sorta di riscatto nazionale e di emancipazione.

1 BATTENTE S.-MENZANI T., O sole mio between stars and stripes. Amercan culture in the italian basketball (1945-1992), in L’Europe du basketball. Politique, images, identitès (1914-1992), Parigi, 2014; BATTENTE S., La grande guerra e l’origine della pallacanestro italiana, in Lo sport alla grande guerra.

2 “La Gazzetta dello sport”, 9 ottobre 1921; Ivi, 9 novembre 1921; MUGGIANI A., La pallacanestro, in “Lo sport illustrato”, 1 gennaio 1922.

33 MUGGIANI A., La pallacanestro, in “Lo sport illustrato”, 1 gennaio 1922.

4 Ibidem;

5 Ibidem;

6 Ibidem;

7 De Juliis T., Carlo Montù il fondatore del Coni, in “Lo sport italiano”, IX, n.12, 1995, pp.36-39

8 “La palla al cesto”, n.1, 15 aprile 1926.

9 Ibidem.

10 Teja A., Giuntini S., Palandri M.M. (cur.), Sport e identità, Quaderni dello sport, n.1, 2012; Impiglia M., Palandri M.M. (cur.), La storiografia dello sport in Italia, Quaderni dello sport, n.3, 2014.

11 Giordani A., L’eroe del basket, in “Superbasket”, n.3, 1979.

12 www.olimpiamilano.com, Sito ufficiale della Società.

13 “Giganti del basket”, I, n.3, 1966; “Superbasket”, VIII, n.7, 1986.

14 “Giganti del basket”, I, n.5, 1966.

15 “Superbasket”, II, n.16, 1980; Ibid., VI, n.12, 1983; Ibid., XXVI, n.25, 2004.

16 “Superbaket”, V, n.24, 1983; Ibid., VI, n.27, 1984.

17 “Superbasket”, XIX, n.34, 1997.

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