I bibliotecari della comunale “Aurelio Saffi” di Forlì tra il 1750 e il 1925

di Iris Tognon

Abstract

Il saggio riguarda i bibliotecari che nel corso di quasi due secoli si sono avvicendati nella gestione della biblioteca comunale di Forlì: dai primi bibliotecari-professori del pubblico ginnasio, come Melchiorre Missirini, ai bibliotecari che rappresentarono l’innovazione nella gestione di un’istituzione pubblica, in primis Giuseppe Mazzatinti. Il saggio evidenzia il ritardo con cui si è giunti a definire e formare la figura di professionisti bibliotecari, attraverso un processo complesso che non sempre si è innescato autonomamente ed in modo organico.

Abstract English

The Librarians of “Aurelio Saffi” Library in Forlì, between 1750 and 1925 by Iris Tognon, is a short essay about the librarians that carried on the municipal Library management throughout almost 200 years, beginning with the teachers of public Gymnasium, such as Melchiorre Missirini, to end with those librarians representing innovation, first of all, Giuseppe Mazzatinti. This essay shows that it took a long time before defining a professional librarian role.

Queste pagine di storia della biblioteca comunale “Aurelio Saffi” di Forlì sono state scritte ripercorrendo i meandri della memoria affidata alla complessa concatenazione di eventi storici e vissuti umani. Per districare questa sorta d’intreccio indissolubile è valsa la pena privilegiare la documentazione d’archivio, col risultato di aver trovato una chiave di lettura attraverso cui si possono individuare una serie di passaggi significativi e qualificabili come i tratti salienti dei mutamenti di questa istituzione: dalla nascita, alla sua organizzazione ed affermazione, con un modello di biblioteca pubblica che i lettori contemporanei riconoscono ed identificano come luogo di cultura.

Non solo le vicende legate all’esordio, collocabile nell’anno 1750, con il lascito del conte Marcantonio Albicini, bensì tutta la storia della biblioteca pubblica forlivese è attraversata da fatti che denotano le mille difficoltà con cui essa si è dovuta confrontare per trovare una propria stabilità, passando attraverso un lungo e tormentato processo, che non sempre si è innescato autonomamente, ma, molto spesso, sotto la spinta e l’influsso di dinamiche sociali, economiche e politiche. Un percorso costellato di luci ed ombre, in cui è tuttavia rilevabile la persistenza di alcuni elementi, tra i quali spicca, in particolare, la carenza relativa all’architettura del sistema organizzativo, appesantito dalla cronica difficoltà finanziaria ed aggravato, nel tempo, dall’incuria degli uomini e dalla mancanza di progettualità nella gestione. Un altro elemento che ricorre frequentemente, scorrendo le carte d’archivio, è il nesso tra politica, intellettuali ed istituzione pubblica.

Dalla disamina della ricca documentazione emerge con nitidezza che l’istituto forlivese, nonostante i buoni propositi di alcuni solerti bibliotecari, si è proposto a lungo con una struttura informe e rigida, cristallizzata e chiusa in se stessa, attraversando epoche diverse senza sostanziali mutamenti: dall’ancien régime, al periodo napoleonico, fino ai primi decenni del XX secolo. Disponiamo di testimonianze scritte che provano come questa rigidità si riflettesse soprattutto sulla sua fruibilità, infatti la biblioteca fu, sin dalle origini, difficilmente accessibile persino al pubblico elitario del XVIII secolo, rappresentato da una sparuta schiera di studiosi e studenti; del resto, nemmeno il ginnasio, a cui essa era abbinata nei

locali del pubblico Palazzo sin dal 1776, rispondeva a requisiti di disponibilità, se pensata come risorsa a beneficio dei cittadini, tradendo così le volontà espresse nel testamento dal nobile Vincenzo Pellegrino Cesarini Mazzoni, laddove sono esplicitati i destinatari della sua eredità “a vantaggio della Città, e commodo specialmente dei poveri, che non hanno con che mantenersi altrove per gli studj”.

Nell’atto notarile è inoltre chiaramente specificato che con lo stesso lascito il generoso benefattore auspicava la creazione di una libreria fornita di testi per tutte le discipline.

Quando nel 1812 il Ministero degli Interni assegnò alla municipalità forlivese la gestione amministrativa esclusiva del ginnasio e la prerogativa della nomina dei professori, sembrava essere giunti ad una svolta d’innovazione e di apertura verso la cittadinanza, ma, in realtà, l’istituzione pubblica, che pure si era posta in aperta conflittualità con il potere ecclesiastico locale, non riuscì a completare fino in fondo quel processo di modernizzazione e secolarizzazione che pareva essersi avviato con ottimi presupposti, approdò sì ad un modello di biblioteca civica, ma si mostrò latitante su tante questioni importanti, che sarebbero rimaste irrisolte a lungo, tra cui quelle relative al reperimento dei bibliotecari, alla loro formazione e creazione di ruoli professionali.

I documenti d’archivio riferiti al periodo compreso tra il 1750 ed il 1925, proprio in relazione all’interessante filone d’indagine sul reclutamento dei bibliotecari e sull’ingresso dei quadri intermedi nell’istituzione culturale di Forlì, mostrano come la compagine dei bibliotecari si presentasse alquanto eterogenea, specie per le categorie sociali di provenienza; alla professione approdavano, infatti, dai più diversi settori della vita ecclesiastica e politica, o delle varie istituzioni pubbliche, tra i bibliotecari forlivesi molti erano i clerici, i reduci di guerra, i professori e gli avvocati; va sottolineato, inoltre, che quasi sempre la professione di bibliotecario veniva esercitata contemporaneamente ad altre.

A tal proposito non si può che concordare con la nota analisi di Simonetta Buttò (2002) sull’avvio della professione, laddove essa riepiloga le caratteristiche della variegata tipologia della classe bibliotecaria italiana, tra la fine dell’Ottocento ed il primo Novecento, con una lapidaria ed efficace sintesi che insiste sul concetto di casualità nell’assegnazione dell’incarico.

La studiosa si riconduce all’ancor più sagace ritratto delineato, in un altrettanto noto intervento del 1938, da Itala Santinelli Fraschetti(1938); nel complesso risulta un quadro fedele e disincantato che lascia poche illusioni sull’esordio di una professione che la neonata amministrazione centrale, nell’alveo del Ministero della Pubblica Istruzione, assegna ad una generazione di funzionari eruditi, ma senza specifiche competenze nel campo bibliotecario.

Ciò è coerente con quello che avveniva nel contempo nel resto del Paese per le carriere pubbliche, in cui erano privilegiati i notabili politici ed intellettuali, pur rilevando, tuttavia, una certa distinzione di tempi e luoghi, infatti, in tutto il periodo della Restaurazione e durante il Risorgimento l’intellettuale trovava un maggior impiego nell’editoria che non in altri settori, e nella realtà romagnola non gli si offrivano le stesse opportunità di altre aree italiane, più generose in questo senso.

Tornando ai bibliotecari della Saffi, per quanto riguarda la loro scelta professionale, se così si può dire, va ribadito che molti di essi si ritrovarono quasi per caso a fare questo mestiere, come attività collaterale ad altre e, molto spesso, costituiva una soluzione per integrare il magro stipendio di insegnante. Inscriverli in una precisa categoria sociale sarebbe pertanto una forzatura. Quello che invece si può affermare con una certa sicurezza è che c’è un nesso ricorrente tra amministrazione pubblica ed intellettuali, tanto che, estrapolando dalle scarse e rapsodiche notizie biografiche quei caratteri particolari che li accomunano, su questo nesso è possibile azzardare una sorta di classificazione dei bibliotecari che operarono alla Saffi, segnatamente tra la fine del Settecento e la prima metà del Novecento.

La prima generazione di bibliotecari forlivesi, incarnata dall’abate Melchiorre Missirini (1773-1849), è espressione di quella categoria di impiegati pubblici che beneficiarono della riconoscenza da parte del potere governativo per meriti politici, avendo essi partecipato ai moti patriottici ed indipendentistici, in età rivoluzionaria, napoleonica e risorgimentale.

Nel 1801 l’abate Missirini fu nominato bibliotecario del ginnasio Cesarini Mazzoni, presso cui svolgeva già la docenza nella disciplina di eloquenza. Letterato e pubblicista, di fede giacobina, appoggiò il regime francese con azioni e scritti (suoi gli inni per la Repubblica Cisalpina ed il componimento La Concordia Repubblicana del 1798); fu così che nel 1809 si guadagnò la nomina di delegato distrettuale per il culto e di segretario della Municipalità.

Nonostante i riconoscimenti onorifici, il rapporto dell’abate col Comune conobbe momenti di attrito, in particolare, per quanto riguardava lo svolgimento del suo incarico di bibliotecario nella redazione del catalogo; Missirini, da parte sua, lamentava spesso che non gli venisse corrisposto lo stipendio con regolarità. Nel 1813, dopo la caduta del Regno d’Italia, egli si trasferì a Roma, ove si diede alla professione di poligrafo; con le credenziali fornitegli dal vescovo Andrea Bratti nell’ambiente ecclesiastico romano fu ben accolto ed apprezzato, venne nominato presidente dell’Accademia Romana di S. Luca e divenne segretario di Antonio Canova, con cui avviò un rapporto di amicizia profonda, tanto che l’artista scolpì la lapide per la madre (Mambelli 1938).

Nel 1828, deluso dalla nuova curia romana, Missirini prese domicilio a Firenze (Mambelli 1938, 84), luogo di aggregazione degli studiosi europei e centro di gravitazione per gli intellettuali della borghesia italiana illuminata che, ben presto, avrebbero dato impulso ai moti del Risorgimento (Porciani 1979). Presso il gabinetto letterario di Gian Pietro Vieusseux l’abate incontrò, tra gli altri, Giacomo Leopardi, Carlo Matteucci, Gino Capponi, Pietro Giordani e collaborò attivamente, come corrispondente, alla stessa <<Antologia>>. Ossessionato dall’idea della morte (sopraggiunta in realtà il 18 dicembre 1849), nel 1840 Missirini propose alla Pinacoteca ed ai Musei comunali di Forlì di acquisire i suoi preziosi dipinti ed oggetti d’arte, alcuni dei quali appartenuti al Canova (Mambelli 1936), chiedendo un compenso a vantaggio dei suoi eredi.

Imm. n. 2 L’abate Melchiorre Missirini, tratta da A.Mambelli, L’Abate, da un disegno di S. Matteucci.

Aiutante dell’abate Missirini fu il lodigiano Giuseppe Antonio Giudici (1756-1827), avvocato e poeta di una certa sensibilità, dal 1809 al 1811 insegnò diritto civile e canonico nel pubblico ginnasio. Egli aveva aderito alla Repubblica Cisalpina e nel 1797 si era distinto per la pubblicazione di alcuni scritti ispirati agli ideali di democrazia, proprio per i suoi meriti politici rivestì cariche pubbliche nel periodo napoleonico (Mambelli 1936, 122-123).

A questa prima generazione di bibliotecari va ascritto anche Cesare Maioli (1746-1823), anch’egli distintosi per fedeltà alla Patria, studioso di teologia, aveva al suo attivo pubblicazioni di storia naturale, di fisica sperimentale e di filosofia.

Dopo essere stato professore di botanica presso la corte di Napoli, approdò al pubblico ginnasio di Forlì, ove gli fu affidato l’incarico di bibliotecario comunale, con lo scopo specifico di redigere quel catalogo che i suoi predecessori non avevano mai completato. Lo studioso ricoprì il ruolo fino ad età avanzata, quando, colpito da grave cecità, dovette abbandonare ogni incarico (Mambelli 1936, 148); nel 1814 le sue opere furono da lui stesso collocate nella libreria del pubblico ginnasio ed acquisite dalla medesima, con la stesura di un regolare atto notarile. Riconosciuto lo stato d’indigenza dell’anziano bibliotecario, a partire dal 1 gennaio 1814 e fino a tutto il 1817, in suo favore il Comune stabilì un vitalizio annuo di mille lire italiane, continuando a versargli il “tenuissimo emolumento che percepisce come bibliotecario per assicurargli un’esistenza decorosa”1. Dal tono e dal contenuto dell’atto si evince che il contributo venne erogato allo studioso soprattutto per i suoi meriti di patriota, mentre non era rivolto che un debolissimo accenno al suo impegno di bibliotecario.

Imm.n.3: Lettera di Cesare Maioli, datata 7 marzo 1812, inviata al podestà di Forlì per la sistemazione dei libri nei locali di S.Filippo (ASF, ACF, 1797-1897,Tit.VI, Rub.32, b.100, a.1812)

Pietro Paolo Pasquali (1789-1841), medico, fisico ed amante delle lettere, fu il successore di Cesare Maioli; nello stesso periodo in cui operò nella biblioteca egli partecipò al movimento carbonaro e fu tra i fondatori della vendita forlivese a Villa Saffi nel luglio 1817. Pur con varie interruzioni, a causa delle tormentate vicissitudini politiche, Pasquali si occupò con un certo impegno della biblioteca, apportando notevoli migliorie agli aspetti più squisitamente biblioteconomici. Beneficiando delle donazioni di famiglie facoltose, ma grazie anche alla sua promozione di campagne di raccolta fondi, nel 1821 egli incrementò con ben 2.000 scudi le scarse finanze dell’istituto (Mambelli 1936, 158), ciononostante non gli furono risparmiate aspre critiche per la sua esuberanza nella gestione.

Attivista nel Convegno dell’Unione Patriottica di Cesena, nell’agosto 1820, egli fu il tramite tra i liberali romagnoli ed i costituzionalisti piemontesi, lo troviamo tra gli acquirenti di libri a Torino, forse sfruttando l’occasione per entrare in contatto con Michele Gastone, capo dell’Adelfia. Noto alla polizia pontificia come cospiratore fu arrestato nel 1825, per ordine del Legato cardinal Sanseverino, la Commissione Speciale del Tribunale Supremo della Sacra Consulta di Ravenna lo condannò a 10 anni di carcere. Partecipò ai moti del 1831 e dovette rifugiarsi a Livorno, riuscendo infine a far ritorno in patria ed a riprendere la sua professione (Mambelli 1936, 207).

Nel 1832 troviamo in veste di prefetto del ginnasio e della biblioteca Ulisse Pantoli (1808-1846), di professione avvocato ed autore di biografie di illustri forlivesi e di iscrizioni latine. Su suggerimento della Deputazione comunale degli Studi, egli ricevette l’incarico dal gonfaloniere di compilare l’elenco generale del patrimonio librario della biblioteca, azione che va interpretata come un segno d’innovazione e di valorizzazione dell’istituzione culturale da parte dell’ente pubblico. Al di là dell’impegno professionale, svolto in modo esemplare, Ulisse Pantoli si distinse per i suoi valori morali e per le idee liberali professate con grande coraggio e coerenza.

Nell’espletamento della sua professione di avvocato fu perseguitato per la sua onestà: nominato difensore d’ufficio di alcuni cittadini, accusati dell’omicidio di un carabiniere pontificio e di una guardia svizzera, subì pressioni da parte dei giudici ma, convinto della congiura contro gli accusati, fu egli stesso oggetto di vessazioni ed, incarcerato, morì per le torture subite.

Nel periodo della Restaurazione gli intellettuali inseriti nelle istituzioni della pubblica amministrazione esprimono una spiccata vocazione municipalistica, di questi, Domenico Brunelli (1790-1880) fu uno degli uomini più rappresentativi. Nel 1842, quando fu chiarita la controversa questione sulla gestione della biblioteca comunale, tra il Comune ed il vescovo Vincenzo Stanislao Tomba, l’accordo di mediazione tra i due poteri fu suggellato con la condivisione della nomina del nuovo bibliotecario, appunto il canonico Domenico Brunelli. Egli rivelò le sue doti bibliofile, oltre ad uno spiccato senso organizzativo e s’impegnò ad incrementare il patrimonio librario, anche attraverso il recupero degli archivi delle Corporazioni soppresse. Durante il suo operato, aiutato dal professore di filosofia del ginnasio, padre Giuseppe Tassinari, don Brunelli catalogò circa 20 mila volumi, di questo lavoro restano l’Indice sistematico, in due tomi, ed il Catalogo per materie, in 5 tomi.

Come ci riferisce Mambelli, don Brunelli fu arcidiacono della Cattedrale ed accademico filergita, ma anche prosatore e poeta; suo il discorso funebre in onore dei martiri del Risorgimento, fatto stampare dalla tipografia Casali nel 1848: Orazione funebre nelle solenni esequie per le anime di que’ forlivesi che dal 1821 al 1848 soffrirono lagrimate morte o nelle carceri o in esiglio. Tra il 1847 ed il 1860 l’ecclesiastico fu prefetto degli Studi, direttore spirituale e professore di belle lettere al ginnasio.

Nonostante i suoi meriti accademici e politici, la sua ferma decisione di non partecipare alla funzione religiosa in S. Mercuriale, per celebrare la festa dello Statuto, gli costò la sospensione da ogni incarico pubblico (Mambelli 1936, 53).

L’egemonia culturale e politica, che in piena Restaurazione in alcune aree italiane fu rappresentata dai moderati, nella città di Forlì ebbe un’esplicita connotazione patriottica, che maturò e sfociò in una più delineata organizzazione della cultura risorgimentale.

Tra i bibliotecari forlivesi che contribuirono con i loro ideali a costruire quel fervido clima politico e culturale, preludio di un’idea di nazione, oltre a Brunelli, troviamo l’editore e tipografo Matteo Casali ed il figlio Giovanni, che fu aiuto bibliotecario. Attivi fino all’inizio della seconda metà del XIX secolo nella città romagnola, oltre a svolgere con successo la professione di tipografi e bibliofili, mossi da sentimenti liberali, essi aderirono alla Carboneria, subendo ritorsioni e persecuzioni per aver partecipato ai moti del 1831.

A proposito della composizione sociale e politica della classe media, da cui provenivano i bibliotecari pubblici, segnatamente nel primo Ottocento, si possono trarre dati degni di riflessione, raffrontando l’annosa e conflittuale vicenda sulla gestione della biblioteca, contesa tra il Comune di Forlì ed il vescovo diocesano Tomba, e le vicissitudini che coinvolsero la Cassa di Risparmio di Forlì, all’alba della sua istituzione, nella primavera del 1839. Data la loro contemporaneità, il confronto tra le due vicende offre alcuni spunti comuni interessanti: in primis, sui rapporti, spesso critici, tra il potere ecclesiastico locale e le istituzioni laiche, per questioni di egemonia, inoltre, sull’identità sociale dei forlivesi che si distinsero nella spinta culturale ed economica di stampo modernista. Tra gli azionisti che diedero vita alla Cassa di Forlì ritroviamo, non a caso, personaggi già protagonisti della vita pubblica cittadina e della storia della biblioteca di Forlì, alcuni di essi facevano parte della classe dirigente, in maggioranza di estrazione borghese, in parte nobili, ed in minima percentuale rappresentanti del clero, tra cui lo stesso vescovo Vincenzo Stanislao Tomba; su questo tema si veda lo studio di Roberto Balzani (2000).

Per una lettura completa dello scenario culturale in cui si inserisce la storia della biblioteca comunale di Forlì, all’indomani dell’Unità, è, ancora una volta, importante considerare il rapporto tra politica ed intellettuali, ed il ruolo di questi negli apparati dell’amministrazione pubblica. Nella prima fase della costruzione unitaria vi fu una perfetta adesione tra la funzione politica e quella intellettuale, infatti le forze egemoni del movimento nazionale vennero investite dei ruoli pubblici. Si assiste ad una forma di municipalismo fertile per le professioni impiegatizie, che ebbe un più ampio sviluppo nel secolo XX, quando a Forlì, tra il 1904 ed il 1911, il numero degli impiegati comunali aumenterà del 50,8%, a Cesena il dato sarà ancor più elevato nell’ambito del settore culturale, con un’incidenza del 33% degli insegnanti e con la segnalazione di ben tre bibliotecari. Nel 1911 in Romagna, a fronte di una domanda culturale in crescita, le figure dei bibliotecari ammonteranno a 15 unità (Balzani 2003).

Tuttavia, prima di giungere a questi sviluppi, nella biblioteca forlivese si assistette ad un disordinato avvicendamento di vari bibliotecari, a cui non furono mai concesse condizioni professionali soddisfacenti e di stabilità, permanendo un atavico stato di incertezza e precarietà. E’ il caso di Tommaso Zauli Saiani, il quale nel 1861 si vide assegnare un incarico provvisorio, mentre dirigeva contemporaneamente il ginnasio; nel gennaio del 1862 a lui subentrò Livio Prati, con un’assegnazione altrettanto provvisoria. Significativo il passaggio di una lettera inviata da Zauli all’Amministrazione comunale, in cui reclamava il pagamento di due mesi di arretrati ed il versamento dello stipendio fino alla nomina del nuovo bibliotecario, lamentando che, senza di esso, per lui diventava difficile “campare la vita logora e stanca nell’esercizio dell’istruzione”.

Il conte Filippo Guarini (1839-1921) fu uno tra i più simbolici rappresentanti di quella schiera di notabili a cui la pubblica amministrazione offrì un incarico, in segno di stima per i servigi resi allo Stato. Il 5 giugno 1866 egli fu nominato direttore della biblioteca civica, come riconoscimento del suo sacrificio di patriota e volontario nella guerra d’indipendenza di Lombardia del 1859 (Mambelli 1936, 130).

Alla costituzione del nuovo Stato unitario corrispose il disegno dell’organizzazione delle biblioteche esistenti nell’intero territorio nazionale e la successiva formalizzazione e codificazione del profilo degli impiegati delle biblioteche governative.

La prima fase dei lavori vide l’avvio dell’inchiesta condotta da Mamiani, nelle cui conclusioni l’Emilia Romagna risultò essere una delle regioni meglio dotate: nel 1863, delle totali 210 biblioteche pubbliche, 28 erano distribuite tra la Toscana e l’Emilia, molte erano quelle locali di media consistenza, tra cui va ascritta la comunale di Forlì, fornita di 50.000 volumi (Traniello 2002, 25). Un altro passo importante fu compiuto nel 1869, quando la Commissione guidata da Cibrario fissò il reclutamento dei bibliotecari governativi tramite concorso per esami e titoli. Ma questa politica non favorì il superamento del divario che ancora separava il Paese dal resto dell’Europa: negli anni successivi all’unificazione in Italia ristagnava il dibattito sul sistema bibliotecario e si affossava la vocazione della biblioteca come servizio, e soprattutto nella realtà comunale, ed in quella forlivese in particolare, permaneva l’arretratezza nei metodi di reclutamento del personale di biblioteca. Come si può evincere dai verbali, le giunte comunali, in materia di assunzione, non espressero mai l’intenzione di ricorrere al bando di qualsivoglia concorso, quello che è opportuno sottolineare è invece l’intervento personale da parte dei bibliotecari, alcuni dei quali tentarono di seguire le linee guida della politica governativa, nell’ottica di uscire dagli angusti confini locali. Nel frattempo, nello scenario bibliotecario internazionale erano state superate nuove frontiere: nel 1876 Charles Cutter aveva perfezionato il suo modello di indicizzazione, nello stesso anno apriva la prima libreria pubblica – la Library Journal – e veniva inaugurata la prima associazione professionale – la Library Association – e la classificazione decimale di Melvil Dewey si proponeva come un utile strumento di catalogazione, e molti altri furono i traguardi brillanti nell’ambito anglo-americano, tra cui l’inaugurazione del Reference Service.

Va tuttavia messo in luce che negli anni Ottanta, con le prime amministrazioni democratiche cittadine, a Forlì si registrava un nuovo clima nella gestione della cosa pubblica, anche nello “stagnante mondo economico” come scrive Roberto Balzani, in tema di “interventi infrastrutturali e di servizi”(1991, 31). In questo scenario, che fa sperare in -una ventata d’innovazione, va inquadrata come una scelta non casuale quella operata dal Comune nel 1888, con l’affidamento dell’incarico ad honorem a Giuseppe Mazzatinti (1855-1906), professore di storia del liceo cittadino; questi accettò di buon grado l’impegno di dirigere la Biblioteca, rivolgendo al sindaco parole garbate: “lietissimo di poter contribuire coll’assidua opera mia all’incremento ed al decoro di questa cospicua biblioteca”2.

Mazzatinti non era certo uno sconosciuto nel mondo accademico e bibliotecario, infatti l’eclettico studioso eugubino, critico letterario ed apprezzato filologo, autore di opere di storia antica e di cronaca locale, di arte ed epistolari forlivesi, prima di approdare a Forlì aveva insegnato al liceo di Foggia e di Alba e, dal 1882 al 1887, grazie ad una borsa di studio del Ministero della Pubblica Istruzione, si era recato in Francia per catalogare i manoscritti italiani là conservati.

Le relazioni annuali del professor Mazzatinti, a noi pervenute, sono un modello di certosina precisione, da cui possiamo attingere molte notizie, di natura biografica e storica, quali le opere acquisite dalla biblioteca comunale e l’identità dei donatori. Nel redigere il rapporto egli seguiva lo schema del questionario statistico distribuito a tutte le biblioteche in cui andavano indicati l’identità, le dotazioni, le risorse economiche, il patrimonio librario, l’incremento, la consistenza dei duplicati, le donazioni, l’organizzazione del servizio al pubblico, il numero dei lettori diurni e di quelli serali, il computo delle opere e dei volumi distribuiti.

Ineguagliabile fu il suo contributo alla scienza bibliografica, testimoniato, tra l’altro, dalla stesura dell’inventario dei manoscritti delle biblioteche italiane, a cui si dedicò dal 1890. L’eccellente opera lo fece assurgere ai massimi livelli della notorietà professionale; per la stessa biblioteca forlivese redasse una monografia di 83 pagine, stampata per i tipi di Bordandini (Mazzatinti 1891).

Giuseppe Mazzatinti diede un apporto fondamentale a quella che viene definita la Primavera bibliografica, mutuando l’espressione di Guido Biagi, o Primavera fortunata, usando la locuzione di Desiderio Chilovi, riferita a quegli anni Ottanta, galvanizzati da un fervore del tutto nuovo, con una ricchezza di proposte che trovavano espressione concreta nelle riviste del settore, nelle collane bibliografiche e nelle iniziative di convegni e conferenze. La primavera bibliografica, tuttavia, non esplose in tutte le sue potenzialità, né in Italia, né tantomeno nella provincia romagnola, come afferma Giulia Barone, infatti, non si sfruttarono appieno tutte le opportunità e non si ebbe il cambiamento sperato (Barone, Petrucci 1976, 50). La biblioteca restò il luogo di esercizio intellettuale per le minoranze già acculturate, mancando il nesso tra i produttori ed i consumatori di cultura.

Imm. n.4: (tratta da G.Degli Azzi, Commemorazione di Giuseppe Mazzatinti, Città di Castello, Tip. Lapi, 1906).

Successore di Giuseppe Mazzatinti, scomparso dopo lunghe sofferenze il 15 aprile 1906, fu il conte Benedetto Pergoli, già insegnante presso il ginnasio ed aiuto bibliotecario. Lo stesso direttore, in una lettera del 22 ottobre 1894, l’aveva raccomandato al commissario comunale, lodandone le capacità e l’impegno profuso nella catalogazione e classificazione delle nuove opere; nel 1898, sempre Mazzatinti, lo nomina nella relazione annuale come valido collaboratore per il definitivo assetto dello schedario della biblioteca Gherardi3 e per la “pubblicazione delle fonti per la storia cittadina”4. Nella prima relazione annuale, da parte sua, Pergoli rese omaggio al maestro, con un incipit in cui metteva in risalto i meriti letterari del professore, “l’illustre compagno di lavoro”, quasi a suggerire una naturale continuità nella direzione della biblioteca.

Pergoli s’impose da subito con idee decise circa la gestione della biblioteca, ma è nel rapporto col pubblico, verso cui aveva un’attenzione particolare, che egli espresse una linea del tutto nuova, ad esempio, rispetto al materiale posseduto dalla libreria (a quell’epoca circa 120.000 volumi) egli recriminava la scarsa disponibilità di opere adatte ai cittadini, soprattutto quelle che avrebbero potuto favorire “il mirabile moto delle idee, le conquiste gloriose del pensiero e della civiltà contemporanea”. Un’idea che gli stava molto a cuore quella della biblioteca “accessibile a tutte le classi dei cittadini”, in un passo significativo della relazione del 1906 sottolineava, con tono retorico ed accorato “è tempo ormai di dedicare, nelle pubbliche biblioteche, speciali cure agli operai, che nella città nostra, per amore alla loro morale elevazione, non possono considerarsi secondi a quelli dei centri maggiori”5. Egli tornò a più riprese a ribadire questo concetto, rammaricandosi dell’assenza delle classi subalterne tra i frequentatori della biblioteca, nonostante egli stesso avesse attuato molte misure per attrarli, acquistando opere ad essi rivolte, come La Grande Enciclopedia Italiana di Arti e Mestieri. Le parole spese per perorare la causa di biblioteca per tutti, e non solo per “ricercatori specialisti”, sono molto efficaci, specie laddove auspica una biblioteca “popolare nel senso assoluto e pratico della parola”6.

Pergoli fu promotore di un’azione riformista, egli stesso si esprimeva in questi termini nel regolamento da lui stilato nel 1906, inserendovi modifiche che comportarono innovazioni di carattere gestionale ed introducendo per la prima volta un registro d’ingresso e dei desiderata7, fu inoltre l’artefice della sistemazione del fondo Mazzatinti in appositi scaffali, compilando ben 2.000 schede, nel 1908 fece collocare nella sala di lettura il busto di Aurelio Saffi, mai esposto fino ad allora, nonostante l’intitolazione della biblioteca8. Con piglio manageriale, tra il 1919 ed il 1920, egli riuscì ad incrementare il numero totale dei lettori di ben 1.174 unità, un successo che egli stesso, senza celarsi dietro falsa modestia, attribuì alla miglior organizzazione della biblioteca per opera sua9.

Nei confronti dell’amministrazione comunale Pergoli si mostrò riconoscente e disponibile, ma fermo in un atteggiamento critico, talvolta insofferente e polemico, non desistendo dall’avanzare richieste economiche quando riteneva che fossero stati lesi i suoi diritti. In molte sue lettere all’indirizzo dell’economato comunale giustificava le incalzanti richieste di denaro con le necessità di carattere familiare, talvolta invocava apertamente il giusto e legittimo riconoscimento dell’opera prestata. Ma quello di reclamare lo stipendio è un problema ricorrente tra i bibliotecari, remunerati con stipendi miseri, spesso non corrisposti, o versati in ritardo, e spessissimo dietro reiterati solleciti da parte degli interessati, pressati dalle difficoltà del vivere quotidiano.

Tra tutti i bibliotecari che hanno operato alla Saffi è, probabilmente, Benedetto Pergoli quello che più si è avvicinato all’espressione moderna della professione e gli sviluppi della sua carriera sono una testimonianza indubbia. Il 2 febbraio 1922 il Ministero dell’Istruzione lo nominò ispettore onorario ai Monumenti, Scavi, Gallerie e Oggetti d’Arte, per il circondario di Forlì, nello stesso anno egli diresse i lavori di trasferimento della biblioteca, della pinacoteca e dei musei nell’ex ospedale civile, fatto erigere dai Merenda nel 1722, in corso Vittorio Emanuele. Nello stesso stabile egli darà vita a quella che può essere considerata la sua creazione, il Museo etnografico romagnolo, testimonianza della cultura e delle tradizioni locali, sorto dalle Esposizioni Riunite Romagnole, con materiale e fondi, in gran parte, donati da privati (Arfelli 1935).

L’apertura fu organizzata con grande fasto, un manifesto della Tipografia Democratica invitava la cittadinanza all’inaugurazione che sarebbe avvenuta nella domenica del 26 novembre 1922 alle ore 10.30.

Nel 1925, raggiunta una posizione di prestigio, pretese ed ottenne dal Comune un aumento del budget da 3.816 a 5.000 lire ed uno stipendio di 6.000 lire annue come bibliotecario incaricato10.

Col nuovo assetto conferito ai beni culturali della città di Forlì egli si consacrò autore della svolta, dimostrando di essere l’uomo della modernità, attento alla microstoria, vicino, per affinità, ai bibliofili e bibliografi contemporanei, tra cui il siciliano Giuseppe Pitrè ed i romagnoli Giacomo Manzoni, Carlo Piancastelli e Torquato Dazzi, successore di Renato Serra nella direzione della Malatestiana di Cesena tra il 1915 ed il 1926. Tutti intellettuali che, tra la fine dell’800 ed il primo ‘900, si prodigarono per la promozione della cultura popolare e delle arti minori; una testimonianza di questa vocazione è un lavoro di Pergoli sulla cultura folcloristica romagnola, tuttora custodito nel fondo Piancastelli della biblioteca comunale forlivese.

Nonostante i numerosi successi ed i traguardi perseguiti, Pergoli non lasciò mai la posizione di “incaricato”, non fu facile infatti arrivare all’assegnazione di un direttore stabile nella biblioteca civica forlivese, e la questione ristagnerà ancora a lungo, tant’é che nel giugno 1919 il Presidente dell’Associazione Nazionale dei Funzionari delle Biblioteche e dei Musei Comunali e Provinciali, Ada Sacchi, informata della situazione non regolare, sollecitò il Sindaco di Forlì ad indire un pubblico concorso per l’assunzione del direttore, in osservanza al regolamento che prevedeva titoli specifici. In una prima risposta il Sindaco ammise che quello del professor Pergoli era un “semplice” incarico, corrisposto con lo stipendio di 800 lire, ma successivamente, sospinto dalle insistenze per l’applicazione delle regole dall’Associazione, il Sindaco asserì, con tono di sfida, che il posto di bibliotecario in pianta organica era occupato da anni da Pergoli, e con questa laconica risposta intese troncare la questione. Da questo scambio epistolare emerge la chiara posizione assunta dall’associazionismo professionale, in difesa dei diritti di una categoria che, finalmente, sente la necessità di legittimare il proprio ruolo, a fronte di posizioni locali alquanto anacronistiche, nonostante molti passi fossero già stati compiuti per la professionalizzazione del ruolo nel 1919, ed il riordino della pianta organica del personale di biblioteca risalisse addirittura al 1873.

Che in Italia si sia tardato a definire, ma, soprattutto a formare, la figura di un professionista con un profilo specifico, è cosa nota e le motivazioni credo risiedano nell’aver considerato a lungo le discipline afferenti alla biblioteca come appendici del sapere umanistico, del resto, il mondo accademico rimase fossilizzato su questa concezione fino agli anni Settanta del secolo appena trascorso, quando si ebbero chiari segnali d’innovazione sui saperi specialistici e sui percorsi formativi dei bibliotecari e degli archivisti.

Per la biblioteca comunale di Forlì la presa di coscienza della professione di bibliotecario, nell’accezione moderna del termine, non affonda certo le sue radici negli anni esaminati in questo saggio, ciò a dire fino ai primi due decenni del XX secolo, nonostante l’attuazione di azioni incisive e la passione profusa nello svolgimento dell’incarico da parte di molti, da Melchiorre Missirini a Benedetto Pergoli; come abbiamo visto, tutti erano in primo luogo attivi nelle istituzioni culturali, politiche ed amministrative locali e svolgevano l’incarico in biblioteca in modo complementare e non sempre per vocazione, per nessuno dei bibliotecari fin qui menzionati si può quindi rivendicare questo ruolo con un’identità delineata.

Si può affermare che nell’immaginario collettivo la considerazione e la percezione di questa professione, anche nella realtà locale, non si discostavano dalla concezione diffusa nel resto del Paese nel corso dell’Ottocento, secondo la quale essa non era ritenuta affatto una professione, né tantomeno riguardava una figura socialmente utile. Mancavano in Italia i presupposti per legittimarla in senso compiuto, una carenza che rimanda al confronto con il modello seicentesco francese, rafforzatosi nel Settecento, in cui il profilo del bibliotecario si distaccava dalla nebulosa figura dell’amateur, del libraio, dello stampatore o del bibliografo, conquistandosi un proprio territorio di competenze ed esercitando il mestiere con strumenti e tecniche proprie. Il modello professionale in ambito europeo si ispirava agli interventi di Leibniz, Baillet, Muratori e Tiraboschi, e, più tardi, dell’italiano Antonio Panizzi, proprio quest’ultimo darà corpo e vigore alla professione bibliotecaria, ma fuori dai confini della sua patria, ricevendo apprezzamenti dagli scettici inglesi, per la realizzazione del catalogo generale, e per aver reso accessibile al pubblico le magnifiche collezioni della British Library, aprendo la strada all’uso euristico delle grandi biblioteche.

Fu soprattutto nella realtà stagnante della provincia che non decollò la definizione di un profilo professionale del bibliotecario, e gli ostacoli vanno ricercati in primo luogo nell’ambito politico: si può infatti constatare che sin dalle origini la questione è stata gestita dalle classi egemoni in modo contraddittorio, senza un piano organico sull’intera materia, intervenendo con leggi che non avevano l’obiettivo di dare soluzioni in modo sistemico.

Per quanto attiene al reclutamento ed all’accesso alla professione nelle biblioteche locali non è rilevabile una prassi ben documentata, nemmeno negli anni intorno all’Unità, dagli atti esistenti risulta anzi chiaramente che non erano richiesti precisi requisiti ai candidati, come invece si procedeva nelle biblioteche governative, sin dal 1870, col programma per l’assunzione degli ufficiali delle biblioteche e dei dirigenti alle dipendenze del Ministero della Pubblica Istruzione.

Dalla lettura delle carte conservate presso l’Archivio di Stato di Forlì si può evincere che per il reclutamento del personale della biblioteca comunale di Forlì, in genere, si sia proceduto secondo il solito cliché della chiamata diretta, spesso sulla base del requisito della chiara fama per meriti letterari; per essere assunti presso la biblioteca forlivese contava più possedere una buona preparazione nelle discipline umanistiche, che non competenze tecniche per la gestione efficiente di una biblioteca, a tale proposito il Consiglio Comunale stabiliva infatti che titoli e doti dei candidati dovevano essere di carattere intellettivo e morale.

Eppure, in altri tempi il Comune aveva manifestato una diversa attenzione e sensibilità alla soluzione del problema: nel 1832, dopo la ristrutturazione della biblioteca, resosi necessario un potenziamento dell’organico, il consigliere comunale Mariano Romagnoli chiese di affiancare al bibliotecario un vice “stabile, con soldo conveniente”11 e venne indetto una sorta di bando per l’assunzione di un aiuto bibliotecario.

In realtà, dagli atti esaminati, non risulta essersi trattato di un vero e proprio bando di concorso, da cui si deduce che il reclutamento molto verosimilmente avvenne per chiamata diretta. Nel 1841 il gonfaloniere forlivese Antonio Albicini si era preoccupato di documentarsi in materia di assunzione del bibliotecario e rilevò la diversa modalità di reclutamento nei paesi viciniori: a Ravenna il Consiglio Comunale procedeva per concorso, con una regolare notificazione affissa per trenta giorni, mentre a Cesena il bibliotecario veniva scelto tra gli impiegati del Municipio, per ballottazione, ogni due anni.

Per la biblioteca forlivese, comunque, si continuò a praticare la strada della chiamata diretta, almeno per tutto il periodo oggetto di questa ricerca, ovvero fino a tutto il 1925, prassi non indenne da qualche forma di clientelismo.

La svolta nella politica bibliotecaria, in realtà, si era manifestata con segnali chiari, dopo la spinta delle classi popolari, negli ultimi due decenni del XIX secolo, ma ciò non corrispose ad una effettiva rivoluzione del sistema. La biblioteca comunale di Forlì, al di là delle buone intenzioni ed intuizioni del riformista Pergoli, rimase immobile a lungo nel vecchio stereotipo di luogo dedicato ad un’èlite di frequentatori, che già possedevano gli strumenti culturali per accedere all’informazione, restavano comunque escluse le classi subalterne, per usare termini desueti, il proletariato ed il sottoproletariato.

Ad ostacolare il trend di sviluppo della politica bibliotecaria intervenne anche la burocratizzazione del ruolo del bibliotecario in periodo giolittiano, conferendo un carattere di inaridimento e rigidità all’istituto, a fronte di un rafforzamento dell’apparato amministrativo, si favorirono solo le istituzioni culturali di carattere speciale e si penalizzarono quelle locali, appesantendo il ruolo dei direttori con incarichi amministrativi e finanziari, la primavera bibliografica era già tramontata e l’organizzazione culturale anche nella provincia romagnola aveva risentito del riflusso.

A livello di formazione professionale, poi, fino a tutta la prima metà del XX secolo vi fu un’assoluta mancanza di proposte, essa veniva inventata ed acquisita solo su campo, i bibliotecari dovettero far riferimento alla loro predisposizione personale ed all’amore per il

mondo dei libri, oltre che alle loro conoscenze culturali.

Tutto ciò li condusse ad acquisire competenze in modo empirico, talvolta a scapito dell’efficacia nella gestione dell’istituzione culturale.

Ai vari bibliotecari che si sono succeduti nella conduzione della biblioteca Aurelio Saffi, tra il 1750 ed il 1925, vanno comunque riconosciuti i meriti che spettano ai pionieri, capaci di appassionarsi all’incarico, e non certo per ragioni venali. Molto spesso essi furono guidati più dal buon senso che da un vero progetto, tuttavia alcuni si mostrarono sensibili agli impulsi che giungevano dalla società, attenti ai cambiamenti culturali e politici, le loro azioni hanno concorso a qualificare l’istituzione in cui hanno operato, apportando progresso e beneficio a tutto l’ambiente professionale.

Sicuramente, senza l’apporto individuale di quei pionieri non si sarebbe mai giunti in Italia ad un dibattito approfondito sulla figura del bibliotecario, in realtà avviato tardivamente, nell’ultimo quinquennio degli anni Novanta del secolo appena trascorso, dibattito mai concluso, in cui restano aperti molti problemi, non ultimo quello della costituzione di un albo professionale.

E’ nell’azione degli uomini che nel corso degli anni hanno operato tra le mura della biblioteca che vanno ricercati gli elementi per una corretta interpretazione del modello che si è formato nel tempo; i loro interventi e le loro scelte, le passioni, gli ideali e le pulsioni che hanno delineato il loro agire vanno interpretati come segni significativi per l’avvio di un processo di trasformazione della figura del bibliotecario: da generico erudito a professionista cosciente del proprio status, la figura del bibliotecario professionista, nell’accezione moderna del termine, di mediatore tra documento ed utente. Un professionista a tutto tondo, capace d’infondere valore a tutti gli aspetti intrinseci ed estrinseci di un documento, in grado di destreggiarsi nelle diverse discipline dell’universo biblioteca: la bibliografia, la bibliologia, la bibliofilia e la biblioteconomia, ponendo la giusta attenzione all’aspetto teorico ed a quello pratico.

L’auspicio è che la generazione futura dei bibliotecari assomigli sempre più al bibliotecario di genio, scopritore della legge fondamentale nella Biblioteca di Babele di Borges, illimitata e periodica, e sempre meno al manager che deve arrabattarsi per far quadrare i conti nella gestione economica della biblioteca.

1 Presso l’Archivio di Stato di Forlì, Archivio del Comune di Forlì 1797- 1897, Tit.VI, Rub.32, b.138, a.1815, è conservato il manoscritto con l’elenco delle opere di Maioli, corredato della descrizione in abstract di ogni volume.

2 ASF, Cart. Amm. Comune Forlì, 1898-1925, Categ. IX, Cl. 8, b. 65, a. 1901.

3 ASF, Cart. Amm. Comune Forlì, 1898-1925, Categ. IX, Cl.8, b.13, a.1898.

4 Ibid., b. 65, a. 1901.

5 Ibid., b.157, a.1906.

6 ASF, Cart. Amm. Comune Forlì, 1898-1925, Categ. IX, Cl.8, b.213, a.1909.

7 Ibid., b.174, a.1907.

8 Ibid., b.192, a.1908.

9 Ibid., b. 418, a. 1920.

10 ASF, Cart. Amm. Comune Forlì, 1898-1925, b.535, a. 1925.

11 ASF, ACF, 1797-1897, Tit.VI, Rub.32, b. 245, a.1833.

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Biografia

Iris Tognon si è laureata in Storia Contemporanea ed in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università di Bologna. Vive a Forlì, dove svolge l’attività di Dirigente scolastico dell’Istituto Tecnico “G. Marconi”.

Biography

Iris Tognon graduated in Contemporary History and in Conservation of Cultural Heritage at Bologna University. She lives in Forlì, where she works as Principal in the high school “G. Marconi”.