I matti degli altri. Viaggi scientifici di alienisti stranieri in Italia (1820-1864)

di Matteo Banzola

Storici e psichiatri che coltivano l’interesse per la storia della propria disciplina concordano nel ritenere che il manicomio fu un prodotto della “duplice rivoluzione”1 economica (rivoluzione industriale) e politica (rivoluzione francese) che, a partire dagli ultimi due decenni del XVIII secolo, determinò l’ascesa del capitalismo come prassi economica e della borghesia come classe sociale.

In misura diversa nei vari stati europei, verso la metà degli anni Venti del XIX secolo apparve chiaro agli osservatori che il numero delle persone colpite da una qualche forma di alienazione mentale stava aumentando più o meno ovunque e, con maggiore incidenza, proprio nei Paesi in cui il capitalismo andava affermandosi e irrobustendosi2.

Decenni di trapasso da antiche strutture economiche e sociali dell’Ancien régime, che opposero resistenze e continuità agli impulsi al cambiamento nei rapporti sociali che andavano instaurandosi e nei quali un peso preponderante cominciarono ad assumere e a giocare un ruolo decisivo l’affermazione del talento personale, la formazione di centri industriali e la penetrazione di forme di conduzione capitalistica nelle campagne (testimoniata dalla formazione di numerosi gruppi bracciantili). Un passaggio, questo, che lasciando in gran parte sguarniti i ceti più poveri della società delle forme di soccorso e aiuto assicurati nei secoli precedenti dal multiforme apparato assistenziale ecclesiastico, contribuì ad accrescere il numero di coloro destinati ad incappare in una qualche forma di follia. Sul finire degli anni Trenta, Brierre de Boismont poteva affermare con sicurezza che

esiste, in effetti, alla superficie della società una massa fluttuante d’individui che […] deboli di spirito […] come una cera molle assorbono le impressioni esterne, e la loro ragione, alterata da una educazione sbagliata e un’organizzazione [fisica] difettosa, non può resistere allo choc, vacilla e si smarrisce3.

Se è indubbio che il manicomio moderno fu una delle istituzioni sorte per fronteggiare questa situazione è altrettanto vero che la sua origine era espressione di un afflato umanitario che si sprigionò dalla Rivoluzione francese con la promulgazione dei “diritti dell’uomo”4 (“il diritto che hanno gli alienati di essere trattati non come dei colpevoli, ma come dei malati”5, come affermava Philippe Pinel, il fondatore della psichiatria moderna) e dai profondi mutamenti nell’ambito delle scienze mediche che portarono, sempre nei decenni a cavallo tra il chiudersi del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, al superamento del dualismo cartesiano tra un “physique” intellegibile e in quanto tale curabile, e un “moral” inintellegibile e perciò incurabile6.

Nel fondersi di spinte diverse e per certi aspetti perfino contraddittorie, il manicomio trovò la propria collocazione e lo si ritrova situato laddove medicina, controllo sociale e beneficenza pubblica si incrociavano. Chiariva molto bene questo concetto un contemporaneo nell’affermare che

i manicomi partecipano al contempo delle case di forza, degli ospedali, degli istituti di educazione, degli stabilimenti industriali, ma differiscono da tutte queste istituzioni e costituiscono una specialità per lo stato mentale degli individui che accolgono7.

La plasticità del manicomio, la sua capacità di adeguarsi agli sviluppi della società e alle richieste che da questa provenivano è qui esposta nelle articolazioni che ne alimenteranno in futuro quella forza che gli ha consentito di sopravvivere così a lungo. Ma vi è anche enucleata la specificità del manicomio, la propria diversità dall’ospedale comune (nonché la sua ambiguità come luogo “di cura e di custodia”).

La psichiatria si affermò come sapere scientifico grazie all’opportunità di osservare da vicino i vari aspetti della malattia all’interno dei manicomi. Furono questi ultimi a consentire lo sviluppo della psichiatria, non viceversa. I “viaggi medici” facevano dunque parte del bagaglio di informazioni necessario al costituirsi della psichiatria.

superfluo sarebbe provare […] l’utilità de’ viaggi medici: essi estendono la sfera delle ricognizioni del medico, gl’insegnano a comparare le opinioni, ad apprezzare i sistemi; ma il maggior vantaggio che gli viene procurato è di metterlo in relazione con gli uomini più celebri d’ogni contrada, e fargli ottenere dalla loro benevolenza conoscenze e rapporti del maggior interesse.

Qual differenza tra il leggere la descrizione di un processo operatorio in un’opera periodica, e vederlo praticare dal suo inventore sul vivente! Quanto sono preziose le osservazioni cliniche fatte al letto degli ammalati o nella intimità del congresso de’ dotti che primeggiano nell’arte di guarire! Un medico illuminato che visita gli stranieri, studia con cura i loro metodi d’insegnamento e di terapeutica, osserva i grandi medici nella loro pratica particolare, […] nota con esattezza tutto ciò che è relativo alla polizia degli ospedali, visita le collezioni di storia naturale e di anatomia patologica, e fissa principalmente l’attenzione sulle innovazioni introdotte nel dominio dell’arte medica8.

1. Alienisti stranieri in Italia.

Tra il 1820 e il 1864, almeno sette medici (quattro francesi, un belga e due inglesi) viaggiarono in Italia visitando ospedali e manicomi. Una trattatistica specificamente dedicata alla costruzione e alla conduzione dei manicomi sarebbe apparsa solo verso la metà del secolo, ma alcuni aspetti erano discussi da tempo. I limiti imposti dalla redazione di un saggio non consentono di esaminare tutte le osservazioni raccolte dagli alienisti che visitarono i manicomi italiani. Qui ci limiteremo alle più significative, rispondenti a quanto la comunità scientifica aveva messo a punto relativamente alle strutture e alle cure.

Il periodo qui considerato coincide pressoché completamente con quello della Restaurazione e cioè un periodo nel quale cominciarono a giungere a maturazione e ad essere visibili processi rimasti fino ad quel momento più o meno occulti quali l’incremento demografico, gli effetti della vendita dei Beni Nazionali laddove la dominazione napoleonica era stata più prolungata ed incisiva, gli effetti sociali, sanitari e medici del primo “industrialismo” in alcune, limitate zone del nord della penisola. Effetti che diventarono evidenti attorno agli anni Quaranta e non casualmente coincisero con l’inizio della costruzione di nuovi manicomi. Prima di allora la psichiatria italiana aveva poco da offrire. L’esempio riformatore di Chiarugi, tra i primi in Europa ad abolire l’uso delle catene come strumento di contenzione, non ebbe seguito significativo. A differenza di Philippe Pinel, il grande medico toscano non fondò alcuna scuola di pensiero. Fatta eccezione per poche riviste, la produzione teorica e scientifica italiana fu esigua: anche inserendo nel computo alcune opere riguardanti la pellagra (malattia che per la sua eziologia aveva attinenza con la follia), il numero dei lavori riguardanti la follia restava limitato; rarissime le cattedre universitarie.

Come dimostra lo spoglio di riviste quali gli «Annali Universali di Medicina» e gli «Annali Universali di Statistica», per citare le più rinomate, fin quasi all’unificazione del Paese, la psichiatria italiana, fu sempre molto attenta a quanto veniva elaborato all’estero e subì l’influenza di quanto veniva praticato in Inghilterra, Belgio e, soprattutto, Francia9.

Trova così spiegazione e giustificazione quanto affermò Brierre de Boismont nel 1830: “quando visitammo [l’Italia] per la prima volta nel 1822 trovammo lo studio della follia quasi completamente nullo”10.

Se del viaggio in Italia di Brierre de Boismont non disponiamo di un resoconto completo, possiamo usufruire delle osservazioni di un altro medico francese, Louis Valentin, il quale redasse una sorta di «topografia medica» della penisola, compendiata nel suo Voyage médicale en Italie effettuato nel 1820. Sbarcato a Napoli, percorse la penisola da Sud a Nord escludendo le isole. Valentin visitò e riportò le sue impressioni su di un buon numero di manicomi, soprattutto delle grandi città. Eccettuati i manicomi di Aversa, Firenze e, almeno in parte, il reparto per gli “insensati” del Sant’Orsola di Bologna dei quali elogiava l’organizzazione e i servizi, i suoi giudizi erano negativi. Nel primo caso, l’iniziativa del direttore che si preoccupava di “applicare tutti i mezzi morali al trattamento dell’alienazione mentale”11 di matrice pineliana (il manicomio disponeva di un teatro12) e aveva abolito “le catene [e] le fustigazioni”; al Sant’Orsola si usava ancora incatenare i furiosi “per i piedi”, ma era stata introdotta la camicia di forza e il primario, il Dr. Gualandi, compiva “la sua visita tutti i giorni”13.

Il problema più grave rilevato da Valentin riguardava il sovraffollamento: a Roma, Bologna, Genova, Torino e Milano la sproporzione tra lo spazio disponibile nelle strutture e l’eccessivo numero dei ricoverati era evidente. Di conseguenza, i medici erano costretti a continuare l’uso di mezzi coercitivi estremamente invasivi come catene, bracciali e collari che esasperavano i folli e pregiudicavano le cure. A Roma, dove il barone De Gerando non era riuscito a far approvare dall’amministrazione l’introduzione della camicia di forza, si adoperavano “catene e nervi di bue”; a Genova, la scena che gli si dischiuse una volta varcata l’ingresso del manicomio, gli suscitò indignazione: “molti i pazzi incatenati”, i furiosi ammassati in “trenta o quaranta nella stessa sala” con “fracasso”, “le donne furiose quasi tutte assieme” e molte di loro “ai letti incatenate”; pochi gli “stanzini” appositi per accoglierli: nel 1830 Brierre de Boismont avrebbe rilevato che nell’unico cortile, sufficiente per quaranta malati, al momento della sua visita erano almeno centocinquanta14; a Venezia i cento pazzi del San Servolo erano tenuti in uno “stabilimento vizioso e male accomodato”; la situazione dei 470 mentecatti della Senavra, poco fuori Milano, era allucinante: una trentina di furiosi “stavano assieme nella stessa sala”, la maggior parte di loro, “legati mani e piedi con catene” mandavano “spaventose grida e urli”; a venticinque maniaci era stato applicato “il cautero a ferro rovente” nel “capo di quelli” (una terapia a shock antelitteram usata anche in Francia15); a Torino, al momento della sua visita, “la casa dei matti” conteneva 280 persone, di cui “cinquanta maniaci incatenati”; vide “quattordici di questi sfortunati sulla paglia [in una] stessa camera e ventidue in un’altra mandando orribili grida”; “tutto”, concludeva, “in questo luogo è vizioso e rivoltante” – non escluse le cure, che si limitavano a salassi e purghe16.

Non erano situazioni facilmente risolvibili. Era quanto lasciava intendere Benedetto Trompeo allo stesso Brierre de Boismont nel corso della suo secondo viaggio del 1830, rammaricandosi di essere costretto a continuare luso di catene e mezzi coercitivi a causa della ristrettezza dei locali; provvedimenti che, assicurava, avrebbe abbandonato appena i reparti per i “maniaci” avessero avuto una dislocazione più consona. Ed in effetti, nellepoca in cui Boismont vi si trovava, era in costruzione a Torino un nuovo manicomio, molto più conforme nella struttura alle esigenze di un manicomio moderno.

Lo stesso alienista francese riconosceva che, in una situazione non dissimile da quella francese, molti alienisti “vedono il bene” ma essendo privi dei mezzi e del potere per imporre cambiamenti, “gli abusi secolari si perpetuano”. Tuttavia, mutamenti stavano avvenendo: a parere di Brierre de Boismont, il manicomio che faceva parte del S. Bonifazio di Firenze meritava di essere segnalato: era “un bell’edificio” diviso in “due parti” una delle quali, completamente a sé stante, riservata ai “maniaci”. Nonostante il locale fosse “molto irregolare”, era “non di meno appropriato e comodo”. Nell’impianto della struttura si avvertiva la competenza dello specialista: era stato infatti costruito sui disegni elaborati da Chiarugi, che aveva saputo rimediare efficacemente a molti inconvenienti: nel reparto maschile vi erano piccole stanze singole; i refettori erano ben tenuti e privi di odori sgradevoli; vi era una camera oscura, tappezzata di stuoie ricoperte da una tela nera, destinata a calmare i “furiosi che sono troppo agitati”; i bagni erano in pietra ed erano dotati di docce; non mancava un piccolo giardino coltivato dai “malati docili” e passeggi interni per gli agitati. Gli stessi elogi venivano ripetuti riguardo al reparto femminile, tutte le sale erano ben areate, i corridoi ampi per i passeggi.

In Toscana l’opera riformatrice di Leopoldo I e di Chiarugi aveva lasciato impronte profonde. A Firenze veniva usato un “manicotto” di cuoio imbottito che “lascia la libertà agli alienati di andare ovunque”, quasi inoffensivo per il paziente; vi erano somministrate “tutte le medicine conosciute”; erano state approntate camere di osservazione per gli entranti, mentre i convalescenti venivano spostati in un’ala separata per non comprometterne il decorso.

Anche il piccolo manicomio di Siena risultava curato, ben tenuto e ottimamente organizzato al punto che poteva “quasi” essere preso a modello. Le porte delle celle si sparivano verso l’esterno, espediente che consentiva di chiuderle agevolmente senza entrare; il vaso da notte poteva essere ritirato facilmente dagli infermieri tramite uno sportello; vi era una sala per la ricreazione e una per il lavoro; le sale per i bagni freddi e caldi erano ben disposte e ben riscaldate; la cucina era organizzata in modo superbo e “il nutrimento buono”; ben scelto e gentile il personale infermieristico. Unici inconvenienti registrati da Brierre de Boismont, i passeggi troppo stretti e la costruzione che si alzava su tre piani.

Ma anche località che non potevano contare su un’eredità di riforme altrettanto profonde di quella toscana, si erano dimostrare capaci di procedere a innovazioni significative. Il manicomio di Torino e il San Lazzaro di Reggio Emilia “attestano limpulso dato alle idee” riformatrici. A dirigere il manicomio di Reggio Emilia, il San Lazzaro, era stato chiamato Antonio Galloni: medico formatosi con studi

in Francia, Inghilterra e Italia. [Galloni] conosce bene l’influenza dei mezzi morali, ha fatto costruire refettori, sale per lo studio ed il lavoro […] infermerie e un piccolo anfiteatro per le autopsie […]. Tutti i mezzi barbari di repressione sono severamente proibiti. Lumanità, la dolcezza e la bontà sono raccomandati agli impiegati. Imbevuto delle massime di Pinel, Willis, Esquirol, Galloni ha moltiplicato i giochi, i divertimenti e i mezzi di lavoro; così facendo è spesso riuscito a cambiare e a riportare lattenzione dei maniaci e di una parte dei dementi su oggetti che non sono affatto in rapporto con la loro follia o le loro inclinazioni17.

Questi risultati e lottima separazione tra i sessi e le varie forme di follia davano al San Lazzaro una “fama meritata”.

I risultati ottenuti da Galloni dimostravano il fondamento dei reclami dei medici, spesso costretti a vedere vanificati i propri sforzi a causa della conformazione imperfetta o errata degli stabilimenti. Era il caso del Dottor Domenico Gualandi, medico direttore del SantOrsola di Bologna e professore allUniversità, che pur avendo limitato i mezzi di contenzione alla “camiciola di forza, al letto orizzontale, alle docce fredde o a sorpresa” e aver cercato “di migliorare la situazione” dell’ospedale, si era dovuto arrendere di fronte agli insormontabili difetti della struttura e doveva rassegnarsi ad attendere che un nuovo edificio in costruzione fosse terminato.

Con l’esempio di Gualandi, Brierre de Boismont metteva in evidenza un’altra caratteristica dei manicomi dell’epoca: l’essere sovente ricavati da edifici preesistenti (quasi sempre ex conventi) che, in quanto tali, non presentavano i requisiti idonei per essere adibiti a manicomio. Tra quelli visitati da Brierre de Boismont nel 1830, ex conventi erano la Senavra di Milano, la Fregionaia di Lucca, il piccolo manicomio di Siena. Ve ne erano altri: i manicomi di Pesaro, di Perugia, di Palermo. Quello di Macerata, invece, si trovava nei locali di una ex fabbrica.

Se la divisione tra i sessi veniva ovunque rispettata rigorosamente, altri precetti raccomandati dagli alienisti trovavano difficile applicazione: il difetto più vistoso e nocivo che edifici inadatti inevitabilmente palesavano era l’impossibilità di separare adeguatamente le varie forme di follia. Gli alienisti erano unanimi nel ritenere che le forme di follia instaurassero tra loro un rapporto osmotico qualora stessero a contatto prolungato: l’agitazione dei furiosi avrebbe influito negativamente sui convalescenti; i “lipemaniaci” avrebbero potuto inebetirsi a fianco di idioti e dementi; i “sucidi”, cioè i sudici, avrebbero provocato trasandatezza e scarsa igiene in coloro che si mantenevano puliti. Le forme di follia erano ritenute “contagiose”. Era un difetto particolarmente visibile a Venezia e a Roma. A Venezia, “l’ex direttore […] avendo messo da parte ogni classificazione scientifica, la più grande confusione ne è necessariamente il risultato”; a Roma, dove “tutti i tipi di follia sono confusi […] la classificazione è impossibile”.

La promiscuità della Senavra milanese, come dei manicomi di Roma e Genova, pregiudicava sul nascere qualsiasi intervento terapeutico. Ma non era l’unico fattore a determinare gli alti tassi di cronicizzazione e di mortalità: gli spazi angusti, la mancanza di cortili spaziosi impedivano sia il passeggio, distrazione fondamentale soprattutto per i più degenti cupi come i “lipemaniaci”, sia l’organizzazione efficace del lavoro, essendo riconosciuta l’ergoterapia un ottimo metodo per distrarre i folli dai propri deliri e fissazioni. “Nella Fregionanza” di Lucca, annotava seccamente Brierre de Boismont, “si lavora, ma tutto procede con una lentezza esasperante”; alla Senavra di Milano “le donne tranquille lavorano in una sala. Gli uomini convalescenti sono impiegati nel giardinaggio”; poca cosa rispetto alle potenzialità del luogo. La Senavra era “piazzata nel mezzo di vaste praterie”, ma essendo queste “attraversate da una folla di piccoli canali” risultava immersa in una umidità pesante e continua, causa, tra l’altro della “febbre petacchiale” che regnava endemica in quelle zone18.

La Senavra non era l’unico manicomio del Nord a trovarsi in difficoltà. I piccoli manicomi di Verona, Parma e Ferrara erano assolutamente inadatti: il primo era un luogo “così triste da somigliare a una prigione”: le catene erano state bandite, ma la camicia di forza vi era sconosciuta; nel caso di agitazione estrema, gli alienati venivano fasciati con bende “dandogli l’aspetto di mummie egiziane”, un metodo controproducente condannato da Brierre de Boismont. A Verona i folli venivano ricoverati in qualche loggiato a loro riservato allinterno dellospedale, a sua volta una struttura “mediocre”: le stanza erano fredde, mal areate e chiuse con grossi catenacci. Del resto, lamministrazione aveva in progetto di inviare i folli al manicomio di Venezia. Anche a Parma, dove larciduchessa aveva a cuore la sorte degli alienati ma i cui progetti si erano arenati, i folli venivano ospitati in una “dependance” dell’ospedale civile, che però, come tutte le soluzioni provvisorie, presentava più difetti che pregi: ledificio era “una casa di reclusione e niente più”. Quello di Ferrara valeva la pena di essere visitato solo perché vi era stato rinchiuso il Tasso, per il resto era un luogo tetro che aveva molto più in comune con una prigione che con un ospedale.

La presenza diffusa di piccole strutture è indice di alcuni aspetti caratteristici della storia ospedaliera italiana. In primo luogo, da un lato, rifletteva la presenza diffusa delle città, ma anche la relativa mancanza o cattivo stato delle vie di comunicazione che aveva indotto le amministrazioni cittadine a costruire ospedali come punto di riferimento per le zone soggette al loro controllo. In secondo luogo, vi si ravvisa la straordinaria proliferazione di enti assistenziali creati nei secoli in ambito ecclesiastico. Infine, la trasformazione di questi stessi enti in strutture ospedaliere, spogliate dalle incombenze che in tempi passati li avevano contraddistinti (ristoro ecc.19).

Ciò spiega perché in molti casi, nei centri minori, i manicomi fossero in realtà semplici reparti facenti parte di ospedali civili. In questo caso, si trattava di soluzioni risultate efficaci per molto tempo, ma che ora, di fronte all’avanzare di assetti economico-sociali inediti, si dimostravano inadeguate. Già Valentin era rimasto colpito dalla larga diffusione della pellagra in vaste aree del Nord20. Al tempo della visita di Brierre de Boismont l’endemia si era estesa: “la pellagra è una causa frequente di alienazione mentale”21.

Gli ampliamenti, i restauri e la costruzione di nuovi manicomi, visibili già attorno agli anni 1840, furono strettamente legati al diffondersi della pellagra dal Nord verso le regioni centrali della penisola: ne sono un esempio la costruzione del primo manicomio di Imola, avvenuta nel 1844, e l’ampliamento di quello di Pesaro, risalente allo stesso anno.

Le dure annotazioni in presa diretta di Valentin, annotava Brierre de Boismont, avevano in ogni caso avuto il pregio di spronare le autorità di molte località a migliorare la condizione degli alienati. E già il suo resoconto di viaggio lasciava intravvedere risultati apprezzabili: a Torino si stava costruendo un nuovo manicomio; a Firenze e nell’isolotto di San Servolo a Venezia fervevano lavori di restauro, ampliamenti e nuovi giardini; l’uso della camicia di forza in sostituzione delle catene si era diffuso. Anche la «cura morale» della follia si andava diffondendo.

Brierre de Boismont, dunque, tratteggiava un quadro complessivo in chiaro-scuro della condizione dei manicomi italiani e collegava la difformità delle situazioni all’ineguale diffondersi e radicarsi nella penisola della civilizzazione: se, a suo avviso, la maggioranza dei manicomi restava “mediocre o pessima”22, ciò era dovuto essenzialmente all’arretratezza economico-sociale di molti Stati italiani. Non a caso i manicomi migliori (Torino, Reggio Emilia, Firenze e Siena), si trovavano nelle zone più progredite d’Italia (la Senavra milanese versava in pessime condizioni, ma i manicomi privati di Milano avevano poco da invidiare a quelli francesi), dove “generalmente i lumi sono più estesi”23: tutto questo era “la prova più convincente che lalienazione è tanto meno comune quanto più i paesi sono tranquilli e meno tormentati dai bisogni della civilizzazione”24.

A suo tempo, il Voyage medicale di Valentin aveva suscitato in Italia un vespaio di polemiche e di risentimenti25. Anche il lavoro di Brierre de Boismont suscitò qualche recriminazione: “Boismont si è fatta, a nostro avviso, un’idea molto storta e della coltura e dell’incivilimento […]”, argomentava un non meglio identificato C. S. sul «Bullettino di notizie statistiche ed economiche italiane e straniere»26, il quale proseguiva: “come immaginarsi che la coltura, la quale non è che lo stato di perfezionamento intellettivo e morale di una data popolazione, e l’incivilimento che non è che quel modo di essere di uno stato in cui si va in esso effettuando le condizioni tutte di una colta e soddisfacente convivenza, possono essere causa della perdita dell’intelletto?” Non vi era molto da vantarsi se la tanto ammirata “civilisation” riduceva gli uomini “al di sotto de’ bruti”.

Era una posizione di retroguardia. Modernizzazione e industrializzazione portavano come contraltare gravi problemi igienico sanitari e turbolenze politiche dai quali l’assetto essenzialmente agricolo degli Stati italiani metteva al riparo. In Italia, la stabilità sociale fu preferita a lungo, ben oltre l’unificazione del Paese, ai guasti sociali della modernità27. D’altra parte, l’estendersi della pellagra testimoniava che, quanto meno nel Nord della penisola, forme di capitalismo agrario andavano affermandosi e irrobustendosi28. Dunque, nel ritenere insoddisfacente la condizione di molti manicomi italiani, Brierre de Boismont, metteva il dito nella piaga, sottintendendo un ritardo non solo economico, ma anche un divario troppo ampio tra governanti e governati e un’eccessiva lentezza dei primi a trovare soluzioni efficaci ai problemi dei secondi.

Era esattamente questo uno degli aspetti focalizzato da Guislain nel resoconto del suo viaggio, compiuto nel 1838 e pubblicato nel 1840.

Joseph Guislain, alienista, docente universitario e artista, fermo sostenitore della «cura morale», definito in patria “il Pinel belga”29, convinto, in sintonia con Pinel, Esquirol e altri, che un manicomio ben costruito, ben organizzato e ben diretto fosse non solo luogo, ma strumento di cura, era dunque l’uomo giusto per rilevare l’evoluzione dei manicomi italiani.

Annotò cambiamenti importanti a Torino, Genova, Venezia e Firenze. A Torino poté visitare il nuovo manicomio, completato nel 1834. I reparti maschile e femminile erano separati da corpo centrale riservato agli uffici dei medici, all’amministrazione, a magazzini e depositi; costruito su tre piani, in entrambi i reparti vi era un largo corridoio molto ampio e lungo che serviva “allo stesso tempo da refettorio e da sala di riunione” i cortili erano circondati da loggiati aperti dove i ricoverati potevano passeggiare; le scale erano ampie e agevoli; dalle cucine, poste al piano terra, partivano rudimentali ascensori per far arrivare i pasti ai piani superiori; il numero degli infermieri era sufficiente. Tuttavia, aveva il difetto di avere il pianterreno male illuminato; trovava troppo strette le corsie e criticava la disposizione delle sale-corridoio che, concentrando troppi malati, disturbavano quelli nei dormitori o in camere adiacenti. Nel complesso, “questa fabbrica [presenta] delle buone disposizioni; e senza poterla raccomandare in tutto come modello, pensiamo che, fra gli stabilimenti esistenti, è uno di quelli le cui linee architettoniche presentano migliore armonia e nelle quali si potrà trovare felici ispirazioni”.

Ancor più ambizioso l’erigendo manicomio di Genova “a forma raggiata”30: da un’alta torre di cinque piani, posta al centro e che ospitava i servizi generali, partivano sei lunghi bracci di due piani ciascuno oltre al piano terra e una mansarda. Ogni braccio era attraversato in tutta la lunghezza da un corridoio, ai due lati del quale si affacciavano stanze “spaziose”, 16-18 per ogni piano di ogni raggio. Per quel che riguardava “la solidità e la bellezza di queste costruzioni [e per il] lusso che è stato posto nell’ordine dell’insieme, questo stabilimento non lascia nulla a desiderare”; tuttavia, secondo Guislain, si avvertiva “l’assenza di un impulso medico”: tralasciando difetti tecnici minori, l’alienista belga puntava la sua attenzione sull’assenza di sale comuni, sui “corridoi troppo stretti”, sulla imperfetta disposizione delle finestre nelle celle; soprattutto, “sembra che il terreno sul quale è costruito [il manicomio] è basso e umido, e che si è già obbligati a fare cambiamenti importanti per il flusso delle acque sotterranee”. Ma anche dal punto di vista logistico Guislain trovava difetti notevoli: la sorveglianza attenta ed efficace garantita dai lunghi corridoi che tagliavano i bracci era ottenuta a scapito della divisione e separazione delle forme di follia, di gran lunga più numerose rispetto a quelle che la conformazione degli edifici permetteva in concreto31. Ciò nonostante, Guislain si diceva “pieno di ammirazione per la concezione grande e generosa” di un progetto che introduceva “una riforma radicale della condizione degli alienati in questa città”32.

Dal tempo della visita di Boismont, la situazione degli alienati del veneziano e delle città vicine aveva subito qualche significativo cambiamento. Se al San Servolo continuavano a persistere i medesimi problemi, ora le donne erano state trasferite all’ospedale San Giovanni e Paolo, uno “stabilimento magnifico nel quale le [250] alienate hanno una divisione speciale”33. Guislain vi trovò una singolare combinazione tra aspetti negativi e innovazioni interessanti: i difetti derivavano in gran parte dalla cattiva disposizione dei locali dovute alla irregolarità delle costruzioni e alla loro altezza eccessiva: una conseguenza dolorosa era la necessità di legare le “maniache al letto” in stanze troppo grandi e con troppi letti, con grave pregiudizio del riposo e del sonno; così pure troppo spaziose e affollate erano le sale comuni, mentre i molti piani provocavano “mille imbarazzi” nello spostare le ricoverate. Tuttavia, erano presenti “sale di osservazione, eccellente disposizione” (in atto anche all’Ospedale Maggiore di Milano dove gli alienati venivano tenuti sotto osservazione prima di essere inviati alla Senavra), che Guislain vorrebbe vedere applicata “in tutti i manicomi”. Inoltre, “vi si fa una attenzione minuziosa alla classificazione delle alienate”, riconoscibili da “piccoli galloni a guisa di spalline che indicano, per differenze di colore, il genere di follia di cui sono affette”, una “pratica” lodevole, della quale però, attuata in questo modo “si cerca invano l’utilità” in quanto l’alienista belga riteneva – in questo in contrasto con altri colleghi – che il «contagio» delle forme di follia si rafforzasse tra gli alienati colpiti dal medesimo tipo (ad esempio, i melanconici si incupivano maggiormente, i maniaci diventavano più agitati); il cibo era buono e abbondante; numerose le alienate dedite al lavoro e meritoria la cura con la quale venivano tenuti i “registri statistici”34.

Tanto le «Lettres Médicales» vennero commentate e discusse in Italia, per il nome già conosciuto e rinomato del loro autore, quanto del tutto sconosciute rimasero le osservazioni raccolte da Joseph-Guillaume Desmaisons Dupallans, un allievo di Esquirol e successivamente direttore dello stabilimento di Castel DAndorte presso Bordeaux, inviato in Italia dal suo Governo nel 1840.

Il resoconto del suo viaggio, rimasto inedito all’epoca e scoperto e pubblicato recentemente, è estremamente dettagliato e più severo di quello dei suoi predecessori. Tutto ciò che si distanziava dalle regole impartite dal suo maestro veniva severamente criticato: del San Lazzaro di Reggio Emilia, ad esempio, non si poteva dire che si trattasse di un istituto superiore alla media e restava comunque di gran lungo inferiore ai manicomi francesi; il manicomio di Firenze, degno di nota secondo Brierre de Boismont e Guislain, era ormai un istituto superato; severissimi – non a torto – i giudizi sugli stabilimenti di Parma e Ferrara.

Tuttavia, il suo resoconto consente di ampliare lo sguardo a manicomi trascurati dagli alienisti che lo avevano preceduto. Ad esempio, troviamo un breve cenno riguardo al piccolo manicomio di Faenza, in realtà “un reparto destinato agli alienati nellospedale civile”35 sul quale vi era ben poco da osservare se non che “nulla [vi] si presta alla sistemazione e al benessere degli malati”, mentre invece degna di nota era lacribia e limpegno dei medici.

Non distante, un piccolo manicomio si trovava a Pesaro, il S. Benedetto. Nonostante la vecchiezza delledificio (ancora una volta un ex convento), la sistemazione dei raparti maschili e femminili era buona: disponevano di sale, refettori ecc.; soddisfacente la pulizia dei locali e tutto lo stabilimento era in via di miglioramento con la costruzione di nuove sezioni, di bagni e laggiunta di giardini attigui. Il Regolamento che sovrintendeva il manicomio era “improntato al più alto spirito di carità” e il Direttore, il Dr. Meli “ottenne la riunione delle funzioni di direttore e medico e la nomina di un assistente” in qualità di vicedirettore. Con grande vantaggio dei ricoverati, entrambi “vi presero alloggio”.

Vicinissimo al manicomio pesarese sorgeva quello nuovissimo di Ancona. L’alienista francese ritenne di vederne inapplicati perfino i principì più elementari della tecnica manicomiale: era stato costruito allinterno della città la quale, a sua volta, sorgendo “su un piano assai inclinato”, causava altri inconvenienti. Uno dei più rilevanti, dovuto al errata ubicazione delledificio, aveva “portato a un difetto sensibile di armonia nelle divisioni”: a dividere i reparti maschili e femminili dei furiosi vi era solamente un muro. I convalescenti disponevano di ununica scala per luscita. Erano errori imperdonabili per un edificio nuovo. “In una parola” – concludeva Dupallans – nulla ricorda, nella disposizione della casa […] lidea che noi ci facciamo di uno stabilimento speciale, moderno”.

Molto lusinghiero, invece, il giudizio sul manicomio perugino. Ricavato anche questo da un un ex convento, nonostante qualche difetto inevitabile dovuto alla sua funzione precedente, secondo Dupallans si era di fronte ad “unistituzione assai raccomandabile”. Diversamente che altrove, qui il medico doveva consacrare gran parte del suo tempo agli alienati e doveva rendere conto allamministrazione dellandamento dell’istituto. Daltra parte il direttore – il Dr. Massari – aveva potuto attuare i provvedimenti più opportuni: gli uomini lavoravano la terra; le donne era impiegate “nei lavori propri al loro sesso”, mentre la sua presenza pressoché continua garantiva la solerzia degli infermieri.

Del tutto opposta la situazione che il medico francese trovò a Macerata:

La casa nella quale sono oggi rinchiusi [gli alienati] è una costruzione di povero aspetto (una vecchia fabbrica) mal situata, ancor peggio distribuita, angusta e buia. Dire che lo spazio manca, vuol dir che, qualunque cosa si faccia, la tranquillità e il benessere dei malati sono pressoché impossibili. Si cercano, invano, stanze di riunione areate, cortili sufficientemente spaziosi, un luogo dove questi infelici possano respirare in pace.

In queste condizioni i buoni propositi dellamministrazione e del direttore (testimoniati dalla proscrizione delle catene e dei ferri), erano destinati al fallimento e Dupallans auspicava che i folli fossero trasferiti altrove o si costruisse un nuovo istituto.

Lunico manicomio siciliano si trovava “a breve distanza” da Palermo, “su un terreno sufficientemente elevato e con una esposizione perfetta”. Era stato aperto nel 1824 dal barone Pisani. Anche in questo caso si trattava di un ex convento, riadattato “nei limiti del possibile” e con buoni risultati. La parte più vecchia era su due piani e formava “un quadrato allungato che racchiude una corte circondata da una galleria coperta”: al piano terra vi erano il parlatorio, la sala di accettazione, i bagni ecc., a quello superiore l’ appartamento del direttore e gli uffici.

I ricoverati erano sistemati in parte in due sezioni per gli uomini costruite dietro il corpo principale di venti celle, “ben disposte”, e facili da raggiungere. Una nuova sezione destinata alle donne e costruita su tre lati di un cortile era stata costruita recentemente.

In generale, eccezion fatta per linsufficienza di gallerie (opportune in un clima assolato come quello palermitano), “le disposizioni materiali della Casa Reale di Palermo [erano] degne di nota”: pulito e ben tenuto garantiva un’accettabile separazione tra i due sessi.

Vi erano dunque le premesse per disporre di un ottimo manicomio, ma Dupallans criticava il fatto che nessuno dei medici direttore compreso – risiedesse allinterno delledificio: “in una casa per alienati lassistenza deve essere presente ad ogni istante”36.

In conclusione, nonostante la fondatezza di molte critiche, le osservazioni di Dupallans facevano emergere una sostanziale staticità che non teneva conto delle difficoltà oggettive, considerate invece da Brierre de Boismont e da Guislain e una rigidezza eccessiva nei giudizi. Cinque anni prima, un medico inglese, Edwin Leen, più interessato agli ospedali generali che ai manicomi, aveva comunque lodato l’organizzazione generale del San Bonifazio di Firenze37. Altre realtà versavano in pessime condizioni, ma i medici ne erano consapevoli e reclamavano interventi. Il manicomio di Aversa era oggetto di aspre discussioni38; i medici della Senavra di Milano chiesero ripetutamente restauri alla struttura e la costruzione di un nuovo manicomio39.

Pur con molti limiti, affermò nel 1846 Bénédict Morel, alienista austriaco di nascita ma naturalizzato francese, in Italia “il miglioramento dei manicomi è comunque progredito”40: ad esempio, già prima della visita di Dupallans, il San Lazzaro di Reggio Emilia veniva indicato come uno dei migliori manicomi italiani e “forse” europei:

Tra gli encomi tributati pubblicamente colle stampe al nostro Manicomio torna a sua maggior lode che i medesimi gli venissero resi unanimemente da dotti nazionali e più ancora dagli stranieri pur sì poco notoriamente inchinevoli a proferire cortesi non che retti giudizi sugli uomini e sulle cose italiane. In più scritture uscite ne trascorsi anni ne fecero di vero la più onorevole menzione [in molti, e] da ultimo, […] un Commissario del Governo francese spedito in Italia a raccogliervi cognizioni sopra i Pii Istituti di pubblica beneficenza, il Sig Cersberr, in un suo rapporto presentato a quel Ministero dell’interno e dipoi pubblicatosi in que’ giornali, pur descriveva con distesi cenni di commendazione il nostro Ospizio e qualificavalo per l’istituzione e per la disciplina ond’è governato siccome uno de primi d’ Italia e forse d’Europa41.

Innanzitutto, affermava Morel, occorreva ricordare “che i pregiudizi esistenti” riguardo ai folli “cominciano appena a sparire”42; in secondo luogo occorreva tener conto delle conseguenze della frantumazione geopolitica della penisola: “che sarà dunque quando bisognerà applicare un’idea utile in un Paese diviso in una molteplicità di governi i cui interessi, il percorso e le tendenze sono così diverse?”43. La frammentazione della penisola favoriva il persistere di un tenace antagonismo tra le scuole mediche locali che finiva per frenare il progresso scientifico e sclerotizzare posizioni acquisite: perfino il rivoluzionario stetoscopio di Laennec incontrò diffidenze tenaci e difficoltà ad affermarsi44. Si aggiungevano poi le difficoltà interposte alla circolazione delle opere sia a causa delle numerose dogane, sia per l’attività – non sempre efficiente, ma quanto meno fastidiosa – della censura. Infine, vi era un terzo elemento che frenava o ritardava lo spirito riformistico di molti alienisti italiani: così come molte strutture erano appartenute precedentemente a ordini religiosi, la direzione di molti ospedali e manicomi era affidata a personale ecclesiastico o comunque estraneo alla medicina:

Se […] arrivate in una città, per piccola che sia, se vedete un edificio che vi colpisce per la sua architettura, per la sua bella posizione, per quell’insieme di cose che suggerisce al tempo stesso l’idea di ordine, di agiatezza e di felicità, visitatelo, se siete medici; è un ospedale, un ospizio per gli orfani, uno di quei sontuosi monumenti designati con il nome di “Albergo dei poveri”; poiché anche la miseria ha i suoi palazzi in questo paese […]45.

Se l’alienista francese, che conosceva a fondo l’Italia, si limitava ad una lieve ironia sulla conduzione della beneficenza pubblica, quest’aspetto colpiva molto più profondamente i visitatori del Nord Europa. L’inglese Mackenzie Bacon avrebbe scritto pochi anno dopo l’unificazione che lItalia “solo ora sta muovendo i primi passi verso le necessarie riforme. Ma da questo punto di vista “la prevalenza della religione cattolica ha avuto una certa influenza nellarrestarne il progresso” in quanto laffidare la cura dei folli ai corpi religiosi, sebbene portasse per certi aspetti a risultati non trascurabili, non soddisfaceva affatto una conduzione scientifica e medica degli istituti46.

La confusione che regnava nella beneficenza pubblica si rifletteva negativamente sul progredire della scienza, verificabile nella scarsità delle cattedre universitarie riservate alla psichiatria, e sulla figura stessa del medico, la cui azione restava subordinata alle decisioni degli organi amministrativi superiori.

Era questa una delle conclusioni a cui giungeva, ancora una volta, Brierre de Boismont, nel 1864: ora che lunificazione del Paese era stata raggiunta quasi per intero, non vi erano dubbi sul fatto che lItalia avrebbe recuperato il terreno anche in campo psichiatrico e manicomiale. Era però assolutamente necessario, e il governo doveva farsene carico, rinnovare completamente il sistema e il personale amministrativo della beneficenza pubblica con la promulgazione di una legge “equa” a “protezione degli alienati e dei medici”47.

Gli auspici di Brierre de Boismont avrebbero dovuto attendere molto tempo prima di essere esauditi: un rinnovo parziale delle Congregazioni di Carità fu promulgato solo con le riforme crispine48; mentre ben quarant’anni sarebbero dovuti passare prima che la legge del 1904 entrasse in vigore. Ma nello stesso anno in cui l’alienista francese si augurava che l’Italia seguisse quanto era stato fatto in altri Paesi in materia di legislazione manicomiale, la psichiatria italiana raggiungeva il primo obiettivo importante nel suo percorso di formazione con la pubblicazione, a Milano, della prima rivista nazionale di psichiatria, l’“Archivio italiano per le malattie nervose e più particolarmente per le alienazioni mentali”, frutto degli incessanti sforzi di Andrea Verga e dei suoi collaboratori.

Conclusioni.

Le osservazioni raccolte degli alienisti stranieri in Italia consentono di seguire non soltanto il processo di formazione della psichiatria italiana; per i medici stranieri che vengono a visitare i manicomi italiani, la situazione degli alienati e degli istituti funge da rilevatore del grado di sviluppo delle singole realtà. Ad esempio, in Sicilia, la presenza del solo manicomio di Palermo era sintomatica non solo per i disagi riguardanti l’inserimento o il ritiro dei folli da chi risiedeva lontano dalla capitale dell’isola, ma anche della sostanziale arretratezza della realtà siciliana. Un discorso molto simile veniva fatto a proposito del manicomio di Aversa: la sua efficiente amministrazione era più un retaggio dell’epoca murattiana che un pregio dovuto alla situazione presente.

La frequenza in Italia di forme di follia derivanti dall’alterazione delle «passioni» veniva attribuita alla posizione geografica della penisola, che avvicinandosi alle coste africane ne subiva gli influssi non solo climatici, ma anche umorali e comportamentali: trovavano così spiegazione una certa indolenza impregnata di fatalismo riscontrabile nel disinteresse delle classi popolari per le vicende politiche e culturali dei propri Stati e l’importanza che gli italiani attribuivano alle vicende sentimentali. Si tratta, almeno in parte, di argomentazioni pregiudiziali; ma si trovano anche osservazioni penetranti e acute. Un quadro generale veniva tracciato da Guislain in questi termini:

Ciò che non è generalmente presente in Italia è la fisionomia espressiva della grande industria con il suo lusso, le sue esigenze e la sua prodigalità; il suono delle sue macchine, delle ruote, il fumo, il rumore dei lavoratori. Nei porti c’è qualche attività commerciale della quale, tuttavia, i paesi dell’interno profittano in proporzione trascurabile. In alcuni punti vi sono fabbriche di seta, oggetti in ferro, fabbriche di tessuto ecc. Ma sono eccezioni49.

Ciò che colpiva, non solo Guislain, in un secolo inebriato di progresso scientifico e tecnologico, era il contrasto tra le vestigia di un grande passato di arte, di scienza e di prosperità, rinvenibile ad ogni passo e in ogni dove, e lo stato attuale di rassegnata trascuratezza, di svogliata inerzia e di profondo distacco, quasi si trattasse di mondi separati, tra le classi sociali.

Ma la comparazione tra il passato e il presente non si esauriva in questo semplice contrasto: gli alienisti stranieri avvertirono con chiarezza anche il peso e la forza di quel passato che aveva reso culturalmente grande la penisola secoli prima e che ora, per certi aspetti, ne frenavano lo sviluppo: il riuso di ex conventi destinati a manicomi non era un fenomeno esclusivamente italiano, ma qui aveva un’incidenza più profonda che altrove, e così pure molto maggiore rispetto ad altri Paesi era la presenza del clero nell’ambito amministrativo degli enti di beneficenza, degli ospedali e dei manicomi.

A loro volta, gli alienisti italiani avvertivano con disagio la rilevazione implicita che gli scritti dei visitatori riguardo la contraddizione degli Stati italiani e delle classi dirigenti, tentati dal predisporre le condizioni per inserirsi appieno nel ciclo della modernità industriale e al contempo titubanti di fronte agli sconvolgimenti da questa derivanti.

Come abbiamo accennato, i decenni che formano il periodo preso in esame in queste pagine, sono decenni trapasso e di trasformazioni economiche e sociali profonde, talvolta radicali e veloci50: la frenesia della società scaturita dalla combinazione delle “duplice rivoluzione”, il ritmo crescente e incessante che il progresso e la società industriale imponevano, i consumi che allettavano gli appetiti di fasce sempre più ampie della popolazione producevano vittime51 obbligando gli Stati e le classi dirigenti ad occuparsene e a fronteggiare il seguito dei “guasti sociali” (alcolismo, aumento della criminalità, dei suicidi e della follia appunto) in modo molto più impegnativo di quando occorresse in una società fondamentalmente e stabilmente agricola52. In realtà molti dei processi che caratterizzavano i Paesi più avanzati si erano messi in moto in larga parte degli Stati italiani: “i folli aumentano in Piemonte [a causa dei] progressi della civilizzazione”, aveva annotato Brierre de Boismont53; nelle campagne del Nord del Paese la presenza della pellagra indicava mutamenti profondi in ambito agricolo nelle colture e nella conduzione dei fondi, e se è vero che di questi aspetti si prenderà piena coscienza dopo l’unificazione del Paese, è altrettanto vero che già prima della metà del secolo gli alienisti erano certi che la follia sarebbe aumentata anche in Italia54.

E fu proprio questa consapevolezza a stimolare ben presto gli alienisti italiani a intraprendere “viaggi scientifici” ed a visitare manicomi di altri Paesi.

1Hobsbawm (1999); per la psichiatria, Dörner (1975).

2In Inghilterra le statistiche dimostravano che tra il 1800 e il 1820 il numero dei folli era triplicato, (Halliday 1829); per la Francia, si veda il saggio di Esquirol, che aprì un dibattito epocale, in Esquirol (1838, vol. 2, 724 ssgg).

3Brierre de Boismont, (1839, 245).

4Cosmacini, (2015, 181-90)

5Semelaigne, (1912, 3)

6Moravia, (1989, 71)

7 Giacanelli, (1980, 166-67).

8Sava, (1845, 45-46).

9Anche Meriggi (1987) attesta l’influenza francese nei manicomi dello Stato Pontificio.

10Brierre de Boismont (1830, 179)

11Valentin, (1822, 34).

12Sul teatro come strumento di cura, vedi Galzigna (1992, cap. 3).

13Valentin (1822, 107).

14Ibid., 169.

15Roccatagliata, (1971).

16Brierre de Boismont (1830, 162).

17«Bollettino delle scienze mediche» (1833, 71).

18Ibid., 167, 169, 241, 246-47, 165, 233.

19Banzola, (2015, 25, 36-37)

20Valentin, (1822, 126 ssgg.)

21Brierre de Boisomnt, (1830, 180)

22Ibid., 178.

23Ibid.

24Ibid., 179.

25Cfr. Cosmacini (1984, 176-191).

261833, 60.

27Tra i molti esempi possibili, vedi G. Girolami (1864, 149).

28De Bernardi, (1984; 1987).

29Burrgraeve, (1867, 5)

30Alizeri, (1847, 887).

31Guislain (1840, 133).

32Ibid., 134.

33Ibid., 246.

34Ibid., pp. 247, 250-52.

35Dupallans, (2006, 61-62).

36Ibid., 58, 55, 50, 52, 40-46.

37Lee, (1835, 124).

38Gualandi (1823).

39Castiglioni (1857).

40Morel (1846, 45).

41Bianchi (1846, 119).

42Morel, (1846, 49).

43Ibid., 46.

44Cosmacini (2005, 287).

45Morel (1846, 48).

46Macanzie Bacon (1864, 399).

47Brierre de Boismont (1864, 351).

48Della Peruta (2009).

49Guislain (1840, 79).

50Basti pensare allo sviluppo, talvolta impressionante, di molte città, con tutto ciò che questo processo presuppone in termini di accumulazione di capitale, rifornimenti alimentari, collegamenti commerciali ecc.

51Thurnam (1845, 35): È […] generalmente riconosciuto che anche nella popolazione sana della maggior parte dei paesi, la prevalenza della malattia tra i poveri e la conseguente mortalità sono notevolmente maggiori di quanto non sia il caso tra le classi superiori e medie. Ma in particolare i quartieri manifatturieri del Lancashire e del West Riding nello Yorkshire e nelle popolazioni densamente affollate delle grandi città, la differenza nella salute e la mortalità dei poveri e dei ricchi rispetto a quella nei distretti agricoli più aperti è altamente probabile e eccessiva. Le testimonianze in questo senso sono facilmente moltiplicabili anche per altri Paesi.

52In Francia Bouchez, medico-capo del manicomio di Nantes, affermava che una delle cause generali del suo maggior sviluppo, e forse la sola, si è la lotta continua che l’uomo sostiene contro il suo simile nelle aspirazioni, negli appetiti, ne’ suoi istinti, nelle sue passioni. Questa lotta che produce tutti i beni della civilizzazione, quando è basata sull’intelligenza, nel suo sviluppo normale, sulla sensibilità, nelle sue applicazioni culturali, ne produce tutti i mali nelle circostanze contrarie e si comprende che la pazzia si è appunto uno di questi mali” (Annali universali di Medicina, 1849, 561-65); Giuseppe Girolami, alienista e direttore del manicomio di Pesaro, in una memoria incentrata su “La scienza e l’arte agraria nella loro relazione con la salute e la forza fisica e col morale perfezionamento”, letta nella seduta del 29 giugno 1863 della Società Agraria provinciale di Bologna (1864, 149), citava espressamente gli studi di Villermé per la Francia e di Bulwer per l’Inghilterra per evidenziare “la situazione fisica delle classi lavoratrici […] tanto lacrimevole da potersene a mala pena sopportare il pensiero”.

53Brierre de Boismont (1830, 227).

54Vedi le considerazioni che il direttore dell’ancor piccolo manicomio di Imola sottoponeva al Podestà di Lugo di Romagna nel 1846 in Banzola, cit., 54.

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