Stefano Ventura
Abstract
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Introduzione
La fragilità del territorio italiano è un argomento che torna periodicamente d’attualità quando si verificano eventi calamitosi più o meno importanti, dovuti alla sua conformazione geomorfologica e in parte anche all’“umana imprevidenza” (basti pensare alle numerose frane e ad alcune catastrofi recenti, come il crollo della diga del Vajont nel 1963).
Tra queste periodiche calamità un peso specifico particolare lo hanno ricoperto i terremoti; una larghissima parte del territorio nazionale, infatti, è a rischio sismico elevato; circa 23 milioni di italiani abitano in luoghi considerati a forte rischio sismico e ben 4610 comuni su 8112, cioè il 56,8%, sono in zona sismica (Pizzi 2006, 7; Del Vecchio, Pitrelli 2009, 50). In seguito alla revisione della sismicità del territorio nazionale, avviata grazie al Progetto finalizzato geodinamica varato dall’Istituto nazionale di geofisica (Ingv) dopo il sisma in Campania e Basilicata del 1980, i comuni collocati nella prima fascia di rischio sono passati da 1379 a 2802 – il 34% del totale – (Padoin 1988). Basti pensare che tutti i 409 comuni della regione Calabria sono ad alto rischio sismico1.
Continuando nei dettagli del rapporto tra la nostra penisola e i terremoti, basti pensare che in Italia in un anno si contano oltre un milione di terremoti piccolissimi e tra questi almeno un centinaio di rilevante magnitudo, cioè in media uno ogni tre-quattro giorni (Stella 2009, 1).
Nel corso del 2009, il terremoto che ha colpito la provincia dell’Aquila ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica italiana ed internazionale la vulnerabilità delle strutture abitative e delle comunità di fronte alle calamità naturali. Alcuni casi particolarmente dolorosi, come il crollo della casa dello studente a L’Aquila o il danneggiamento dell’ospedale San Salvatore, da poco aperto al pubblico, così come la distruzione di quasi tutti i palazzi pubblici più importanti (comune, prefettura, rettorato, facoltà universitarie e scuole) hanno provocato sconcerto e rabbia tra i sopravvissuti abruzzesi ed in tutta la comunità nazionale. Il fatto che il sisma si sia verificato in piena notte ha scongiurato, probabilmente, altre morti, proprio nei luoghi pubblici, che in teoria dovrebbero essere i più sicuri. Non è la prima volta che questo accade; purtroppo, anche in altri eventi sismici non è stata garantita l’incolumità dei cittadini; basti ricordare la morte di 27 bambini ed un’insegnante nel crollo della scuola elementare di San Giuliano di Puglia, il 31 ottobre 2002. Qual è il ruolo della cultura scientifica, e della storia per quel che ci compete, nel descrivere gli eventi del passato, renderli oggetto di ricerca ed analisi e trasformarli in utile monito per situazioni future?
Compito naturale dello storico è individuare, nella logica del lungo periodo, quali sono gli elementi che possono suggerire il cambiamento intervenuto in una comunità dopo una catastrofe o, al contrario, la continuità; per questo motivo diventa importante prendere in esame “il lento e lungo dopo che si ricrea”(Guidoboni 1900, 210).
Come chiarito da John Dickie e John Foot, nell’introduzione a Disastro! (2002), studiare una società dopo un disastro non vuol dire opporre il caos del dopo all’ordine del prima poiché un territorio è sempre risultato di equilibri complessi. Tra lo spettro delle infinite possibilità, studiare quali sono le reali scelte adottate è il compito della storia. In sostanza, il terreno di indagine della storia è il lungo periodo, sia essa storia sociale, economica, politica o culturale.
Tra gli storici che in Italia hanno dedicato più attenzione al tema dei terremoti va ricordato Augusto Placanica (1985). Placanica, parlando del terremoto calabrese del 1783, intese raccontare attraverso gli occhi dei protagonisti (intellettuali, uomini di cultura, ecclesiastici, scienziati, definiti genericamente “filosofi”) come ci si poneva di fronte all’evento. La motivazione di questa scelta sta nel fatto che questa impostazione poteva più facilmente aiutare a rispondere alla domanda di fondo che lo storico si pone, e cioè: cosa ha rappresentato quel terremoto per la coscienza dell’epoca? Placanica individuava anche una cesura che si poteva collocare nel XVIII secolo, in corrispondenza con il terremoto di Lisbona del 1755. Mentre i terremoti dell’antichità e del Medioevo costituivano un forte fattore di sconvolgimento delle realtà sociali, portando chi aveva beni materiali a perderli e chi non li aveva a poter cogliere nuove possibilità, dopo il Settecento i terremoti non hanno fatto altro che accelerare processi già in essere; ad esempio, dopo i terremoti settecenteschi, Placanica ha mostrato il modo in cui la borghesia, già avviata verso ruoli più decisivi nelle società occidentali, accelerò la sua ascesa, sfruttando la propria posizione ai danni del clero – in Calabria, i Borbone colsero l’occasione del terremoto per espropriare alla Chiesa i proventi della Cassa Sacra e usarli per i terremotati – (Pappalardo 1984, 128-129).
Negli anni Ottanta la storiografia si è interrogata più insistentemente sul perché la storia dei disastri ricoprisse un ruolo marginale nel panorama complessivo della ricerca storica. Bevilacqua, in un saggio del 1981, riteneva che “l’esclusione di questo strano evenement che è il terremoto dall’economia della ricerca storica, rientra nella più generale rimozione della dimensione territoriale che la storiografia ha consumato fino a poco tempo fa” (Bevilacqua 1981, 182). I motivi che Bevilacqua individuava erano la portata locale dell’evento sismico, che raramente può coinvolgere nel suo dramma territori coincidenti con Stati nazionali, e l’irrazionalità, l’azione di disturbo che un evento inatteso e non preventivabile, come un terremoto, opera sul continuum storico (Bevilacqua 1981, 185; 2005). Una storica che ha dedicato i suoi studi ai terremoti e agli altri fenomeni geologici, in rapporto alla storia (tanto da collaborare con l’Istituto nazionale di geofisica alla redazione del catalogo dei forti terremoti italiani, edito nel 1997) è Emanuela Guidoboni; secondo questa studiosa, le difficoltà nello studiare i terremoti vengono dalla necessità di relazionarsi con molte altre discipline e quindi la conseguente necessità di abbandonare le metodiche tradizionali per adottare gli strumenti dell’interdisciplinarietà (Guidoboni 1990, 210).
Sempre negli anni Ottanta, per mano dello storico tedesco Arno Borst, fu pubblicato un saggio sul terremoto che colpì la Carinzia nel 1348. Nell’introduzione a quel saggio, Borst ha sostenuto che la modernità, facendo aumentare la fiducia dell’uomo nel suo dominio sulla natura, lo ha spinto ad un atteggiamento aggressivo di autoaffermazione nei confronti della natura stessa. Quindi “se oggi sopravviene un cataclisma, esso viene discusso dall’opinione pubblica con toni così accesi, come se in passato non ne fossero mai avvenuti. Poi il suo ricordo viene precipitosamente scacciato dalla coscienza collettiva, come se simili eventi non dovessero più verificarsi” (Borst 1988).
Più di recente altri contributi hanno indagato il rapporto tra storia e terremoti, soffermandosi su alcuni casi specifici. John Dickie ha pubblicato lo scorso anno, in corrispondenza con l’anniversario del terremoto di Messina del 1908, un volume in cui si indaga l’evoluzione del sentimento nazionale in occasione di quella calamità (Dickie 2008). Sullo stesso evento è stato pubblicato uno studio, scaturito da una tesi di dottorato, in cui lo studioso, Andrea Noto, punta l’attenzione sul modo in cui si reagisce emotivamente e culturalmente ad una catastrofe (Noto 2009). Sempre in occasione del centenario del sisma di Messina, l’Istituto nazionale di geofisica ha organizzato un convegno a Reggio Calabria nel mese di dicembre 2008, pubblicandone poi gli atti2.
In seguito al terremoto dell’Abruzzo è stato pubblicato, a cura di un architetto friulano, Giovanni Pietro Nimis, un volume che affronta in una rapida carrellata i terremoti più recenti della storia italiana (Nimis 2009). Proprio in questo volume l’autore, di fronte al crollo di palazzi ed edifici che avrebbero dovuto garantire l’incolumità pubblica, si chiede perché le catastrofi siano oggetto di una rimozione collettiva ed individuale già pochi anni dopo il loro accadere. La risposta che lo studioso friulano si dà è di due tipi: una rimozione collettiva, “necessaria per voler continuare ad abitare la terra”, e la seconda, individuale, che riguarda la rinuncia a comunicare l’esperienza, “un po’ come i reduci dei campi di concentramento, dove avevano sperimentato la rabbia di vivere e l’istinto animale necessario a sopravvivere ad una stagione che segnava per sempre la loro vita”, di fronte ad un terremoto si rimane passivi, sbigottiti, proiettati, nello stesso momento, all’origine e alla fine del mondo” (Nimis 2009, 10-11).
Si è recentemente tentato di sperimentare questo parallelismo attraverso una serie di interviste ad alcuni sopravvissuti di uno dei comuni più colpiti in seguito al terremoto del 1980; il risultato è stato quello di verificare come il momento della catastrofe sia rimasto marchiato a fuoco nella memoria di chi lo ha vissuto, sia esso stato un bambino, una donna, un adulto, se avesse o meno subìto la perdita di persone care.
Di certo, quello della memoria individuale e collettiva è un terreno di indagine storiografica ricco e pieno di suggestioni, anche se ha molti aspetti delicati da affrontare, non fosse altro perché si chiede alle persone di scavare nella propria memoria per evocare momenti dolorosi della propria esistenza.
Il lungo cammino della Protezione civile in Italia
Nonostante la congenita fragilità di fonte alle calamità naturali ed antropiche, l’Italia non ha adottato se non in tempi recenti un moderno sistema di protezione civile, con una legge di riferimento ed una suddivisione precisa di ruoli e competenze. Sin dal periodo successivo all’Unità d’Italia fu chiaro ai vari governi ed ai legislatori che si dovesse creare un’apposita serie di competenze, da collocare in un regime extra ordinem che si occupasse della gestione di casi calamitosi o emergenziali. Le competenze furono affidate ai sindaci ed ai prefetti, cui venivano affidati poteri speciali nei casi di particolare emergenza. D’altronde già nella legislazione degli stati preunitari si notano norme specifiche per le emergenze.
Dopo il terremoto di Messina ed il primo conflitto mondiale si pensò di costituire un servizio permanente di intervento ed assistenza alla popolazione e di predisporre un sistema che fosse composto da componenti in grado di essere efficaci in modo autonomo. Il terremoto del 1920 in Garfagnana avviò un dibattito sulla prevenzione, in seguito al quale il territorio nazionale, nel 1927, fu diviso in due categorie sismiche; nel 1935 (decreto 640) furono varate nuove norme per costruire in territorio sismico e si cominciò a parlare di una forza che possa intervenire sempre in caso di calamità. Nel 1920 fu il ministro dei Lavori Pubblici ad essere designato per i primi interventi in caso di calamità, mentre le prefetture si dovevano occupare dei soccorsi sanitari; restava, tuttavia, il problema del comando, visto che il ministero dei Lavori pubblici non possedeva le caratteristiche adatte ad intervenire prontamente. Nel 1928 tale incarico passò ai prefetti, nel 1931 il soccorso in emergenza fu inserito nelle leggi di pubblica sicurezza, con un passaggio di competenze al ministero dell’Interno; la protezione civile rientrò quindi nelle prerogative dell’ordine pubblico, arginando la confusione di ruoli tra prefetti ed altri incarichi. La vera novità, però, nella prima metà del secolo, fu la nascita del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco nel 1941 (Olivieri 2007).
Dopo la seconda guerra mondiale venne istituita presso il ministero dell’Interno la Direzione generale per l’assistenza pubblica, con compiti prevalentemente di aiuto alla popolazione nella fase post bellica e di difesa civile; è del 1950 un disegno di legge concernente le disposizioni per la protezione civile in caso di guerra o di calamità – Difesa civile – (Padoin 1988, 14).
Nel 1961 fu riordinato il Corpo nazionale dei Vigili del fuoco e l’ordinamento generale dei servizi antincendio; i disegni di legge governativi continuavano ad essere presentati in varie occasioni (1951, 1956, 1962, 1968), tutte le volte senza fortuna. In seguito ad una serie di eventi calamitosi naturali e causati dall’uomo (1963, frana del Vajont; 1966, alluvione di Firenze; 1968, terremoto nel Belice) fu presentata in parlamento nel 1970 la prima legge organica del periodo repubblicano, denominata norme sul soccorso alle popolazioni colpite da calamità (legge n. 996). Nonostante la presentazione di questa legge, ci vollero altri due terremoti dalle gravi conseguenze (in Friuli nel 1976 ed in Campania e Basilicata nel 1980) per approvare nel febbraio 1981 un regolamento attuativo che potesse garantirne l’efficacia. Ma ormai quella legge era già superata e non vi erano tracce di un sistema nazionale che si occupasse di protezione civile.
In questi anni uno dei principali protagonisti del settore fu l’on. Giuseppe Zamberletti, prima da sottosegretario alla Protezione civile nel governo Moro e poi da commissario straordinario per il terremoto del Friuli e per quello dell’Irpinia. Per avviare i lavori di stesura di una nuova legge, Zamberletti individuò alcuni elementi che potevano rappresentare i punti innovativi di una legge sulla protezione civile:
– istituire un organismo permanente di coordinamento;
– inserire la previsione e la prevenzione accanto alla protezione civile;
– assicurare la partecipazione degli enti locali periferici (regioni, province e comuni);
– riconoscere il volontariato come una componente del Servizio nazionale della Protezione civile.
Il 5 febbraio 1982 il decreto legge 3140 venne presentato alla Camera; nella relazione introduttiva si sottolineava da un lato la novità della creazione di un assetto permanente per il Sistema nazionale di Protezione civile, dall’altro l’obiettivo che la legge si pose fu quello di creare una struttura preesistente a qualsiasi evento. In sostanza, le innovazioni illustrate da Zamberletti vennero accolte ed inserite nella legge che però, a causa della fine anticipata della legislatura, non fu approvata. Bisognerà aspettare il 31 luglio 1990 affinché, dopo varie legislature, crisi di governo e dibattiti di carattere tecnico e di merito, la legge venga approvata dalla Camera. Ma i problemi non erano finiti: il presidente della Repubblica, Cossiga, in base all’art. 74 della Costituzione, chiese una nuova deliberazione perché la legge attribuiva particolare rilevanza al ministro senza portafoglio e creava sovrapposizioni di ruoli fra ministro dell’Interno e ministro per la Protezione civile. Inoltre da pochi mesi era attiva la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle zone terremotate di Campania e Basilicata che avrebbe sicuramente apportato ulteriori suggerimenti per nuovi interventi legislativi. Il parlamento, dopo aver riesaminato e riformulato il testo, lo approvò il 24 febbraio 1992 ed il testo diventò legge con la dicitura: Istituzione del Servizio Nazionale di Protezione civile (legge n. 225/92).
Questo testo ridusse il ministro per la Protezione civile ad un ruolo di coordinamento; l’attività complessiva di protezione civile era articolata sulla previsione degli eventi, sulla loro prevenzione, sul soccorso e sul superamento dell’emergenza, mentre venivano puntualmente definite le competenze delle regioni, delle province, dei prefetti, dei comuni e dei sindaci. Anche il potere di ordinanza “in deroga ad ogni disposizione vigente” è stato regolamentato in un quadro definito di competenze, così come la funzione della direzione generale della protezione civile (istituita presso la presidenza del Consiglio) e della direzione generale del ministero degli Interni. Nella legge era previsto l’obbligo per gli enti locali di stilare piani di prevenzione e di emergenza sia di carattere provinciale che comunale, in modo tale che in occasione di calamità fossero già note le aree per il concentramento della popolazione e chi, a livello comunale, doveva avere ruoli di responsabilità. Con la legge 401 del 2001 fu ulteriormente definito il passaggio di competenze e di coordinamento a regioni ed enti decentrati e scomparve il ministero o il sottosegretariato per la protezione civile, le cui competenze furono assegnate al capo dipartimento della Protezione civile, direttamente collegato alla presidenza del Consiglio.
Attualmente, come riportato sul sito della Protezione civile, il sistema nazionale italiano, con tutte le sue associazioni di volontariato, è in grado di mobilitare circa 1,2 milioni di persone per eventi catastrofici o grandi emergenze di massa; in Irpinia nel 1980, secondo l’allora vicepresidente della Commissione difesa della Camera, il socialista Falco Accame, erano stati mobilitati solo 10mila uomini, escludendo i volontari che non rientravano in nessun sistema organizzato di intervento.
Secondo la definizione che Zamberletti usa per descrivere i principi ispiratori delle riforme nel settore, “la protezione civile è ogni comune che diventa caposaldo, ogni villaggio che diventa elemento attivo di protezione civile e non solo un’organizzazione centralizzata, meravigliosa, taumaturgica, che piomba sul territorio a salvare la gente quando è in pericolo. È la gente che si aiuta a proteggersi, ed a preservarsi la vita e tutelare i suoi beni” (Pizzi 2006).
Dopo aver affrontato alcune questioni storiografiche ed aver brevemente tracciato le linee storiche della legislazione italiana in materia di pubblica incolumità e protezione civile, si cercherà ora di narrare attraverso esempi concreti il modo in cui il nostro paese, attraverso errori ed inadempienze ma anche esperienze fattive, è arrivato a dotarsi dell’odierno sistema di Protezione civile.
Belìce (1968)
Il 14 gennaio 1968, alle ore 13, una scossa del 9° grado della scala Mercalli interessò un’area della Sicilia Occidentale, in provincia di Trapani ed al confine con la provincia di Agrigento. Nella notte successiva, alle 3 e 20, un’ulteriore scossa aggravò gli effetti della prima. I comuni più colpiti erano di medie e piccole dimensioni – il più grande era Salemi, con 15mila abitanti, gli altri erano Gibellina, Salaparuta, Menfi, Partanna, Santa Ninfa, Santa Margherita Belice, Contessa Entellina – (Pappalardo 1994, 332). Le vittime furono 360, con circa 57mila senzatetto su una popolazione totale di 96mila abitanti (Nimis 2009, 42). I paesi colpiti erano in gran parte poveri, con una popolazione dedita all’agricoltura e con forti indici di emigrazione.
La prima fase dell’emergenza fu contraddistinta dal caos e dalla disorganizzazione dei soccorsi, tanto che per alleggerire le aree colpite dai senzatetto venne favorito l’esodo attraverso la distribuzione di biglietti ferroviari di sola andata per l’estero ed aerei per Australia ed America del Nord e del Sud. Nei primi giorni furono circa 40mila i biglietti ferroviari distribuiti agli sfollati; il governo australiano offrì un lavoro ed un buono per il viaggio a chi voleva recarsi in quello stato.
I soccorsi arrivarono in ritardo e in modo caotico; il primo ad arrivare sui luoghi del disastro fu l’on. Moro, al quale la gente chiedeva medicine, latte e coperte. Il giorno dopo fu il presidente Saragat a recarsi sui luoghi del disastro, ma i soccorsi ed i generi di conforto ancora non erano arrivati, causando di conseguenza la contestazione dei terremotati al capo dello Stato.
Il 25 gennaio ci fu un’altra scossa e questa volta la solidarietà delle associazioni di volontariato si fece trovare pronta; Caritas, Croce Rossa, Lions Rotary, associazioni cattoliche, organi di stampa avviarono sottoscrizioni e raccolte di denaro per i terremotati (Barbera 1980, 18-27). Tuttavia, furono numerosi i casi di amministratori ed anche parroci, cosi come di privati cittadini, che approfittarono del caos per appropriarsi del denaro e del materiale destinato ai terremotati; nelle settimane seguenti, dopo aver affidato all’Ispettorato generale per le zone terremotate i compiti della gestione dell’emergenza, furono installate dall’esercito e dai volontari tendopoli, mense ed ospedali da campo. Tutti i soccorsi erano resi più difficili dalle cattive condizioni atmosferiche, che rendevano ancor più disagiata la situazione degli sfollati.
Un racconto di come andarono le prime ore e i primi giorni successivi al sisma è disponibile in un saggio di Michele Rostan (1998), in cui si analizza dal punto di vista socio-economico il modo in cui il comune di Santa Ninfa subì o gestì i cambiamenti indotti dal terremoto. In questo saggio si dice che i primi soccorsi giunsero a Santa Ninfa nel pomeriggio del 16 gennaio, grazie ad alcune unità di esercito e polizia. La mattina del 17 fu installata la prima tendopoli, mentre dal 18 in poi si registrò un arrivo cospicuo di beni di prima necessità ed arrivarono i primi gruppi di volontari organizzati, da Verona e Scandicci. La fine dell’emergenza vera e propria, con la risoluzione dei principali problemi igienico-sanitari, si ebbe verso la fine di marzo; l’installazione delle baracche e la creazione delle 4 aree destinate ad ospitare le baraccopoli si avviò a maggio ed andò avanti sino all’inverno (Rostan 1998, 101-106).
I primi decreti e le leggi regionali per la ricostruzione furono discusse ed approvate tra il febbraio 1968 ed il dicembre 1969, mentre la legge per la ricostruzione, la n. 241, fu approvata dal parlamento il 18 marzo 1971. Lo Stato adottò un’impostazione centralistica, credendo di poter gestire direttamente da Roma la ricostruzione. Questa sarà l’ultima esperienza di questo tipo perché, in seguito, con l’istituzione delle regioni, i governi preferirono decentrare alle regioni ed agli enti locali (sindaci in particolare) le funzioni principali della ricostruzione.
Le popolazioni del Belice cercarono di far sentire la propria voce contro la lentezza delle decisioni e l’estraneità al contesto locale che molte volte le ipotesi di ricostruzione avevano in sé: ci furono alcune forme forti di protesta, come la renitenza alla leva ed un mese di picchettaggio dei terremotati a Roma, in piazza Montecitorio. Dai comitati spontanei dei terremotati, che si ponevano in stretta relazione con i centri di ricerca avviati in Sicilia negli anni precedenti da Danilo Dolci e dai suoi collaboratori (Lorenzo Barbera in particolare per la zona del Belìce), nacquero poi alcune cooperative, in particolare nel settore edilizio e agricolo, che contribuirono alla ricostruzione; tuttora uno di questi centri di ricerca, il Cresm (Centro ricerche e studi sul Mezzogiorno) è attivo nel campo della promozione sociale con progetti di sviluppo territoriale.
Un ruolo simbolico in questo evento lo ricopre il comune di Gibellina, uno dei più colpiti; il vecchio centro abitato fu abbandonato, abbattuto con la dinamite e poi coperto dal “Cretto” ideato da Alberto Burri, mentre il nuovo centro (Gibellina la Nuova) fu ricostruito 18 chilometri a valle grazie al contributo di architetti ed artisti di fama nazionale ed internazionale.
La ricostruzione ebbe tempi lunghi; nel 1976 si rese necessaria una nuova legge di rifinanziamento e di nuovo indirizzo per accelerare la ricostruzione, visto che sino ad allora ancora 47mila persone erano alloggiate in baracche, la cui installazione era stata alquanto costosa (alcuni calcolarono che per installare le baracche erano necessarie circa 40mila lire al metro quadro, quasi quanto ci voleva all’epoca in Sicilia per la costruzione di una casa in muratura) (Cagnoni 1976, 63). La ricostruzione in Belice si poté dichiarare conclusa non prima della fine degli anni ’90, a 30 anni circa di distanza. La gestione urbanistica fu abbastanza irrazionale, secondo alcuni, poiché impiego un numero altissimo di tecnici, provenienti da ogni parte d’Italia, ed il principio privilegiato fu quasi ovunque la delocalizzazione. Molti dei paesi più colpiti hanno mutato profondamente le proprie caratteristiche passando visivamente, in pochi anni, da paesi agricoli a scenari postmoderni; tra i risvolti positivi del periodo della ricostruzione è da segnalare la nascita di un fiorente tessuto di piccole imprese e cooperative attive nel settore vitivinicolo.
Friuli (1976)
Il 6 maggio 1976, alle 21, una scossa del 6,4 della scala Richter colpì vaste zone del Friuli, tra le province di Udine e Pordenone; i comuni più colpiti furono Gemona, Venzone, Bordano, Artegna, Buia, Osoppo e Forgaria. A questa scossa il 15 settembre dello stesso anno ne seguì un’altra (6.1 scala Richter); in totale, i morti furono 939, i senzatetto circa 80mila.
L’arrivo dei soccorsi nel caso del terremoto friulano, fu più celere poiché circa 18 battaglioni dell’esercito si trovavano nell’Italia nord orientale; quei militari e quelle caserme che avevano subìto danni minori si mobilitarono prontamente per portare soccorso alle popolazioni.
La mattina del 7 maggio si recarono nella zona il presidente del Consiglio Moro ed il ministro dell’Interno, Cossiga, che decisero di affidare urgentemente al sottosegretario alla protezione civile, Zamberletti, il ruolo di commissario straordinario per l’emergenza. Anche se la presenza dei militari garantiva un discreto numeri di uomini, la confusione era grande; tutte le richieste passavano per il commissariato ospitato nella prefettura di Udine; Zamberletti decise allora di creare dei centri di coordinamento comunali e di zona, affiancando ai sindaci gli ufficiali dell’esercito (Pizzi 2006, 32-36).
Dopo la scossa i senzatetto avevano trovato rifugio nei vagoni ferroviari, nelle tendopoli, nelle roulottes. I friulani lanciarono lo slogan “dalle tende alle case”, sperando di poter presto ricostruire o riparare le proprie abitazioni, anche se i problemi di ordine urbanistico ed il numero di sfollati rendeva di difficile attuazione questa ipotesi; nel frattempo si erano scelte le case prefabbricate e non le baracche per la fase transitoria.
La scossa di settembre, che aveva causato nuovi danni e rallentato di nuovo il ripristino della normalità, convinse il commissario, che era stato rinominato dopo un periodo di interruzione e un cambio di governo (da Moro ad Andreotti), ad optare per l’arretramento dei senzatetto nelle località balneari della costa. La poca distanza permetteva anche a chi voleva riavviare la propria attività, ma anche agli agricoltori ed agli operai, il pendolarismo, in modo tale da non subire del tutto l’estraneità dai luoghi d’origine. Gli evacuati furono 26.520 e furono ospitati in 5 centri balneari e nella località montana di Ravascletto (Geipel 1979, 76).
Il piano di sgombero dalle zone colpite e di ospitalità nei centri balneari restò in vigore fino al mese di aprile 1977; nel frattempo vennero approntate le aree di insediamento provvisorio dei prefabbricati e fu definito un piano di recupero edilizio per le case che avevano subito danni minori.
Dal punto di vista legislativo e di indirizzo, la ricostruzione friulana fu caratterizzata da un forte decentramento delle responsabilità a favore della regione e degli enti locali, comuni in primis; questa fu una novità nel campo della gestione delle ricostruzioni, visto che da qualche anno erano state istituite le regioni ed il Friuli Venezia Giulia godeva anche dei privilegi di regione a statuto speciale. Furono comunque molti i fattori che hanno influenzato positivamente la ricostruzione del Friuli rispetto a quelle di Belice ed Irpinia; schematicamente si possono così sintetizzare:
1) la cospicua presenza militare nell’area;
2) la presenza di buone vie di comunicazione;
3) Udine, la città capoluogo di regione, non fu colpita;
4) la presenza di alberghi e conseguentemente la disponibilità immediata di numerosi posti letto per ospitare i senzatetto (Geipel-Pohl-Stagl 1990).
In cinque anni la metà dei senzatetto ebbe già una sistemazione definitiva (39mila su 80mila); nel 1985, invece, i senzatetto ospitati nei prefabbricati erano circa 20mila, di cui alcuni erano occupanti senza titolo. La ricostruzione, quindi, era andata avanti velocemente, favorita dal decentramento delle decisioni e dal fatto che la responsabilità era in gran parte affidata ai comuni, in modo tale da favorire scelte idonee caso per caso e controllabili dalla popolazione, che impostò la ricostruzione sul principio del “fare da soli”. Inoltre, la relativa omogeneità del territorio permise una gestione migliore della pianificazione. In Friuli tutte le risorse, compresi i risparmi privati, furono convogliati verso la ricostruzione abitativa lasciando poco spazio alle opportunità di speculazione, molto più attratte dalle grandi opere.
Campania e Basilicata (1980)
Il 23 novembre 1980, alle 19 e 34, una scossa di magnitudo 6,8 della scala Richter, della durata di 90 secondi, interessò una vasta area dell’Appennino meridionale, tra Campania e Basilicata. I morti furono 2.914, 8.850 i feriti ed oltre 400mila i senzatetto. Le province più colpite erano quelle di Avellino, Salerno e Potenza, ma questo sisma è passato alla memoria dell’opinione pubblica come terremoto dell’Irpinia.
La reale proporzione degli effetti del terremoto non fu subito percepita dal resto della popolazione italiana e dai mezzi di comunicazione; infatti, i primi telegiornali parlarono di un terremoto di lieve entità e situavano l’epicentro, in vari casi, ad Eboli o a Rionero in Vulture, a molti chilometri di distanza dall’epicentro reale. Se si esaminano i titoli dei quotidiani del 24 novembre e dei giorni successivi si nota un’escalation drammatica nei toni usati nei titoli e negli articoli. La sottovalutazione del danno effettivo contribuì al ritardo dei soccorsi e ad indirizzarli su zone meno colpite.
Tuttavia, tra i fattori che causarono il ritardo dei soccorsi e l’isolamento anche per 24 ore di intere comunità terremotate fu la difficile dislocazione dei mezzi dell’esercito, sia a causa delle asperità morfologiche delle aree colpite, dotate di scarse vie di comunicazione ed in condizioni atmosferiche più difficili, e la struttura organizzativa dell’esercito, che al Sud era sprovvisto di reparti specializzati per intervenire nei casi di calamità. I più pronti ad intervenire furono i Vigili del fuoco, che avevano a disposizione squadre composte da pochi uomini e mezzi più agili per accedere alle zone colpite. La reale proporzione delle conseguenze del sisma fu chiara ai generali dell’esercito solo quando la mattina del 24 novembre fu sorvolata in elicottero l’area colpita e si mostrò ai loro occhi uno scenario di interi paesi completamente rasi al suolo dalla potenza del sisma. Molte volte i militari, in gran parte soldati di leva, arrivavano nei paesi terremotati senza mezzi per scavare ed estrarre i corpi dalle macerie. In moltissimi casi, prima dei mezzi di soccorso dello Stato, arrivarono gli emigranti e i volontari.
Nei giorni successivi le polemiche sui soccorsi riguardarono in particolare il ministro dell’Interno, Rognoni, che la sera del 23 novembre non aveva convocato d’urgenza le strutture del ministero; il 26 novembre in seguito all’intervento in tv del presidente della Repubblica, Pertini, che faceva una dura requisitoria sulle gravi responsabilità nei ritardi chiamando le istituzioni ad una assunzione di responsabilità, il Prefetto di Avellino venne rimosso ed il ministro Rognoni presentò le dimissioni, che tuttavia vennero rifiutate dal presidente del Consiglio Forlani.
L’area interessata dal sisma era molto più vasta di quella del Friuli e del Belìce, facendo di questo sisma l’evento catastrofico più grave del secondo dopoguerra. I comuni colpiti in modo significativo erano circa 130, con una popolazione coinvolta di circa 6 milioni di abitanti (considerando anche i danni che riguardarono la città di Napoli ed il suo patrimonio abitativo storicamente fatiscente. Su questo argomento ci sarebbero da fare alcune precisazioni, poiché una parte significativa delle abitazioni danneggiate dal sisma a Napoli erano in condizioni allarmanti già prima della scossa).
Dopo i primi giorni di caos si attivò un moto di solidarietà sia per il numero di volontari che da tutta Italia e dall’estero giunsero nell’area sia per la mole di aiuti materiali ed economici che giunsero nelle zone terremotate. Il 24 novembre il Consiglio dei Ministri assegnò il ruolo di commissario straordinario di nuovo all’on. Zamberletti, che stabilì a Napoli (a circa 150 chilometri di distanza dall’epicentro) un Centro operativo commissariale (Coc), con la partecipazione dei rappresentanti delle amministrazioni locali e delle forze armate. Alle dipendenze del Coc dovevano operare i Centri provinciali ed i Cos (Centri operativi di soccorso), presenti con maggiore diffusione in un congruo numero di paesi e che avevano il compito di coordinare sia i soccorsi statali e militari che il volontariato. Ma la decisione operativa destinata ad avere maggior peso era quella di affiancare al sindaco, inteso come figura incaricata di guidare e coordinare nel suo territorio le operazioni di soccorso, un ufficiale dell’esercito. Un passaggio organizzativo immediatamente conseguente doveva essere quello dei gemellaggi, cioè l’affidamento alle regioni di un’area ben definita in cui operare.
In questa ottica, dopo i primi giorni di caos, gli interventi di soccorso, ed in particolare i numerosi gruppi di volontari provenienti dall’esterno, furono indirizzati in base alle aree di competenza delle regioni di provenienza, in una prospettiva di medio e lungo periodo che non fosse la semplice gestione dell’immediata emergenza ma anche la realizzazione di progetti per la ricostruzione ed un supporto tecnico di uomini ed esperienze alle comunità colpite. L’esperienza dei gemellaggi fu uno degli elementi più positivi che contraddistinse la cosiddetta “prima emergenza”, cioè il periodo che va dalla scossa all’installazione dei prefabbricati. Le collaborazioni ed i progetti, poi, continuarono per diversi anni, assumendo anche forme più organizzate: da segnalare, ad esempio, l’avvio di un significativo numero di cooperative, una forma organizzativa sino ad allora quasi estranea all’area terremotata.
Nelle settimane successive al sisma, le polemiche non si placarono e coinvolsero gli stati maggiori dell’esercito, individuati come responsabili dei ritardi (anche se va di nuovo specificato che nessuna legge operava nel settore della protezione civile nello stabilire competenze e priorità). Come affermò il comandante dei Vigili del fuoco di Roma, Elveno Pastorelli, giunto in Irpinia già nella nottata del 23 novembre, “se in Friuli dopo due giorni c’erano 20mila soldati, in Irpinia ce n’erano 4mila”. Una grossa mano venne dai soccorsi internazionali, in particolare dalla Germania, che inviò subito un battaglione di circa 650 uomini, e da gruppi delle forze armate francesi specializzati nel soccorso ai feriti sotto le macerie e nel recupero dei cadaveri. Dopo una settimana gli uomini dell’esercito e delle Forze armate mobilitati erano circa 30mila, ma nei casi di eventi catastrofici improvvisi, come i terremoti, sono le prime ore quelle decisive per il salvataggio delle vite umane; questo concetto è stato individuato, negli anni successivi, come caposaldo della legislazione di Protezione civile per creare un sistema capillare e diffuso che parte dai sindaci e dalle associazioni del territorio per arrivare ai vertici nazionali del dipartimento di Protezione civile.
Uno dei problemi più urgenti che il commissario si trovò di fronte fu la sistemazione dei senzatetto, visto che né le tende né le baracche e le roulotte potevano rappresentare una collocazione idonea per affrontare il rigido inverno delle zone interne. La proposta di Zamberletti anche in questo caso aveva radici in quello che era accaduto in Friuli: spostare le famiglie dei terremotati, dando la precedenza a bambini ed anziani, in alberghi e seconde case collocate sul litorale campano e pugliese, al fine di avvantaggiare le operazioni di sgombero dalle macerie dei paesi, riparare le case che avevano subito danni lievi, impiantare i primi prefabbricati leggeri ed aspettare che trascorresse la stagione più fredda. Per far fronte al numero cospicuo dei senzatetto, Zamberletti ordinò ai prefetti di censire anche le seconde case poste sul litorale campano, in particolare nella zona a nord di Napoli, per destinarle temporaneamente alle famiglie prive di alloggio, causando le immediate proteste dei proprietari delle seconde case.
Tuttavia la distanza che separava le zone interne di Campania e Basilicata dalle coste era maggiore rispetto alle zone terremotate del Friuli e molti degli abitanti di questi paesi erano contadini che non accettavano in nessun modo di separarsi dal proprio bestiame o dalla propria terra. In definitiva questo piano, che prevedeva di spostare tra i 170mila ed i 250mila sfollati, permise di alloggiare sulla costa solo 20.900 senzatetto, dei quali solo pochissimi provenivano dai paesi dell’entroterra più colpiti.
Col passare dei mesi il dialogo tra Zamberletti ed i sindaci, ai quali erano state affidate diverse responsabilità nella gestione dell’emergenza, portò a risoluzione i vari problemi che la situazione d’emergenza creava ed ai comuni disastrati venne chiesto di individuare le aree in cui far sorgere gli insediamenti provvisori dei prefabbricati, in parte finanziati con fondi statali ed in parte donati dalla solidarietà nazionale e internazionale. Ogni comune, poi, poteva scegliere le soluzioni abitative provvisorie che riteneva migliori tra le ditte accreditate dal commissariato. Tra il mese di marzo del 1981 e la fine dell’anno quasi tutti i senzatetto passarono dalle tende ai prefabbricati. Non va dimenticato, però, parlando dei senzatetto, che molti di essi preferirono lasciare temporaneamente le zone colpite per essere ospitati dagli emigranti e dai conoscenti sparsi in altre zone d’Italia e d’Europa (Svizzera, Germania e Belgio in particolare); nei primi mesi furono circa 130mila gli sfollati che scelsero questa opzione3. La legge per la ricostruzione delle aree terremotate fu varata nel maggio 1981; tra le principali decisioni vi era l’obbligo per i comuni disastrati di adottare piani urbanistici completi prima di iniziare a riparare e ricostruire le abitazioni. Le abitazioni rurali, invece, potevano essere ricostruite subito. Fu stilato un capitolo apposito di legge per Napoli, che prevedeva la costruzione di 20mila nuovi alloggi. L’aspetto più interessante della legge, tuttavia, fu nella parte dedicata alla “rinascita” delle aree colpite; fu previsto un intervento industriale che avrebbe creato 20 nuove aree tra le province di Salerno, Avellino e Potenza, con le relative bretelle stradali ed autostradali di collegamento e le relative infrastrutture.
Nei primi mesi accadde anche un fatto amministrativo che condizionò inevitabilmente l’andamento della ricostruzione; i comuni inseriti nelle tre fasce di danno passarono in breve tempo da 316 a 643, in seguito alle pressioni politiche trasversali. Inoltre, i primi fondi statali andarono proprio nei paesi meno danneggiati, che non avevano necessità di adottare i piani urbanistici complessi, e non venne stabilito nessun criterio di priorità nelle riparazioni se non la data di presentazione delle domande (chi presentava prima la domanda di finanziamento, attraverso una perizia giurata, riceveva per primo i fondi). Già questa gestione fece lievitare i finanziamenti statali necessari alla ricostruzione, per di più penalizzando i comuni disastrati. Nel corso degli anni, però, fu il piano di sviluppo industriale a richiedere il maggior impegno finanziario; all’inizio erano stati previsti circa 14mila posti di lavoro nelle 243 aziende di nuovo conio. Negli anni Duemila i posti di lavoro effettivamente creati erano circa 6mila, con sole 57 aziende ancora presenti nelle aree industriali ormai quasi deserte. Anche la ricostruzione urbanistica è stata improntata su progetti sovradimensionati rispetto alle realtà sociali delle aree colpite.
Tutti questi temi sono stati oggetto di polemica politica e giornalistica alla fine degli anni ’80 e negli anni a seguire, permettendo ai movimenti politici settentrionali di mettere sotto accusa la classe politica meridionale che aveva gestito la ricostruzione. Nel 1989 fu istituita anche una Commissione parlamentare d’inchiesta guidata da Oscar Luigi Scalfaro. Tuttavia non si segnalano inchieste giudiziarie complessive che abbiano colpito i responsabili degli sprechi e del malaffare avviati con la ricostruzione del dopo terremoto.
Il terremoto del 1980, oltre che per queste polemiche politiche, ebbe almeno due effetti significativi per la storia delle regioni del Meridione d’Italia; il primo effetto fu la crescita della camorra, che si avvalse della gestione degli appalti per la ricostruzione per accrescere il proprio peso in particolare nell’area metropolitana di Napoli ed a Caserta (l’area più colpita rimase parzialmente immune dalle mire malavitose dei clan). Il secondo effetto importante ha riguardato il cambio di paradigma nell’intervento straordinario nel Sud. Nel 1980 la Cassa per il Mezzogiorno era in crisi e già si pensava a come sostituirla; il terremoto permise di continuare ad erogare cospicui finanziamenti “stra-ordinari” grazie al lavoro del cosiddetto “partito unico della spesa pubblica”, destinati ad aree depresse (anche per questo la platea dei beneficiari dei fondi per la ricostruzione si allargò). Tuttavia, in seguito agli scandali dell’Irpiniagate e all’ingresso nella Comunità economica europea negli anni ’90, anche questa impostazione entrò in crisi.
Umbria e Marche (1997)
Il 26 settembre 1997 due scosse colpirono un’area dell’Italia centrale, tra l’Umbria e le Marche. La prima scossa avvenne alle 2 e 33 di notte e la seconda alle 11 e 40. Morirono 11 persone, 4 delle quali (due funzionari della soprintendenza e due frati) nel crollo di due volte della Basilica Maggiore di Assisi. Furono oltre 100 i feriti e circa 40mila i senzatetto.
I centri più colpiti, oltre ad Assisi, furono Foligno, Nocera Umbra, Colfiorito, Serravalle di Chienti, Bevagna. L’intensità del sisma fu del 5,6° grado della scala Richter. Per chi studia le catastrofi del secondo dopoguerra italiano, il sisma di Umbria e Marche può essere individuato come il primo terremoto accaduto dopo la predisposizione del Sistema nazionale di Protezione civile, adottato nel 1992. I soccorsi questa volta non ritardarono, anche se non mancarono caos e disorganizzazione, dovute per lo più alla mancata adozione, da parte dei sindaci, dei piani di emergenza previsti dalla legge. Nella giornata del 26 furono mobilitate circa 2mila persone, in gran parte Vigili del fuoco, e 300 uomini dell’esercito, fu allestito un ospedale ed una cucina da campo e fu immediatamente impedito l’accesso indiscriminato alle strade dell’area colpita. Altri 200 uomini furono incaricati di vigilare l’area contro il pericolo di sciacallaggio. Arrivarono presto 900 roulottes e vennero create 12 tendopoli. Il governo in carica, guidato da Romano Prodi, stanziò 56 miliardi di lire subito e altri 800 nella Finanziaria 1998.
Per le sistemazioni provvisorie furono utilizzati i containers ed i prefabbricati, lasciando la popolazione nei luoghi colpiti. Per la ricostruzione furono previsti tre tipi di intervento (Nimis 2009, 80): la ricostruzione leggera (riparazioni ed interventi su edifici lievemente danneggiati), quella pesante (ricostruzioni ex novo e recupero dell’esistente) e quella integrata (recupero dei centri storici e progetti di interesse paesaggistico). Non sono mancate nel corso della ricostruzione polemiche sugli interventi, ritenuti a volte poco rispettosi della ricchezza storico artistica della regione. In Umbria e Marche non vi fu dibattito sulle scelte, poiché parve naturale il recupero integrale dell’esistente, ove fosse possibile. Non sono mancati anche alcuni risvolti positivi, in termini di sviluppo di alcune iniziative economiche, così come non pare ad oggi compromessa la vocazione turistica dell’Umbria. Secondo l’Osservatorio regionale per la ricostruzione, nel dicembre 2008 la ricostruzione poteva dirsi completata al 93%, in tempi tutto sommato ragionevoli. Sono stati in totale impiegati per la ricostruzione circa 10mila miliardi di lire.
San Giuliano di Puglia (2002)
Il 31 ottobre 2002 si verificò una scossa del 5,4 della scala Richter in Molise; l’area colpita era limitata ad 8 comuni. Sui 30 morti totali ben 27 furono i decessi in seguito al crollo della scuola elementare di San Giuliano di Puglia, 26 bambini (tutti nati nel 1996) e la loro insegnante. Questo evento rappresenta una delle pagine più dolorose e vergognose della storia italiana recente; la scuola, infatti, era stata sottoposta da poco a dei lavori di adeguamento. La procura di Larino, aprendo le indagini, riteneva “anomalo” il crollo e mise sotto accusa i progettisti, i costruttori ed il sindaco, tra l’altro padre di una delle vittime. Per il resto le conseguenze del sisma non furono particolarmente gravi. Tuttavia, il crollo della scuola di San Giuliano avrebbe dovuto costituire un monito per la messa in sicurezza di edifici fondamentali per l’incolumità dei cittadini, ma l’Abruzzo ha dimostrato che quel monito è rimasto inascoltato.
Abruzzo (2009)
Sul sisma dell’Abruzzo, in questa sede si tratterà solo per i termini utili ad un confronto con i casi precedenti, per capire meglio il punto di arrivo del cammino della Protezione civile. Tra i casi qui esposti, la scossa avvenuta alle 3 e 32 del 6 aprile ha rappresentato un evento di gravità inferiore solo al sisma dell’Irpinia; i morti sono stati 308, i senzatetto circa 65mila. Scorrendo le pagine dei quotidiani si ritrova una notizia secondo la quale già 3 minuti dopo il sisma era allertato il sistema di Protezione civile. Nel pomeriggio del 6 aprile erano state montate circa 500 tende (altre 500 erano in allestimento) e l’ospedale da campo, nei pressi dell’ospedale San Salvatore de l’Aquila, 180 bagni chimici, 16 vagoni letto, e 70 bus a disposizione di chi si doveva spostare da casa; inoltre erano 20mila i pasti caldi offerti. Se pensiamo che in Irpinia alcuni comuni aspettarono anche una settimana prima di avere un pasto caldo, si può capire quale sia il cammino compiuto dall’organizzazione della Protezione civile in Italia, anche se a costo di numerose vite umane.
Il 19 aprile in Abruzzo erano presenti circa 12mila tra volontari ed uomini delle forze armate, i senzatetto erano ospitati in 70 hotel (20mila) ed in 120 tendopoli (40mila circa). Al loro servizio operavano 52 cucine da campo e 35 posti medici. Di sicuro, alla prova del terremoto del 6 aprile, la Protezione civile ha dato dimostrazione di aver superato tutte le difficoltà organizzative riscontrabili nei casi che ho precedentemente illustrato.
Conclusioni
Per la nostra penisola i terremoti, purtroppo, rappresenteranno una ciclica ma costante presenza; altri luoghi del pianeta che hanno gradi di sismicità simili o superiori al nostro (il Giappone, la California) hanno da tempo adottato sistemi di costruzione edilizia e di gestione dell’emergenza all’avanguardia; da noi, da questo punto di vista, ad ogni catastrofe ci facciamo trovare impreparati, sia per non aver preso le giuste precauzioni sia perché le norme previste sono state o aggirate o ignorate. Tuttavia si è cercato di dimostrare come la Protezione civile abbia potenziato ed adeguato le sue strutture nel corso degli ultimi 40 anni, con buoni risultati. I vari settori disciplinari (l’ingegneria, la sismologia, l’organizzazione dei servizi di assistenza, l’architettura) continuano a lavorare affinché il prossimo terremoto o la prossima catastrofe siano possibilmente innocui. Quello che può fare la storia è narrare le catastrofi già accadute, in modo tale da conservare quei fatti come ammonimento costante, e coltivare la memoria dei sopravvissuti e delle comunità che sono più esposte al rischio sismico, attraverso operazioni culturali e di ricerca che vadano ad aumentare quella coscienza civile e individuale che può aiutare a prevenire le calamità o, almeno, a renderle meno distruttive.
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Contenuti correlati
- Classificazione sismica dei comuni italiani, indicati nell’ordinanza del presidente del Consiglio dei Ministri n. 3274/03. Per maggiori informazioni è possibile consultare la sezione “terremoti” sul sito dell’Ingv (www.ingv.it). [↩]
- 1908-2008. Scienza e società a cento anni dal grande terremoto, Miscellanea Ingv, anno 2008, n. 3. [↩]
- Ministero del Bilancio e della programmazione economica, Rapporto sul terremoto, Documento 1982, Roma, Istituto poligrafico e zecca dello Stato, 1982, tab. 30, p. 57. [↩]