Il diritto umano all’acqua

di Elisabetta Cangelosi

Abstract

La questione dell’accesso all’acqua e dell’acqua come bene comune e come diritto umano sono assolutamente centrali nel discorso politico contemporaneo e si profilano come fondamentali nel prossimo futuro; e tuttavia non si tratta certo di questioni recenti o che nascono dal nulla. Questo articolo si ripropone di fornire un excursus ragionato su le varie fasi della storia politica che dalla Seconda guerra mondiale ad oggi hanno portato al riconoscimento del diritto umano all’acqua da parte della Assemblea generale delle Nazioni Unite (luglio 2010) e al tempo stesso di analizzare la situazione attuale rispetto all’effettivo riconoscimento di questo diritto a tre anni quasi dalla risoluzione (con una particolare attenzione ad alcuni casi specifici e alla situazione Europea, dove è in corso una Iniziativa cittadina europea sull’acqua come diritto umano).

Abstract english

Human water rights

Access to water and water as a common good and as a human rights are two topical issues in the current political debate and they appear as fundamental for the near future. However, these topics are not recent nor come from nothing. This article aims to provide an excursus of the different steps of political history that from the Second World War to our present times led to the recognition of the human water right by the UN General Assembly (July 2010). It also aims to analyse the current situation about the actual recognition of such a right after almost three years form the resolution, with special attention paid to some specific cases and to the European context where a European Citizens Initiative on water as a human right is ongoing.

Il 28 luglio 2010 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha finalmente riconosciuto l’acqua come diritto umano: un atto politico reclamato da più parti e da molto tempo. Il 28 Luglio rappresenta dunque una svolta epocale nella questione dell’accesso all’acqua, ma un evento politico di questo genere ha un prima e un dopo entrambi molto significativi: il prima, la storia del riconoscimento di questo controverso diritto, copre naturalmente un arco storico piuttosto lungo (in questo contesto ci concentreremo sulle “tracce” del diritto umano all’acqua a partire dalla Dichiarazione del 1948, ma la questione potrebbe essere estesa indietro fino al giusnaturalismo e oltre). Il dopo, dal 2010 al 2013, è certamente un lasso di tempo assai più breve durante il quale tuttavia sono accaduti alcuni episodi salienti rispetto al diritto all’acqua e dunque interessanti nel quadro di questa ricostruzione.

Cominciamo dunque con il passato: ripercorreremo le tappe che hanno portato al riconoscimento del diritto all’acqua nel 2010 attraverso dichiarazioni, accordi e analisi politiche a livello internazionale. Per fare questo divideremo gli anni che vanno dal 1948 al 2010 per periodi, analizzando i documenti maggiormente rappresentativi per ogni periodo storico. Fra gli atti cui faremo riferimento molto pochi sono quelli che possono essere considerati atti vincolanti, in quanto aventi natura di accordo internazionale; la maggior parte invece sono atti non vincolanti. D’altronde, anche la stessa risoluzione delle Nazioni Unite sul diritto all’acqua che si pone al centro di questa analisi è in quanto tale un atto di soft law.

Inoltre, come vedremo, il diritto all’acqua è implicito all’interno di riflessioni relative ad altre categorie di diritti e soltanto per via interpretativa è possibile cogliere eventuali riferimenti a tale diritto (particolarmente rilevante da questo punto di vista è l’interpretazione dell’International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights).

Dalla Dichiarazione universale ai Diritti economici e sociali (1948 -1966)

La Dichiarazione universale dei Diritti umani del 1948 non parla, naturalmente, di diritto all’acqua: un concetto di questo tipo era infatti completamente estraneo alle preoccupazioni dell’epoca, concentrate sulla tutela diritti individuali, connotati quali diritti civili e politici.

Tuttavia, adoperando un canone interpretativo più ampio, un implicito riferimento all’acqua potrebbe essere colto in alcuni passaggi della Dichiarazione: l’articolo 25, per esempio, recita

Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari.

 Evidentemente non si parla di acqua e la formulazione in se stessa non denota certamente un carattere perentorio, ed è anzi piuttosto vaga, ma il riferimento a uno standard di vita adeguato e al cibo implicano in un modo o in un altro un riferimento anche all’acqua, necessaria per poter godere del diritto a un “tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere”, questo sì effettivamente riconosciuto dalla Dichiarazione universale.

Analogo riferimento allo standard di vita appare a distanza di quasi vent’anni nell’International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights del 1966. In questo caso la possibilità di intravedere nelle parole della Convenzione un implicito riconoscimento di un diritto all’acqua non si limita ad essere un’interpretazione ipotetica ma fu confermata nel 2002 dal General Comment No. 15 di cui parleremo più avanti e che come è stato sottolineato “has provided a solid basis for recognizing a human right to water” (Salman, McIrney-Lankford 2004, 64).

In particolare sono gli articoli 11 e 12 della Convenzione a fornire materiale per questa interpretazione; gli Stati aderenti infatti dichiarano di riconoscere:

the right of everyone to an adequate standard of living for himself and his family, including adequate food, clothing and housing, and to the continuous improvement of living conditions (Articolo 11, paragrafo 1).

the right of everyone to the enjoyment of the highest attainable standard of physical and mental health (Articolo 12, paragrafo 1).

 Nonostante la Convenzione sia stata approvata nel 1966 essa entrò in vigore solo nel 1976 e neppure in quel momento vi fu occasione per esplicitare il diritto all’acqua, sebbene questo potesse considerarsi sottinteso nelle disposizioni citate, come argomentato sopra: bisogna attendere infatti il 2002 perché questo testo sia riconosciuto come prima base giuridica per la costruzione di un diritto umano all’acqua.

Le innovazioni degli anni ’70

Nel tempo intercorso fra l’adozione e l’entrata in vigore della Convenzione si cominciò a elaborare, nella riflessione filosofica e giuridica, una diversa categoria di diritti, definiti “diritti di terza generazione”. Questa categoria di diritti, definiti anche diritti di solidarietà, riguarda quei diritti che pur non facendo parte della categoria dei diritti civili e politici, sono tuttavia riconosciuti come necessari per promuovere l’eguaglianza sociale: sono diritti economici, sociali e culturali.

In effetti alla fine degli anni ’70, nel 1977, si svolse in Argentina una Conferenza delle Nazioni Unite in cui ci si occupò, fra l’altro, proprio dei problemi relativi alle risorse idriche. Il documento prodotto dalla Conferenza, il Mar del Plata Action Plan riporta sin dalle premesse affermazioni come questa:

All peoples, whatever their stage of development and their social and economic conditions, have the right to have access to drinking water in quantities and of a quality equal to their basic needs (Risoluzione n. 2, Considerando (a)).

(Report of the United Nations Water Conference, Mar del Plata, 14-25 March 1977 – United Nations publication, Sales No. E.77.II.A.12).

In questo caso il diritto all’acqua è chiaramente esplicitato; tuttavia non soltanto non si tratta naturalmente di una fonte vincolante, ma in senso stretto non può neppure considerarsi un atto di soft law. Infatti il documento si limita a riconoscere, a livello teorico, l’esistenza di un diritto all’acqua ma il valore di questo atto è limitato dal proprio contenuto meramente programmatico, fondamentale per la discussione successiva ma senza alcuna efficacia sostanziale sul piano giuridico.

I partecipanti alla conferenza, con ottimismo palesemente eccessivo, si riproponevano in sostanza di risolvere la questione dell’accesso alle risorse idriche nel mondo e di garantire accesso ad acqua potabile in tutti gli insediamenti umani nell’arco dei quindici anni successivi. In quest’ottica si decise anche di istituire una “International Drinking Water Supply and Sanitation Decade” (1981-1990). Tali obiettivi sono stati, purtroppo ma prevedibilmente, disattesi come dimostrano i dati che parlano di più di un miliardo di persone senza accesso all’acqua potabile e di più di due miliardi e mezzo senza accesso a servizi igienici basilari (al momento della scrittura degli Obiettivi del Millennio, nel 2000 quando, più realisticamente, ma comunque senza successo, ci si ripropose fra l’altro di dimezzare questi numeri entro il 2015). Ciò nonostante il Mar del Plata Action Plan è stato considerato “the starting point for the debate on the right to water, and it has indeed provided the basis for the current discussion on the issue of the human right to water” (Salman, McIrney -Lankford 2004, 9).

La conferenza di Mar del Plata, in effetti, si colloca in una fase storica molto importante rispetto alla riflessione sui diritti umani: da una parte, come si è detto, è proprio in questo periodo che si sviluppa l’idea dei diritti di terza generazione e dall’altra appena due anni prima della conferenza argentina quasi tutti i Paesi Europei, il Canada, gli Stati Uniti, la Turchia e alcuni Paesi del Mediterraneo (Algeria, Egitto, Israele, Marocco, Siria, Tunisia) si erano riuniti a Helsinki per la conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa e avevano affrontato le questioni relative alla sicurezza, alla cooperazione (economica, scientifica, tecnica e ambientale) e ai diritti umani.

Anni ’80 e anni ’90: paradossi e contraddizioni

Nel corso degli anni ’80 sono del tutto assenti eventuali documenti politici o giuridici a livello internazionale che facciano esplicitamente riferimento all’accesso all’acqua, come era stato il caso del Mar del Plata Action Plan alla fine degli anni ’70; tuttavia, come era accaduto per il Covenant sui Diritti Economici e Sociali, si incontrano alcuni riferimenti impliciti alla questione in Convenzioni che non riguardano direttamente il tema dell’acqua.

In particolare a distanza di dieci anni l’una dall’altra vengono adottate due Convenzioni, rispettivamente relative alla discriminazione contro le donne (International Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination against Women – 1979) e ai diritti dei bambini (Convention on the Rights of the Child – 1989) e in entrambe si fa riferimento al diritto a condizioni di vita adeguate – con una particolare attenzione alle questioni relative all’abitazione, all’igiene e all’accesso all’acqua e all’elettricità (CEDAW, 1979 art. 14.2) – e ai requisiti igienici e nutrizionali al fine di combattere la mortalità infantile – con preciso riferimento a un accesso ad acqua pulita (Convention on the Right of Child, 1989 UN GA/ Res. 44/25 art. 24.2).

Le due convenzioni entrarono in vigore rispettivamente nel 1981 e nel 1990 ma non produssero naturalmente nessun cambiamento rilevante nel dibattito internazionale in merito all’accesso all’acqua dal momento che non solo si tratta di atti senza un valore giuridico vincolante ma inoltre il diritto all’acqua al massimo può essere inferito da un quadro alquanto ampio e generico. Al contrario, nel 1992 un diverso incontro internazionale, l’International Conference on Water and the Environment tenutosi a Dublino, era esplicitamente dedicato all’acqua. I suoi risultati rispetto al diritto all’acqua, tuttavia, sono piuttosto ambigui, se non addirittura controproducenti: il Dublin Statement on Water and Sustainable Development, infatti, pur facendo riferimento all’acqua come ad un diritto basilare di tutti gli esseri umani, ha in realtà contribuito a complicare ulteriormente la situazione esplicitando la possibilità di attribuire un valore economico alla risorsa. Dopo un riferimento all’importanza della risorsa, infatti, il principio 4 titola:

water has an economic value in all its competing uses and should be recognized as an economic good.

(Dublin Statement on Water and Sustainable Development –Principle n. 4).

Un’affermazione di questo genere incontra facilmente il favore dei sostenitori delle privatizzazioni anche perché, nel contenuto del Principle 4, la connotazione economica dell’acqua viene messa in relazione con l’eventuale riconoscimento del diritto umano all’acqua:

 it is vital to recognize first the basic right of all human beings to have access to clean water and sanitation at an affordable price. Past failure to recognize the economic value of water has led to wasteful and environmentally damaging uses of the resource.

(Dublin Statement on Water and Sustainable Development –Principle n. 4).

Il riferimento all’idea di un “prezzo accessibile” rafforza, evidentemente, la connessione fra diritto all’acqua e valore economico: il problema è che queste affermazioni, come è stato sottolineato “do not explain the concept of ‘affordability’, nor do they suggest means through which its content and meaning could be determined” (Salman, McIrney-Lankford 2004, 9). In pratica questa dichiarazione internazionale pur menzionando esplicitamente il diritto all’acqua ha fornito un ulteriore supporto ai teorici della privatizzazione, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo dove le ingerenze dei grandi istituti economici internazionali hanno avuto un impatto maggiore.

Nello stesso anno l’Agenda 21 (“Programme of Action for Sustainable Development”) della United Nations Conference on Environment and Development di Rio de Janeiro, nel sostenere la necessità di proteggere le risorse idriche e nel sottolineare il valore non soltanto funzionale ma anche culturale dell’acqua, considera quanto elaborato in occasione del Mar del Plata Action Plan come una premessa rispetto a un eventuale riconoscimento di un diritto all’acqua. Anche in questo caso, tuttavia si tratta di principi astratti con pochissime, se non nulle, conseguenze concrete.

I cambiamenti nel 2000

Gli anni duemila sono sicuramente quelli in cui il riconoscimento del diritto all’acqua subisce una rilevante accelerazione, anche se essa è accompagnata da altrettanto rilevanti pratiche di privatizzazione della risorsa in numerose zone del mondo e da dichiarazioni volutamente ambigue, come quelle prodotte dai World Water Forum in cui l’influenza delle multinazionali e della Banca Mondiale sono non solo praticamente ma persino ufficialmente molto rilevanti. Emblematico è il caso del 2009 quando, mentre altrove si discuteva anche a livello internazionale, del diritto umano all’acqua, a Istanbul il 5° World Water Forum definiva l’acqua un “bisogno”.

Già dal 2002, tuttavia, il dibattito si era fatto più serrato anche all’interno delle Nazioni Unite: è in questa occasione infatti che le componenti implicite della Convenzione internazionale sui diritti economici e sociali del 1966 vengono presentate, attraverso una interpretazione autorevole fornita dalla 29esima sessione del Committee on Economic Social and Cultural Rights, come base di partenza per discutere del riconoscimento del diritto umano all’acqua. A questo proposito M. Barlow (2008, 171) due anni prima dell’effettivo riconoscimento da parte delle Nazioni Unite definiva questo lavoro di analisi “an authoritative interpretation that water is a right and an important milestone on the road to a full binding UN Convention”.

Questo testo interpretativo, solitamente indicato come General Comment No. 15, consiste in un’analisi approfondita dei paragrafi 11 e 12 della convenzione sui diritti economici e sociali: quei paragrafi in cui appunto, come si è avuto modo di sottolineare si fa implicito riferimento al diritto all’acqua. Ne riportiamo per intero l’interpretazione:

Article 11, paragraph 1, of the Covenant specifies a number of rights emanating from, and indispensable for, the realization of the right to an adequate standard of living “including adequate food, clothing and housing”. The use of the word “including” indicates that this catalog of rights was not intended to be exhaustive. The right to water clearly falls within the category of guarantees essential for securing an adequate standard of living, particularly since it is one of the most fundamental conditions for survival. […] The right to water is also inextricably related to the right to the highest attainable standard of health (art. 12, para. 1). (CESCR General Comment No. 15 (2002) – E/C.12/2002/11, 2).

Nel prosieguo del commento la questione del diritto all’acqua viene affrontata esaustivamente dal punto di vista delle basi giuridiche, delle obbligazioni nazionali e internazionali (che assumono caratteristiche diverse se riferite agli Stati o ad altri attori istituzionali), delle eventuali violazioni, nonché delle modalità di implementazione della Convenzione a livello nazionale. In questa occasione dunque il fatto che l’acqua sia un diritto umano, necessario per l’effettivo godimento di altri diritti, viene formulata in maniera esplicita:

Water is a limited natural resource and a public good fundamental for life and health. The human right to water is indispensable for leading a life in human dignity. It is a prerequisite for the realization of other human rights.

(CESCR General Comment No. 15 (2002) E/C.12/2002/11 Introduction – par. 1).

In maniera altrettanto esplicita viene constatata, poche righe dopo, la costante negazione di tale diritto: “the Committee has been confronted continually with the widespread denial of the right to water in developing as well as developed countries”.

Nel rafforzare il rilievo del diritto all’acqua il Committee fa riferimento ad altri trattati e/o convenzioni che, più o meno marginalmente, trattano del diritto all’acqua in altri contesti: in particolare alle già citate Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women (art. 14, par. 2), alla Convention on the Rights of the Child (art. 24, par. 2) così come alle due convenzioni di Ginevra relative al trattamento dei prigionieri di guerra e dei civili in tempo di guerra (Geneva Convention relative to the Treatment of Prisoners of War – art. 20, 26, 29 e 46 – e Geneva Convention relative to the Treatment of Civilian Persons in Time of War – art. 85, 89 e 127) fino alle di poco precedenti Recommendation 14 of the Committee of Ministers to Member States on the European Charter on Water Resources del 2001 (par. 5 e 19) e Resolution 2002/6 of the United Nations Sub-Commission on the Promotion and Protection of Human Rights on the promotion of the realization of the right to drinking water del 2002.

In ciascuno di questi casi, in maniera più o meno esplicita e con formulazioni quasi sempre non vincolanti, emerge che l’acqua, quale elemento indispensabile per il conseguimento di standard minimi di vita, per la produzione agricola nonché per tutti quegli aspetti della vita materiale, sociale e culturale che abbiamo avuto modo di analizzare fin qui, andrebbe trattata come un diritto a tutti gli effetti e implicherebbe dunque precisi doveri da parte degli Stati: “the Covenant […] clearly imposes a duty on each State party to take whatever steps are necessary to ensure that everyone enjoys the right to water, as soon as possible” (CESCR General Comment No. 15 (2002) E/C.12/2002/11 par. 45).

Una tale interpretazione di una convenzione internazionale, ratificata già nel 1977, potrebbe sembrare un punto fermo nella questione del diritto all’accesso all’acqua come diritto umano e invece la questione ha continuato ad essere un tema discusso da voci discordanti senza trovare adeguata definizione e resta, come vedremo nelle conclusioni di questo articolo, una problematica aperta anche dopo la significativa Risoluzione delle Nazioni Unite del luglio 2010.

Che il riconoscimento dell’acqua come diritto umano fosse tutt’altro che scontato e ancor meno condiviso lo dimostra, paradossalmente proprio nello stesso anno della Risoluzione delle Nazioni Unite, l’affermazione di un portavoce della Commissione europea, Joe Hannon. In occasione di un report pubblicato da EUobserver nel Maggio del 2010 in merito ai problemi relativi alla siccità in alcune zone dell’Unione europea si legge:“We are encouraging water pricing whether there is scarcity or not. We consider water to be a commodity like anything else. The cost of delivering water is not really being taking into account”( L. Phillips, EU urges higher water prices as supplies dry up, in EUobsever, 18/5/2010 – consultabile a www.euobserver.com).

Definire l’acqua una “commodity” non poteva passare inosservato. E infatti su più fronti l’espressione del portavoce è stata oggetto di critiche: dall mondo dei movimenti sociali e d’opinione è partita infatti una campagna di mail-bombing da parte di diverse associazioni e organizzazioni volta a sottolineare il loro totale disaccordo. Sul versante politico europeo, la dichiarazione del portavoce della Commissione è stata oggetto di un’interrogazione parlamentare da parte dei parlamentari europei G. Milana, V. Prodi e D. Serracchiani (E-5465/2010) che metteva in luce in primo luogo la contraddizione fra l’affermazione del portavoce e la direttiva 2000/60/CE che, pur aprendo all’idea dell’acqua come bene commerciabile, esplicitamente sottolinea che non si tratta di un merce “come le altre”. L’interrogazione proseguiva sottolineando una mancanza di neutralità nella dichiarazione fatta a nome della Commissione, per finire con un riferimento alla questione dei beni pubblici e dei beni comuni, esclusi per natura da ogni tipo di commercio.

La risposta fornita dalla Commissione all’interrogazione parlamentare appare ambigua e sulla difensiva e, pur confermando naturalmente l’adesione al contenuto della direttiva, piuttosto che porre l’accento sull’aspetto dell’eventuale mercificazione dell’acqua, contenuto indubbiamente nel concetto di commodity, si concentra sulla possibilità di introdurre un sistema di tariffe volto ad evitare sprechi. Sembra che l’obiettivo sia quello di ridimensionare le affermazioni pur non smentendole (cfr. www.europarl.europa.eu, E-5465/2010).

Confermando il contenuto della direttiva quadro, che non fa riferimento all’acqua né come diritto né come bene pubblico o comune, la Commissione dichiara di non schierarsi a favore di una politica di mercificazione dell’acqua – ma neppure di schierarsi contro questa ipotesi – e nega che l’affermazione del suo portavoce possa essere considerata un cambiamento rilevante nel suo orientamento politico in materia. Joe Hennon, dunque, avrebbe fatto riferimento alla necessità di imporre prezzi legati ai costi di distribuzione solo per evitare sprechi.

Ancora una volta l’ambiguità sembra andare per la maggiore nei discorsi relativi alle questioni idriche. D’altra parte proprio in occasione del Forum di Istanbul dell’anno precedente, il Parlamento Europeo aveva invece espresso un’opinione assolutamente favorevole al riconoscimento del diritto umano all’acqua:

water distribution is extremely unequal, while it should be a fundamental and universal right […;]

water is a shared resource of mankind and that access to drinking water should constitute a fundamental and universal right […;]

treat access to drink water as a vital and fundamental human right, and not merely as an economically tradable good, subject only to the rules of the market.

(European Parliament resolution of 12 March 2009 on water in the light of the 5th World Water Forum – Istanbul 16-22 March 2009, P6 – TA(2009)0137, G., 1 e 29).

28 Luglio 2010: l’acqua è un diritto umano!

Con 122 voti favorevoli, nessun contrario e 41 astenuti, il 28 luglio 2010, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adotta la Risoluzione 64/292 che riconosce l’accesso ad un’acqua sicura e pulita e all’igiene come un diritto umano (A/RES/64/292). Si tratta di un passo rilevante e di una decisione in qualche modo attesa da tempo e come sottolinea C. De Albuquerque, l’esperta incaricata nel 2008 dalle Nazioni Unite di occuparsi dell’argomento, “the recognition of the human right to water and sanitation is a positive signal from the international community and shows its commitment to tackle these issues” (C. de Albuquerque, riportata da UN News Centre, UN expert welcomes declaration that clean water and sanitation is a human right, 31/7/2010: www.un.org/apps/news/story.asp?News /sanitation).

Non è qui necessario né interessante ripercorrere i vari passaggi che, in fase di negoziazione hanno condotto alla formulazione della risoluzione; meritano piuttosto attenzione, oltre al testo stesso della risoluzione, i commenti formulati a latere dai rappresentanti di alcuni Paesi che forniscono degli spunti interessanti per comprendere in prospettiva i passaggi successivi.

Cominciamo dunque con riportare il testo della Risoluzione 64/292:

1. Recognizes the right to safe and clean drinking water and sanitation as a human right that is essential for the full enjoyment of life and all human rights;

2. Calls upon States and international organizations to provide financial resources, capacity-building and technology transfer, through international assistance and cooperation, in particular to developing countries, in order to scale up efforts to provide safe, clean, accessible and affordable drinking water and sanitation for all;

3. Welcomes the decision by the Human Rights Council to request that the independent expert on human rights obligations related to access to safe drinking water and sanitation submit an annual report to the General Assembly, and encourages her to continue working on all aspects of her mandate and, in consultation with all relevant United Nations agencies, funds and programmes, to include in her report to the Assembly, at its sixty-sixth session, the principal challenges related to the realization of the human right to safe and clean drinking water and sanitation and their impact on the achievement of the Millennium Development Goals” (Consultabile a www. un.org , A/RES/64/292).

 Tre dunque sono i passaggi principali: il riconoscimento dell’esistenza di un diritto all’acqua; un invito all’impegno da parte degli Stati sia sul proprio territorio sia in un contesto di cooperazione per rendere effettivo l’esercizio di tale diritto; ed infine il riconoscimento del lavoro di indagine dell’esperta indipendente e della opportunità di un suo prosieguo in questa direzione soprattutto in relazione all’importanza dell’acqua per il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio.

Nella sua fondamentale portata storica questa Risoluzione, pur non avendo ricevuto alcun voto contrario, ha visto i rappresentanti di 41 Paesi astenersi con motivazioni legate alle interazioni fra la risoluzione, la legislazione internazionale e il processo di analisi portato avanti dall’Human Rights Council a Ginevra (sinteticamente espresso come “Geneva Process”): tanto le motivazioni di voto successive all’adozione quanto le opinioni espresse durante il dibattito precedente alla votazione – sia da parte dei rappresentanti di Paesi favorevoli sia da parte degli astenuti – meritano dunque un ulteriore approfondimento.

Una questione rilevante, sollevata dalla Germania e da numerosi altri Paesi, riguarda il mancato raggiungimento, nel corso delle negoziazioni precedenti, di un consenso unanime che portasse ad un’approvazione per consenso appunto e non per votazione.

Analogamente, pur dichiarando il proprio voto favorevole – così come la Germania, del resto – anche il rappresentante della Spagna, riferendosi alle proposte e ai testi alternativi presentati da Spagna e Belgio nel loro ruolo rispettivo di ex-presidente e di presidente dell’Unione europea, “regrets the fact that, first of all, almost none of these suggestions have been included in the final text of the draft resolution and that, predictably, we will not achieve a consensual adoption of the draft resolution” (Oyarzun in Official Records 108th Plenary Meeting, A/64/PV.108 – Agenda item 48, 6) . L’assenza di consenso unanime si delinea dunque nelle parole di questi due delegati europei come una conseguenza, quasi inevitabile, del mancato riconoscimento in fase di negoziazione delle istanze presentate appunto dai Paesi europei.

Numerosi Stati, invece, fra cui gli Stati Uniti, l’Australia, la Turchia e il Regno Unito enfatizzano invece un possibile contrasto fra questa risoluzione e il lavoro in corso a Ginevra. Questa obiezione trova una lineare smentita proprio nelle parole d’approvazione, riportate poco sopra, con cui l’esperta ha salutato tale decisione.

Un’altra categoria di “obiezioni” risulta invece più interessante (e trova d’accordo fra gli altri Stati Uniti, Regno Unito, Canada e, per alcuni aspetti, Paesi Bassi). Le questioni riguardano l’assenza nella legislazione internazionale, anche nel diritto consuetudinario (Usa), del riconoscimento del diritto all’acqua; l’effettiva possibilità di implementare tale risoluzione; e, in sostanza, l’assenza di basi legali sufficienti per un diritto all’acqua propriamente detto (Uk). Inoltre, la risoluzione appare non vincolante e vaga dal punto di vista del contenuto del diritto all’acqua cui fa riferimento (Canada) e non sufficientemente chiara sulle responsabilità e le obbligazioni da parte dei Governi (Canada e Paesi Bassi).

Da questo punto di vista si potrebbe in effetti sostenere che la critica legata alla necessità di attendere il completamento del Geneva Process fosse in qualche modo legata alla possibilità per gli Stati di comprendere al meglio le implicazioni politiche, giuridiche ed economiche (sul piano locale e su quello internazionale) dell’istituzione di un diritto umano all’acqua.

Questo aspetto risulta in effetti cruciale, anche a risoluzione approvata, perché la questione degli obblighi da parte degli Stati è piuttosto vaga e senza dubbio aperta: l’unica certezza è che quanto alle responsabilità degli Stati in materia di diritti umani gli obblighi si distinguono in “to respect”, “to protect” e “to fulfill”. Nel caso dell’acqua dunque “rispettare” significherebbe non interferire in alcuna maniera con il godimento del diritto all’acqua, “proteggere” significherebbe impedire che parti terze pregiudichino il godimento del diritto all’acqua e “adempiere” farebbe riferimento all’adottare tutte le misure necessarie per l’effettivo godimento di tale diritto.

In ogni caso nel contesto dell’Assemblea generale tutti gli interventi fanno riferimento all’importanza dell’acqua come diritto umano e molti, in particolare quelli dei Paesi sudamericani, definiscono la risoluzione come “an important step to reduce the number of people […] who die each year from diseases kinked to the lack of safe drinking water” (Bolivia), un “historic milestone” (Nicaragua) che “marks a historic moment” (Cuba), “represents a major step forward towards the September summit” (Yemen), ma anche “very significant” (Guinea Equatoriale) o, più semplicemente, un progresso (Francia).

Risulta tuttavia evidente, anche ad un’analisi veloce, una distribuzione geografica e geopolitica relativamente definita delle posizioni espresse. Appare non privo di interesse riscontrare che fra gli astenuti vi siano due soli Paesi latino-americani (Trinidad e Tobago, Guyana), che siano relativamente pochi i Paesi africani (Botswana, Lesotho, Kenya, Etiopia, Zambia, Tanzania) e vi sia invece una maggioranza di Paesi di area europea, non necessariamente membri dell’Unione (Armenia, Austria, Bosnia e Herzegovina, Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Grecia, Islanda, Irlanda, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Moldavia, Romania, Slovacchia, Svezia, Ucraina, Regno Unito) e più in generale un certo numero di Paesi che, seppur geograficamente distanti, appaiono per aspetti diversi vicini ai Paesi Occidentali (Turchia, Israele, Giappone, Korea, Nuova Zelanda). A questi si aggiungono almeno quattro Paesi di indubbio rilievo dal punto di vista politico ed economico su scala internazionale (Stati Uniti, Canada, Australia e il già citato Regno Unito).

Nel quadro generale di una votazione che può certamente essere definita storica sono interessanti non tanto le posizioni dei Paesi favorevoli quanto piuttosto gli aspetti che risultano problematici e che dunque si profilano cruciali per una futura effettiva tutela di tale diritto. Infatti, nonostante l’indubbio passo avanti e la possibile (e auspicabile) accelerazione di un processo che non solo garantisca la tutela del diritto umano all’acqua, ma che allontani ogni tentativo di trasformare l’acqua in merce (come sottolinea il rappresentate della Bolivia: “reject all attempts to turn water into commodity”) , questa risoluzione rappresenta un atto politicamente rilevante e tuttavia necessita di essere declinato attraverso la legislazione nazionale e internazionale affinché diventi realmente efficace. D’altra parte, un punto critico fondamentale è costituito dall’incapacità dell’Assemblea generale di giungere ad una votazione unanime degli Stati membri in favore di un testo già per sua natura sprovvisto di valore giuridico vincolante. L’assenza di unanimità di consenso, infatti, rende difficoltoso che la Risoluzione 64/292 possa assurgere, quantomeno in un futuro prossimo, a base dottrinale per giungere all’eventuale elaborazione di una forma di diritto consuetudinario all’acqua.

Quale futuro? Un esempio significativo

Come è facile immaginare, e come abbiamo sottolineato più volte, il fatto che il diritto all’acqua sia stato ufficialmente riconosciuto dalle Nazioni Unite non ha portato con sé alcun cambiamento radicale nella legislazione dei vari paesi né ha migliorato granché la condizione di quanti all’acqua non hanno accesso. Tuttavia tale riconoscimento ha contribuito a rafforzare le posizioni di quei Paesi che avevano già inserito il diritto all’acqua all’interno del proprio quadro giuridico (non stupisce che il promotore principale del riconoscimento del diritto umano all’acqua in sede internazionale fosse la Bolivia dal momento che, nel 2009, il diritto umano all’acqua è stato inserito nella Costituzione Boliviana); ma soprattutto ha fornito uno strumento utilissimo di dibattito politico in difesa del diritto all’acqua.

In particolare in Europa è al momento in corso una campagna per il riconoscimento del Diritto umano all’acqua da parte dei Paesi Europei sotto forma di Iniziativa cittadina europea: nel marzo 2011 non appena la Commissione europea ha stabilito le norme relative alla diritto di iniziativa legislativa da parte dei cittadini europei, rendendo operativo quanto previsto dal Trattato di Lisbona, il sindacato europeo dei servizi pubblici (Epsu) con l’appoggio di numerose Ong, aziende pubbliche e associazioni di altro genere ha promosso una Iniziativa cittadina europea intitolata “Water is a human right!”.

Nonostante l’idea di lanciare tale iniziativa risalisse al 2009, il riconoscimento del diritto umano all’acqua da parte delle Nazioni Unite ha fornito indubbiamente un quadro di riferimento più ampio e soprattutto rafforzato, seppur non unanime. Al riconoscimento internazionale del diritto umano all’acqua si fa infatti riferimento sin da subito, per esempio nelle note informative prodotte dall’Epsu in merito all’’iniziativa cittadina europea. Essa, infatti, nel chiedere che l’Europa promuova “la realizzazione, a livello nazionale, di questo diritto umano, definendo obiettivi vincolanti per tutti gli Stati membri” (Informativa Epsu, versione italiana: www.right2water.eu) e che cambi la sua logica di mercato nei confronti dell’acqua, orientandosi piuttosto verso un approccio orientato alla tutela dei diritti e all’importanza di garantire il servizio pubblico, fa esplicito ed inequivocabile riferimento alla citata Risoluzione delle Nazioni Unite.

Questa iniziativa dunque rappresenta emblematicamente una proiezione verso il futuro del diritto umano all’acqua di cui abbiamo tracciato qui le tappe salienti: una volta raggiunto l’obiettivo di un primo e maggioritario riconoscimento di tale diritto a livello internazionale, la sfida è quella di farlo diventare operativo nella realtà dei singoli Paesi, nonostante le logiche di mercato ed altri ostacoli.

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