di Marco Cini
Abstract
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Nell’ambito del movimento operaio italiano, la maturazione di una riflessione critica sulla pianificazione neocapitalista è avvenuta principalmente ad opera di una minoranza di intellettuali e militanti della sinistra socialista e, come è noto, ha avuto in Raniero Panzieri l’interprete di maggior spessore. Si deve all’intellettuale torinese e a questo gruppo, di cui faceva parte anche Luciano Della Mea, il tentativo di innovare il marxismo privilegiando una coerente azione militante rispetto ad un impegno declinato in termini di partito o di accademia (Foa 1980, 284).
Della Mea si era iscritto al Psi nel 1949, e dal 1954 al 1958 fu redattore dell’“Avanti!” (Mencarelli 2007, 15-59). Fra il ’56 e il ’57 si avvicinò alla sinistra del partito: fu in questo frangente che la sua riflessione sul socialismo e sul ruolo del partito come strumento della classe operaia si spostò su un piano più teorico e ideologico. In occasione del congresso di Venezia del Psi celebrato nel febbraio 1957 si schierò apertamente con l’eterogenea corrente di sinistra del partito e nel maggio successivo entrò nella redazione della rivista teorica del Psi, “Mondo operaio”, impegnandosi con Raniero Panzieri, che la dirigeva insieme a Nenni, nel tentativo di uscire dallo stalinismo “da sinistra” e di riformulare una politica di “unità di classe” che non ricalcasse l’ormai superato “frontismo”. La permanenza nel comitato di redazione della rivista socialista si concluse nel dicembre del 1958, contestualmente all’estromissione di Panzieri dalla condirezione della rivista. Il sodalizio con quest’ultimo si consolidò nei mesi successivi, e agevolò la collaborazione di Della Mea alla fase di fondazione del gruppo che avrebbe dato vita ai “Quaderni rossi” (Della Mea 1996, 57-64).
La necessità di rivisitare su basi teoriche innovative i paradigmi marxisti era correlata ai profondi cambiamenti intervenuti nella struttura economica e nella società italiane in seguito all’esplosione del cosiddetto “miracolo economico”, vale a dire una fase di sviluppo estensivo durante la quale si erano registrati un sensibile incremento dell’occupazione e un sorprendente ampliamento della capacità produttiva del sistema industriale attraverso la moltiplicazione del numero delle imprese (Garofoli 2014, 37-51; Stangio 2015, 117-164).
Le trasformazioni intervenute nel tessuto economico nazionale avevano accentuato le difficoltà in cui si dibatteva il Psi fin dall’avvio della destalinizzazione, producendo una molteplicità di letture dei fenomeni economici che ben presto avrebbe visto il tema della “programmazione democratica” dell’economia assumere una posizione di preminenza nel dibattito interno al partito (Carabba 1997). Parallelamente, però, prese corpo anche una diversa lettura dei processi di sviluppo in atto, che poneva al centro dell’analisi il palesarsi di inediti fenomeni di razionalizzazione del capitalismo, di cui si fece promotrice, come si diceva poco sopra, una minoranza di esponenti della sinistra socialista e del movimento sindacale.
In Italia, le prime riflessioni sul neocapitalismo erano state avviate a metà degli anni ’50, promosse da intellettuali vicini agli “Amici del Mondo”, al movimento di Comunità e al sindacato cattolico. Il tema in discussione era la possibilità di rinnovamento dell’economia capitalistica e la necessità di stabilizzare i cicli economici resi incerti dall’introduzione, nella produzione industriale, di una crescente automazione dei processi e dalla contemporanea ridefinizione, all’interno dell’impresa, delle procedure di organizzazione e di direzione conseguenti allo spostamento degli equilibri dalla proprietà al management. Tali riflessioni sul neocapitalismo, in questa fase ancora confinate entro ristretti circoli intellettuali, erano conseguenti alla diffusione delle analisi dei principali economisti statunitensi aderenti – seppure in modo non omogeneo né univoco rispetto agli approdi ultimi delle loro analisi – alle correnti dell’istituzionalismo, da Pollock a Galbraith, fino a Berle e Drucker1.
Le tesi sostenute da questi autori, assunte negli anni successivi anche in Italia come cardini del neocapitalismo, insistevano sul superamento dell’antagonismo fra capitale e lavoro nella grande impresa manageriale, in virtù del protagonismo acquisito dal management rispetto alla proprietà e al tendenziale processo di fusione fra i quadri dirigenti e tecnici dell’impresa e maestranze operaie sempre più qualificate: la progressiva integrazione del lavoratore nell’azienda prefigurava quindi il potenziale superamento della divisione fra classi sociali e una crescente convergenza fra gli interessi del lavoro e del capitale funzionale all’incremento del benessere collettivo (Settis 2016, 189-202). Gli squilibri dell’economia di mercato sembravano aver trovato un correttivo nell’introduzione dell’automazione e di nuovi processi tecnologici, i quali avrebbero consentito crescenti margini di autoregolazione sia della produzione, sia del mercato. Un dato altrettanto rilevante veniva individuato nella formazione di “nuovi centri di potere suscettibili di coesistere con il rafforzamento dell’industria monopolistica e di equilibrare la sua crescente influenza sulla vita economica delle nazioni” (Trentin 1962, 98), anche grazie al peso acquisito dall’intervento dello Stato nell’economia, al rafforzamento dei sindacati – a cui si attribuivano nuove funzioni rispetto al passato – e all’adozione di politiche di programmazione economica.
Seppure presenti nel dibattito italiano dalla metà degli anni ’50, fino alla conclusione del decennio queste teorie non avevano trovato un humus idoneo a implementarne gli sviluppi. Il quadro mutò nel ’59 quando, esauritasi la crisi congiunturale dell’anno precedente, si materializzò una vigorosa intensificazione della produzione, accompagnata da una marcata offensiva delle lotte operaie culminate nei fatti di Piazza Statuto del 1962 e con il rinnovo dei contratti dei metallurgici l’anno successivo. Il carattere prevalentemente spontaneistico della reazione operaia colse i partiti di sinistra e i sindacati sostanzialmente impreparati a recepire le novità della qualità della protesta, e al contempo si sovrappose al dibattito politico sulla programmazione che si era aperto fin dall’inizio del decennio ed aveva coinvolto, oltre al Psi, anche le formazioni politiche cattoliche e laiche (De Felice, 783-812).
Se il Psi approfittò di tale clima per accelerare la strategia della “programmazione democratica” che lo avrebbe portato, nel 1962, a costituire il primo governo di centro-sinistra, l’irrompere della protesta operaia costituì anche l’occasione per la definizione compiuta di un’alternativa a tale scenario ad opera di Panzieri e del gruppo, nato nel 1960, dei “Quaderni rossi”. Fin dalla collaborazione a “Mondo operaio”, Della Mea aveva accentuato la critica alla prospettiva di uno sbocco della crisi in cui versava il Psi verso l’alleanza con la Dc, opponendo a tale linea il tema della “democrazia operaia” e avviando, seppure in forme non ancora sistematiche, una riflessione sui possibili esiti del neocapitalismo. Quest’ultima indagine trovò una prima traduzione negli articoli pubblicati su “Mondo nuovo”, la rivista nata all’inizio del 1959 come organo della corrente di sinistra del Psi. Le inchieste condotte da Della Mea in alcune fabbriche milanesi (Della Mea 1973, 42-53)2 e le lotte inaugurate nel 1960 dagli elettromeccanici costituirono un primo fondamentale tassello su cui poggerà l’elaborazione critica della realtà del neocapitalismo che alcuni esponenti della sinistra socialista milanese e del sindacato iniziarono a proporre proprio nell’ultimo scorcio degli anni ’50.
La riflessione sul neocapitalismo trovò successivamente una più articolata esposizione nell’articolo Classe operaia e programmazione capitalistica (Della Mea 1962, 3-4) pubblicato nel 1962 su “La Classe”, periodico fondato da Gianni Bosio ed alla quale lo stesso della Mea collaborò attivamente. L’articolo – che traeva spunto dal dibattito che stava preparando la formazione del IV governo Fanfani – risentiva fortemente dell’elaborazione avviata dalla rivista “Quaderni rossi”, alla cui redazione Della Mea aveva inizialmente cooperato, proprio nella prospettiva di contrastare “la più avanzata ideologia moderna, secondo cui, economicamente, il capitalismo trasforma se stesso diventando il proprio opposto con la benedizione dello Schumpeter e gli inni dei riformisti tutti intenti a inserirsi nel sistema per favorirne la metamorfosi”3. È plausibile sostenere che proprio in questi due laboratori prese forma l’idea che il capitalismo fosse riuscito a superare le sue contraddizioni e ad annullare l’anarchia che lo aveva fino ad allora contraddistinto, eliminando di conseguenza la causa delle sue crisi cicliche, vale a dire la caduta tendenziale del saggio di profitto. Attraverso il cosiddetto “piano del capitale”, il capitalismo sarebbe riuscito a superare l’anarchia di mercato stabilendo una pianificazione che dalla fabbrica si sarebbe estesa all’intera società. Ciò significava che il capitale poteva incorrere in crisi solo per ragioni soggettive, ovvero per la contrapposizione ad esso della soggettività anticapitalista incarnata dalla classe operaia. Nel caso italiano, la programmazione economica rappresentava esattamente la politica attraverso la quale il neocapitalismo stava assecondando i processi di razionalizzazione dell’impresa capitalistica. Della Mea, nell’articolo citato, prendeva le mosse dagli obiettivi delineati da Fanfani nel corso dell’VIII congresso nazionale della Dc, che miravano ad un ampliamento del mercato interno e a garantire certezza circa le condizioni in cui avrebbero dovuto svilupparsi le iniziative degli operatori economici. La programmazione, nella misura in cui agevolava la cooperazione fra imprese e lavoro, al fine di assicurare la continuità dello sviluppo economico e il superamento degli squilibri esistenti nel Paese, garantiva di fatto sicurezza agli investimenti degli imprenditori, mentre pretendeva dal mondo del lavoro la stabilità delle relazioni con la controparte, promettendo una politica fiscale e distributiva più equa, che avrebbe comunque implicato un deciso contenimento dei salari. Lo Stato, in questa dinamica, mutava il proprio ruolo, chiamato adesso ad intervenire direttamente nei processi di razionalizzazione: osservava, infatti, Della Mea che “lo Stato non la fa da mediatore fra padroni e lavoratori ponendosi al di sopra dei contrasti di classe in nome di un superiore interesse nazionale o della collettività, bensì si integra nel capitale, forza con i propri interventi l’intera società all’interno del capitalismo” (Della Mea 1962).
Le conclusioni cui giungeva Della Mea circa il mutato ruolo dello Stato risultano chiaramente influenzate dalle riflessioni sul neocapitalismo maturate nel biennio 1960-62 all’interno del gruppo dei “Quaderni rossi”4, sebbene non sia possibile, in questa fase, sostenere una piena identificazione dell’analisi proposta dall’intellettuale pisano con quella di Panzieri5. Tale convergenza è invece palese nel saggio pubblicato nel 1965 da Della Mea intitolato Lo sviluppo capitalistico e i problemi della strategia operaia (Della Mea 1965)6.
Quest’ultimo saggio è per molti versi emblematico: si tratta, infatti, di un lavoro che ha avuto una lunghissima gestazione, quasi tre anni, durante i quali, da un lato, si dispiegarono i lavori della Commissione nazionale per la programmazione economica presieduta da La Malfa e Saraceno (Lavista 2010, 295-385) – le cui risultanze costituirono la base per la formulazione dei piani Giolitti e Pieraccini – e, dall’altro, Panzieri pubblicò sui quaderni “Quaderni rossi” il saggio Plusvalore e pianificazione con il quale precisò la sua lettura del neocapitalismo. Nato da uno scritto polemico nei confronti di Amendola che la rivista “Critica marxista” inizialmente accolse e poi rifiutò, il saggio fu a più riprese sviluppato su consiglio di Panzieri, che ne seguì la stesura sino alla morte (Merli, Dotti 1987, 404); successivamente fu Vittorio Rieser a curarne l’uscita nelle “Lettere dei Quaderni rossi”. Tale, lungo, percorso aiuta a comprendere alcuni elementi di disorganicità che caratterizzano la “Lettera”, con la quale Della Mea intendeva indagare le contraddizioni del neocapitalismo ed alcune tematiche relative al socialismo già dibattute da Rodolfo Morandi negli anni del carcere, con la finalità di “porre le basi per creare ‘una forza politicamente orientata’, naturalmente unitaria, per una prospettiva rivoluzionaria” (Merli, Dotti 1987, 410)7.
Il saggio si configurava, in primo luogo, come una rassegna di analisi tesa a dimostrare la problematicità e la precarietà della pianificazione capitalista, fenomeno che proprio nel primo lustro degli anni ’60 stava prendendo rapidamente forma anche in Italia con la diffusione delle teorie sul neocapitalismo e il dibattito sulla ‘programmazione democratica’. Le vicende del biennio 1963-64, che avevano visto uno spiccato protagonismo della Banca d’Italia di Guido Carli nel condurre una severa politica deflazionistica finalizzata a bloccare le spinte inflazionistiche emerse alla fine del 1962 (Conte 2008, 661-687), dimostravano, secondo Della Mea, che il sistema capitalistico italiano stava marciando senza indugi “verso la pianificazione e la politica dei redditi”. Non meno rilevanti erano le dinamiche dell’economia di mercato a livello internazionale, che confermavano il tendenziale processo di pianificazione capitalistica. Della Mea, a tal riguardo, prendeva le mosse da un recente volume di economisti, di orientamento prevalentemente marxista e keynesiano, che si erano interrogati sugli sviluppi sperimentati dal capitalismo nel secondo dopoguerra, arrivando ad individuare, parallelamente alla permanenza di vecchie contraddizioni, l’emergere di linee di sviluppo inedite orientate a stabilizzare i meccanismi alla base dell’economia di mercato (Tsuru 1962)8. Partendo dall’analisi di Shigeto Tsuru, Della Mea osservava che le contraddizioni ancora operanti all’interno delle economie capitalistiche apparivano “teoricamente superabili e praticamente in graduale superamento attraverso il processo internazionale e nazionale d’integrazione tra fabbrica e società (determinato dallo sviluppo capitalistico, di cui l’antagonismo di classe è uno degli stimoli preponderanti) che s’istituzionalizza nel piano” (Della Mea 1965, 40).
La caratteristica del “piano” capitalista – e in ciò era individuabile la prima e più pregnante discontinuità rispetto al capitalismo concorrenziale d’anteguerra – era la transizione dall’obiettivo del massimo profitto a quello della massima sicurezza. Polemizzando con l’economista John Strachey, esponente di punta del laburismo inglese, le cui opere avevano avuto larga eco anche in Italia9, osservava che gli imprenditori stavano trovando “il modo di usare la principale molla del sistema, cioè l’investimento in nuovi mezzi di produzione, in misura razionale, senza interruzioni, e controllando anche le fluttuazioni del profitto, purché, naturalmente, lo scopo del sistema stesso, il profitto (e il potere che ne consegue), sia fatto salvo nel tempo: sono cioè i veri interessi a lunga scadenza della classe dominante nel suo insieme che vanno sia pur lentamente prevalendo sugli interessi a breve scadenza di particolari sezioni di essa” (Della Mea 1965, 41-42).
L’interdipendenza fra politica capitalistica di piano e la massimizzazione della sicurezza trovava conferma nel legame fra la teoria economica istituzionalista e la teoria del “potere di equilibrio” sviluppata da Galbraith, relazione già lucidamente rilevata da Bruno Trentin nel corso del Convegno sulle “Tendenze del capitalismo italiano” dell’Istituto Gramsci del 1962: nella sua relazione Trentin aveva, infatti, sottolineato che “l’equilibrio dinamico dello sviluppo economico viene quindi individuato in un equilibrio di ‘potere’ in cui possa affermarsi al di sopra delle contraddizioni tipiche del mercato capitalistico – che rimangono ineliminabili – una razionalità ‘superiore’ quella della tecnocrazia della grande industria privata, di volta in volta sorretta o contrastata dal capitalismo di Stato e dai sindacati. È il volto utopistico e reazionario insieme dell’ideologia neocapitalistica che emerge in tal modo: la concezione autoritaria di una società ‘guidata’ di una democrazia integrata e presa in tutela dai centri di potere economico, capaci di esercitare per suo conto una direzione illuminata” (Trentin 1962, 115-116).
In Italia, il neocapitalismo e la politica di piano, e in questo si palesava una convergenza fra l’approccio di Della Mea e quello di Trentin, si stavano affermando grazie alla mediazione del sindacato cattolico10 e della politica della Dc di Moro. Nel piano si combinavano due elementi: l’allargamento del mercato e dei consumi interni espresso come necessità dal capitale, e la conseguente urgenza di unificare sotto il profilo economico il paese superando i molteplici squilibri settoriali e regionali ereditati dal passato. Il teorico più autorevole di tale impostazione era ovviamente Pasquale Saraceno, il quale ne aveva illustrato i fondamenti nel corso del convegno di San Pellegrino del settembre 1961, prendendo le mosse dalla specificità del caso italiano rispetto alle esperienze sperimentate nei paesi ad elevato reddito (Saraceno 1963 e 1965). Saraceno aveva individuato il principale ostacolo da rimuovere nell’esistenza, all’interno del Pese, di due diversi meccanismi di mercato: la politica di programmazione, quindi, avrebbe dovuto rimuovere tale dualismo agevolando uno sviluppo più equilibrato e una crescita dei consumi pubblici. Lo Stato, al tal fine, avrebbe potuto correggere la distribuzione delle risorse realizzata dai meccanismi di mercato attraverso l’utilizzo di strumenti indiretti idonei a modificare il sistema di convenienze degli operatori economici, ricorrendo, in tale prospettiva, anche all’impiego delle imprese pubbliche (Fausto 2015, 525-560).
Il modello di “neocapitalismo pubblico” (Barca, Trento 1997, 214) elaborato da Saraceno si sovrapponeva, osservava Della Mea, al processo di oligopolizzazione in atto in Italia già da alcuni anni11, favorito peraltro dalla cosiddetta “linea Carli”. In tal modo, tuttavia, il grado di “socialità” della produzione subiva una vistosa espansione, che a sua volta rafforzava la tendenza verso lo sviluppo allargato della divisione sociale del lavoro, vale a dire al controllo e alla regolamentazione sociale del processo globale di produzione e distribuzione ai fini della salvaguardia del profitto. Corollari di tale, inedita, dinamica del capitalismo italiano erano, da un lato, la spinta per una predeterminazione del costo del lavoro e, dall’altro, la necessità, per i capitalisti, di una programmazione di lungo periodo del processo di accumulazione e degli sbocchi di mercato (Della Mea 1965, 43).
L’analisi di Della Mea ripercorreva, su tale punto, quella sviluppata, poco prima della morte, da Raniero Panzieri sulla pianificazione neocapitalista (Merli 1994, 42-70). È opportuno sottolineare che intorno a tale analisi, i dubbi di Della Mea erano molteplici, come si evince dagli scambi epistolari avuti con lo stesso Panzieri12. In ogni caso, in questa circostanza Della Mea fece sua la tesi che il capitalismo, compreso quello italiano, muovesse tendenzialmente verso una pianificazione dello sviluppo che dalla fabbrica si allargava all’intera società, ampliando a dismisura la cooperazione fra i lavoratori e superando l’anarchia che contraddistingueva, secondo quanto esposto da Marx nel I libro del Capitale, le dinamiche del capitalismo a livello globale. Seguendo Panzieri, il risultato finale delle tendenze in atto era la completa integrazione fra il piano e l’autorità del capitalista. Ciò prefigurava, nel breve periodo, il superamento definitivo del capitalismo concorrenziale classico e, a livello ‘sovrastrutturale’, delle bardature della cultura liberal-democratica. A tal proposito, Della Mea richiamava una riflessione di P.M. Sweezy, il quale aveva dimostrato che l’ideologia del neocapitalismo “non è soltanto antiliberale in senso culturale, ma si dimostra anche antidemocratica sul piano politico. Nel campo economico, la nuova ideologia capitalistica rivendica una ‘pianificazione’ che intende l’intervento dello Stato per forzare l’accumulazione del capitale. Il leitmotiv di questa ideologia è l’idea di dominazione che implica una visione etica completamente diversa da quella che caratterizzava l’etica liberale” (Sweezy 1962, 64)13 del capitalismo ottocentesco e del primo Novecento.
In Italia, rilevava Della Mea, quest’idea di dominazione permeava sia il pensiero cattolico, sia l’orientamento culturale del ceto imprenditoriale e dei tecnocrati a cui era affidato il governo delle imprese pubbliche, e sottolineava che “l’idea di dominazione ha il proprio schermo nella cosiddetta ‘democraticità’ della politica capitalistica di piano: alla libertà di conseguire il profitto, alla ‘sicurezza’ di conseguirlo entro la cornice di un piano largamente predeterminato, si aggiunge, come elemento democratico, la promozione di centri locali di responsabilità” (Della Mea 1965, 50). Il riferimento era al dibattito in corso intorno all’opportunità di incardinare la programmazione economica sull’istituzione delle regioni, secondo quanto previsto dal dettato costituzionale. Tuttavia, Della Mea contestava la democraticità di tale processo, ritenendo che la pianificazione neocapitalistica non potesse prescindere da una reale centralizzazione delle procedure e del potere di decisione14. L’obiettivo di indirizzare il piano verso fini apparentemente difformi dallo sviluppo dell’economia di mercato era dunque valutato alla stregua di una “mistificazione”: il fine realmente perseguito, al contrario, era la stabilizzazione del capitalismo, e il superamento degli atavici squilibri della struttura economica italiana a cui mirava la programmazione economica – dalla soluzione del dualismo nord-sud all’annullamento delle posizioni di rendita, ecc. – doveva essere considerato conforme agli interessi di lungo periodo della “classe dominante nel suo insieme”, proprio perché aspirava a stabilizzare il processo di accumulazione, tanto nelle imprese private, quanto in quelle pubbliche. In definitiva, dai processi in atto emergeva una razionalizzazione e un ampliamento del “processo generale di accumulazione, in vista dello sfruttamento di tutte le risorse, mediante la regolazione e l’armonizzazione dell’accumulazione privata e dell’accumulazione pubblica” (Della Mea 1965, 47)15.
In Italia le imprese oligopolistiche, soprattutto quelle produttrici di beni di consumo durevoli, richiedevano, per garantire l’espansione dello sviluppo, il superamento degli squilibri tradizionali, e rivendicavano l’assunzione diretta del controllo della pianificazione sociale. Da ciò discendeva, quale conditio sine qua non, la necessità di assicurare una “condizione di stabilità e di controllo”: stabilità dei prezzi dei mezzi di produzione e dei beni intermedi, allargamento del mercato interno, equilibrio dei mercati internazionali, riduzione dei costi della manodopera in quanto fonte principale dell’accumulazione, degli investimenti e dei profitti. Riforma dell’agricoltura, nazionalizzazione dell’energia elettrica, pianificazione urbanistica, riforma scolastica, assunti quali obiettivi della programmazione democratica dal Psi e dai governi di centro-sinistra, costituivano, nell’analisi di Della Mea, le aperture da cui passavano la pianificazione capitalista e le politiche di regolazione dei processi complessivi di produzione e di distribuzione. L’elemento decisivo di questa strategia era comunque costituito dalla stabilità del costo del lavoro, per gli effetti immediati che aveva sul processo di accumulazione del capitale, e la politica dei redditi rappresentava il perno degli indirizzi che a livello politico miravano a ridurre lo scarto esistente fra le esigenze del capitale di drenare il massimo di plusvalore – comprimendo i salari – e la necessità del medesimo capitale di ampliare il mercato dei beni durevoli, circostanza che presupponeva, invece, un progressivo incremento dei salari.
La necessità di introdurre la politica dei redditi – peraltro declinata in modi diversi dalle forze politiche del centro-sinistra – nasceva dall’impossibilità di conseguire, con il solo strumento della politica monetaria, obiettivi fra loro difficilmente conciliabili, come la crescita del reddito e dell’occupazione, un elevato tasso di accumulazione del capitale e l’equilibrio della bilancia commerciale. L’estenuante confronto sulla politica dei redditi fu tuttavia ‘aggirato’ dalla citata stretta creditizia del 1963-64 attuata da Guido Carli, i cui effetti depressivi sull’economia nazionale mutarono in profondità il quadro d’insieme all’interno del quale era maturata l’analisi di Della Mea. La manovra della Banca d’Italia, infatti, aprì una fase di sviluppo intensivo, accompagnato da una riduzione dell’occupazione, da una riorganizzazione dei processi produttivi – vale a dire un’intensificazione dei ritmi di lavoro e un aumento della produttività – e, soprattutto, da una vistosa riduzione degli investimenti delle industrie private, solo in parte compensata da quelli ascrivibili al sistema delle partecipazioni statali, indirizzati peraltro prevalentemente nel Mezzogiorno. Nella seconda metà del decennio – si parla per questo periodo di “crescita senza sviluppo” e di “sciopero degli investimenti” – riaffiorano le vecchie contraddizioni del capitalismo italiano, al punto che la grande impresa privata sembrò ripiegare su se stessa, abbandonando i settori più moderni e investendo su quelli tradizionali (Garofoli 2014, 52-65). La stessa programmazione economica, dopo lo smacco subito dal piano Giolitti, entrò in una fase di stallo generando un più circoscritto piano programmatico presentato dal ministro socialista Pieraccini.
La combinazione fra la crisi del progetto del centro-sinistra, incardinato sulle politiche di programmazione, e il repentino mutamento del quadro economico e delle sue dinamiche interne, ridimensionò rapidamente anche la fortuna di cui avevano goduto le teorie sul neocapitalismo, così come le analisi critiche dei loro oppositori. Sotto questo profilo, già nel 1971 Della Mea ammise l’errore compiuto dai “Quaderni rossi” nel ritenere che “un piano economico complessivo in un sistema capitalista fosse possibile, e che potesse conseguire una razionalità globale, dalla fabbrica alla società” (Della Mea 1971, 30)16.
Quella attuale si configurava piuttosto come una fase di transizione caratterizzata da “elementi contraddittori di non facile superamento”, segnata dal fallimento del centro-sinistra e “della teorizzazione tecnocratica di Pasquale Saraceno, il quale ha tentato di combinare concettualmente capitalismo di stato e capitalismo privato in armonia in una perdurante economia di mercato” (Della Mea 1971, 30). Se in Italia tale politica aveva determinato la crescita smisurata del peso dell’Iri e delle banche pubbliche – e, sottolineava Della Mea, il potere dei tecnocrati era cresciuto rispetto a quello dei capitalisti privati, come dimostrava la scalata di Eugenio Cefis alla Montedison – si era anche palesato un nuovo fenomeno, vale a dire la sproporzionata espansione, sul piano globale, delle multinazionali17. Tale dilatazione era destinata ad entrare in contraddizione con lo sviluppo dei singoli capitalismi di Stato, dal momento che questi ultimi conservavano, nei loro rapporti internazionali, “una condotta anarchica, concorrenziale e competitiva”. In definitiva, il carattere anarchico del capitalismo sembrava avere nuovamente ripreso il sopravvento rispetto al ‘piano del capitale’: le drammatiche vicende che contrassegneranno l’economia internazionale negli anni ’70, e che decreteranno il tramonto del modello di sviluppo delineatosi nel dopoguerra, avrebbero confermato la plausibilità di questo ripensamento, aprendo la strada ad una nuova e difficile stagione di analisi e riflessioni i cui esiti, tuttavia, non furono in grado di rilanciare le strategie politiche e sindacali del movimento operaio.
1 Nel 1956 uscì la traduzione del volume di Friedrich Pollock intitolato Automazione. Dati per la valutazione delle conseguenze economiche e sociali (Torino, Einaudi, 1956). Di Peter F. Drucker uscirono, fra il 1953 e il 1957, il volume La nuova società (Milano, Garzanti, 1953), l’articolo La terza rivoluzione industriale (“Tecnica e organizzazione”, n. 23, 1955) e il volume La rivoluzione dell’economia americana nell’ultimo cinquantennio (Torino, Eri, 1957); l’anno precedente sul “Bollettino di Studi e statistiche della Cisl” (n. 5, 1956) era apparsa la traduzione dell’articolo Le premesse dell’automazione. Di J.K. Galbraith nel 1955 le Edizioni di Comunità pubblicarono Il capitalismo americano, mentre l’anno seguente le Edizioni il Mercurio proposero la traduzione del volume di A.A. Berle intitolato La rivoluzione capitalistica del XX secolo. Di John Diebold furono pubblicati alcuni articoli, fra cui Una nuova tecnica: l’automazione (“Civiltà delle macchine”, n. 16, 1955), Concetti e tecnica dell’automazione (“Industria oggi”, n. 2, 1956), L’automatismo, una sfida ai capi d’azienda (“L’ufficio moderno”, n. 7, 1956). Particolare rilevanza ebbe anche il volume di Georges Friedmann, Dove va il lavoro umano?, Milano, Edizioni di Comunità, 1955. Relativamente al giudizio maturato da Panzieri su tali autori si veda Panzieri 1977a, 177-186.
2 Fra le fabbriche in cui Della Mea e il sindacalista della Fiom Antonio Costa – che collaborò attivamente con il medesimo Della Mea – svolsero alcune inchieste, poi pubblicate su “Mondo nuovo”, figurano l’Alfa Romeo, la Borletti, la Ferrotubi, la Tecnomasio Brown Doveri e la Breda.
3 Un lettera a Panzieri prima dei «Quaderni rossi» (Della Mea 1970, 367-369), lettera di Della Mea a Panzieri del 14 ottobre 1960. Il riferimento a Schumpeter è relativo alle tesi sulla grande fabbrica manageriale e sulla stabilità del processo di sviluppo monopolistico del capitalismo esposte da quest’ultimo negli anni ’40 e pubblicate in Italia nel decennio successivo (Schumpeter 1954). Per un’analisi del nesso stabilito dall’economista austriaco fra capitalismo mono-oligopolistico e pianificazione si veda Sylos Labini 1990, 447-458.
4 Nel medesimo periodo, infatti, Panzieri nell’articolo intitolato Il neocapitalismo e il movimento operaio internazionale aveva proposto un’analisi del ruolo dello Stato affatto analoga a quella esposta da Della Mea: “esaurita e superata la fase competitiva, da semplice guardiano dei confini della società civile, del regno della libertà di impresa e di sfruttamento – e in quanto tale garante della sfera delle libertà politiche, dei diritti del cittadino ed espressione dell’astratta volontà popolare – lo Stato diviene sempre più strumento del potere economico. Esso è chiamato a dare sanzione politica, carattere sociale generale e forza operativa sul piano nazionale alle decisioni e alle scelte più importanti stabilite dai grandi centri capitalistici in materia di investimenti, di orientamento del mercato, di crescita” (Panzieri 1977b, 143-144).
5 È forse opportuno precisare che l’adesione di Della Mea a “La Classe” palesava l’insoddisfazione per l’orientamento sempre più astratto che stava assumendo la riflessione teorica dei “Quaderni rossi”. Il comune intento dei redattori delle due riviste era quello di analizzare la condizione della classe operaia e di verificare la sua consapevolezza di ‘classe’. Tuttavia, mentre “La Classe” affrontava tale tematica con “attenzione alla base operaia e una visione critica, ma interna, alla storia e alla cultura socialiste” (Mencarelli 2007, 111-112), i “Quaderni rossi” si stavano indirizzando verso una contrapposizione frontale rispetto ai partiti politici della sinistra e alle organizzazioni di classe. Il prevalere, all’interno della redazione dei “Quaderni”, di tale linea portò Della Mea – nella primavera del 1962 – ad allontanarsi dalla rivista (Della Mea 1992, 14-17).
6 L’articolo è ora in Cini M. (cur.), Alla ricerca del socialismo libertario. Scritti scelti 1962-2003, Pisa, Pisa University Press, 2015, edizione da cui si cita.
7 Lettera di Della Mea a Panzieri del 19 agosto 1964.
8 Il volume traeva origine dalle analisi sul capitalismo dell’economista giapponese Shigeto Tsuru, e conteneva i commenti di John Strachey, Paul M. Sweezy, Charles O. Bettelheim, Yakov Kronrod, Maurice Dobb, Paul A. Baran, John Kenneth Galbraith.
9 In particolare, il volume di Strachey Contemporary capitalism (tradotto in italiano e pubblicato da Feltrinelli nel 1957) esercitò una notevole influenza all’interno del Psi, soprattutto sull’elaborazione di Riccardo Lombardi, proprio nella fase di preparazione della politica di programmazione economica e di apertura alla formula del centro-sinistra. È noto che, secondo Strachey, l’accrescimento del potere di mercato dei grandi gruppi monopolistici, potenzialmente foriero di instabilità per l’intero sistema, poteva trovare un efficace correttivo nella crescita dei poteri dello Stato e nello sviluppo della democrazia e dei suoi principali istituti, dal Parlamento ai sindacati.
10 Secondo Trentin, in Italia la diffusione delle teorie neocapitalistiche era stata incentivata dalla filosofia del produttivismo fatta propria da numerosi ambienti tecnocratici industriali e dalla Cisl. Per quest’ultima, fin dagli anni ’50 l’obiettivo dell’integrazione del lavoratore nell’impresa e della sua partecipazione a una direzione pluralistica dell’economia passava attraverso il concetto di contrattazione a tutti i livelli, sia aziendale, sia nazionale. Altrettanta attenzione era riservata alla cultura economica di alcuni esponenti democristiani – e il riferimento esplicito era ad Amintore Fanfani – marcatamente influenzata dalle teorie istituzionaliste americane (relativamente alla ricezione dell’istituzionalismo da parte di Fanfani si veda Michelagnoli 2011, 197-209).
11 A tal riguardo, Della Mea faceva esplicito riferimento alle analisi di Paolo Sylos Labini, (in particolare, al volume Economie capitalistiche ed economie pianificate, Bari, Laterza, 1960). Fin dagli anni ’50 Sylos Labini aveva proposto una nuova analisi dell’oligopolio e del progresso tecnico, ed aveva elaborato una teoria che, superando la visione statica dell’oligopolio, ne accentuava l’elemento dinamico, collegandolo direttamente con le questioni della “realizzazione” e della domanda effettiva. È opportuno ricordare che nel 1962 Sylos Labini espose nuovamente le proprie analisi di fronte alla Commissione d’inchiesta sui limiti posti alla concorrenza nel campo economico (Atti della Commissione d’inchiesta sui limiti posti alla concorrenza nel campo economico, Roma, Servizio studi legislazione e inchieste parlamentari, 1965, vol. II, pp. 57-94). Una riflessione sulle teorie dell’economista romano relative a tale argomento è in Tonveronachi 2016, 109-119.
12 In una lettera a Panzieri del 19 settembre 1964, a proposito dell’analisi del neocapitalismo proposta dall’intellettuale torinese, Della Mea sottolineava che “pesano anche notevoli limiti soggettivi, residui di vecchie contraddizioni persistenti a livello ideologico etc. Praticamente, non si può non tenerne conto. E il modo mi sembra proprio quello di vedere concretamente a che punto è, nel capitale, l’integrazione tra fabbrica e società in situazioni nazionali e internazionali determinate, stando attenti a non scambiare una tendenza o una necessità per un dato acquisito. […] Che il piano funzioni al di là delle soglie delle fabbriche è ancora da dimostrare” (Merli, Dotti 1987, 413).
13 È opportuno osservare che, a partire da questi anni, l’influenza dell’analisi di Sweezy sul pensiero politico di Della Mea si fece sempre più tangibile (dopo, il 1968, l’intellettuale toscano avviò anche una collaborazione all’edizione italiana della “Monthly Review”, fondata nel 1949 da Sweezy). In particolare, Della Mea condividerà con l’economista marxista americano l’idea che la progressiva integrazione della classe operaia occidentale nel capitalismo avrebbe inevitabilmente spinto il movimento operaio a riporre le proprie speranze circa il cambiamento rivoluzionario nelle lotte di liberazione nazionale dei paesi periferici o ancora soggetti a forme più o meno esplicite di colonialismo da parte dei paesi a capitalismo avanzato.
14 “L’articolazione del piano ha i necessari presupposti per divenire essenzialmente esecutiva e sostanzialmente dispotica, e la Regione un altro degli istituti burocratici rappresentativi (come area economica omogenea quella regionale è più che discutibile) dal potere apparente, formale, rispetto al potere di decisione che dalle strutture della economia di mercato va a esprimersi nel piano per necessità di sviluppo” (Della Mea 1965, 51).
15 L’esito del processo non era tuttavia scontato. Della Mea sottolineò a più riprese che gli sbocchi del neocapitalismo non potevano essere stabiliti deterministicamente, e che nuove e non ancora decifrabili strozzature stavano emergendo: ciò costituiva la base per l’opposizione antagonistica della classe operaia.
16 Molti anni più tardi, Della Mea avrebbe confermato tale giudizio, sottolineando che “era una impostazione rigida e assolutista” ritenere che “il capitalismo potesse esprimere una pianificazione totale portando l’ordine e il dispotismo di fabbrica, e quindi dei rapporti di produzione, anche nella società”; tuttavia, tale lettura trovava una pur parziale giustificazione in “un fattore politico che allora era forte e che scatenava quindi una forma di opposizione politica rispetto ad un disegno in atto, che si manifestò con il ‘centro-sinistra’, e che, non a caso, fu una grande illusione che poi fallì” (Della Mea 1994, 23).
17 Tale tematica sarà sviluppata da Della Mea in vari articoli pubblicati fra il 1968 ed il 1970, fra cui: Note sui moventi economici dell’imperialismo, in “Nuovo Impegno”, n. 11, 1968, pp. 16-22; L’America e l’Europa, in “Nuovo Impegno”, n. 9-10, 1968, pp. 144-152; Alcune contraddizioni dell’imperialismo e del capitalismo e i margini economici e politici per il loro sviluppo (Della Mea 1970, 55-132); La nuova simbiosi, in “Monthly Review” (edizione italiana), n. 4-5, 1970, pp. 43-44.
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