Il percorso regionalista nella gestione dei beni culturali

di Andrea Ragusa

Relazione presentata al seminario di studi La gestione dei beni culturali nel mosaico delle autonomie locali, Siena, 12 dicembre 2013.

A fronte del tardivo affermarsi politico ed istituzionale delle Regioni a statuto ordinario – istituite, in applicazione del dettato costituzionale, soltanto nel 1970 – il tema dei beni culturali offrì all’opzione regionalistica – presente nel dibattito politico sin dal periodo pre-unitario ed addirittura risorgimentale – un terreno di elaborazione e di confronto di lungo periodo. Si può dire anzi che la questione del rapporto tra centro e periferia – ed al suo interno la possibilità di una organizzazione regionale della tutela – rappresenti uno degli aspetti su cui più chiaramente si espresse quel confronto che investì la riflessione politica, giuridica e culturale italiana intorno al problema generale dell’organizzazione amministrativa dello Stato. E che su questo terreno i beni culturali abbiano rappresentato, come si cercherà di evidenziare, un elemento di continuità su cui si andò ad inserire una accelerazione decisiva a partire dalla fine degli anni Sessanta, accelerazione che ebbe un punto d’arrivo nell’istituzione delle Regioni a statuto ordinario e nell’emanazione dei Decreti Delegati che conferivano ai nuovi enti i poteri legislativi e regolamentari.

A ben guardare, infatti, l’opzione regionalista non rappresentava affatto una novità nel vivace confronto che sul problema delle belle arti e del paesaggio si era andato consolidando sin dagli anni immediatamente successivi alla nascita dello Stato italiano.

Il primo tentativo di razionalizzazione, a dire il vero, era stato fortemente continuista e centralizzatore. Esso era venuto con il Regio Decreto del 7 agosto 1874 n. 2032, che aveva istituito le Commissioni conservatrici dei monumenti e delle opere d’arte, con competenza provinciale: composte da quattro a sei commissari – in parte di nomina regia, in parte nominati dal Consiglio Provinciale – e presiedute dal Prefetto, alle dipendenze quindi del ministero degli Affari Interni e non dell’Istruzione. Tali Commissioni erano state effettivamente istituite con Regio Decreto n. 3028 del 5 marzo 1876: si prevedeva che a presiederle fosse il Prefetto, ma che – accanto ai Commissari – potesse essere nominato anche un Ispettore con competenze e funzioni tecniche. Tuttavia, pochi mesi dopo il Decreto del 1874, il Regio Decreto del 28 marzo 1875 n. 2440 aveva introdotto un elemento di novità piuttosto rilevante: accanto ad una Direzione centrale per gli scavi ed i musei archeologici, infatti, aveva abolito le Soprintendenze agli scavi di Roma e Napoli, istituite rispettivamente con Decreti luogotenenziali del 7 dicembre 1860 e del 10 novembre 1870, prevedendo che il sistema della Soprintendenze a scavi e musei archeologici avesse un coordinamento regionale suddiviso tra un’area settentrionale – comprendente Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia e Toscana – una centrale – comprendente Umbria, Marche ed Abruzzo, oltre all’area metropolitana di Roma e provincia – ed una meridionale – comprendente Terra di Lavoro, Napoli e provincia, Puglie, Principati e Calabria; ed infine due commissioni speciali per Sicilia e Sardegna. Detto Decreto era stato commissionato dal ministro della Pubblica Istruzione Ruggero Bonghi a Giuseppe Fiorelli, già Ispettore agli scavi di Napoli e Pompei e dal 1863, per nomina del ministro Michele Amari, Direttore del Consiglio di Sovrintendenza agli scavamenti e reperti archeologici di Napoli e provincia.

Nel 1884, poi, il nuovo ministro dell’Istruzione Michele Coppino aveva istituito delegati regionali per l’inventariazione dei beni storici e cose d’interesse artistico. Il Regio Decreto n. 6197 del 20 giugno 1889, voluto dal ministro Guido Baccelli, aveva infine ratificato l’istanza regionalistica istituendo 12 Commissariati per le antichità e belle arti che avevano competenza – come si precisava nell’articolo 2 – “sulle Regioni del Regno qui appresso indicate”, con sede nella città designata. Alle dipendenze di ciascun commissariato venivano ricondotti musei, gallerie, scavi, monumenti ed istituti di belle arti che si trovassero nel territorio delle regioni indicate, ed in ogni commissariato venivano inquadrati funzionari del ruolo unico del servizio archeologico e parte del personale amministrativo degli istituti delle Belle Arti. È da notare, peraltro, che la soluzione “regionalistica” risultava comunque ibrida: il Decreto infatti manteneva gli antichi uffici speciali per Roma e Napoli, su cui pendevano le rispettive province. E del resto le notevoli speranze riposte in questo provvedimento erano state rapidamente vanificate, oltre che dalle difficoltà finanziarie, anche da una sorta di “tagliola” legislativa che il Decreto aveva innescato: esso infatti non prevedeva l’abrogazione del precedente atto istitutivo dei delegati per cui era stato pressoché impossibile trovare personale all’altezza delle necessità dei Commissariati, essendo gli uomini più competenti in materia già impegnati appunto come delegati. A conferma di questo sostanziale fallimento anche la costituzione degli Uffici Tecnici Regionali, promossa con Decreto n. 549 del 19 agosto 1891 dal ministro dell’Istruzione Pasquale Villari, aveva rappresentato di fatto la diretta evoluzione dei precedenti uffici dei delegati regionali, i quali erano stati infatti mantenuti al proprio posto venendo nominati a capo dei nuovi uffici, esattamente nel numero di 10.

L’opzione regionalista non era venuta meno nel corso degli anni successivi, quando anzi, proprio intorno al problema dell’organizzazione delle Sovrintendenze, essa era riemersa con forza come espressione di quel tentativo di razionalizzazione ad una impostazione connotata da una sorta di “centralismo debole” secondo la definizione datane da Guido Melis ed Angelo Varni, che aveva caratterizzato il riformismo giolittiano. Il Regio Decreto n. 431 del 17 luglio 1904, in particolare, aveva ridisegnato – sotto forma di regolamento amministrativo – la struttura dell’amministrazione delle Belle Arti, cui era dedicato, in un articolato normativo di ben 418 articoli, il Titolo I, Uffici. Perno dell’intera struttura rimanevano le Sovrintendenze, suddivise questa volta tra Sovrintendenze sui monumenti; Sovrintendenze sugli scavi, musei ed oggetti d’antichità; Sovrintendenze sulle gallerie ed oggetti d’arte, ma organizzate in numero di 10, ed appunto con competenza regionale, accanto alle quali stavano poi gli Uffici per l’esportazione di oggetti d’arte e di antichità. Elementi di valorizzazione della competenza provinciale rimanevano comunque innanzitutto per la specificità della provincia metropolitana di Roma, poi per quelle siciliane – in ragione delle peculiarità del loro patrimonio archeologico – ma anche per il fatto che si stabilisse che, insieme alle Sovrintendenze, fossero anche Prefetti, Sindaci ed autorità dipendenti ad intervenire nella gestione organizzativa della tutela. Un’amministrazione, dunque, che rispondeva all’intento di costruire un “rapporto diffuso” tra centro e periferia, come ancora Melis ha sottolineato, e nella quale pure si evidenziava il tendenziale affermarsi – in questo come in tutti gli altri settori dell’intervento pubblico in una società che diveniva di giorno in giorno più complessa – di “amministrazioni parallele”. Al vertice, infatti, stava il Sovrintendente, spesso un funzionario ministeriale, cui erano attribuiti compiti di controllo ed indirizzo, oltreché di suddivisione delle mansioni tra i funzionari dei diversi uffici, e le cui veci erano fatte dal più anziano tra gli Ispettori o gli Architetti – figure in posizione di “paritetica subordinazione” con diversità di compiti, ispettivi e di controllo gli uni, tecnici gli altri – e da questo vertice si dipanava una struttura gerarchica imperniata su Segretari e Vice-Segretari con compiti amministrativi e contabili, Soprastanti con competenze di vigilanza sugli edifici e di coordinamento dei Custodi, ed appunto Custodi che attendevano alla gestione dei servizi quotidiani (custodia e pulizia, vigilanza, vendita dei biglietti, etc.). Accanto alle Soprintendenze, erano previsti organi paralleli dei quali i più importanti erano – a norma dell’articolo 38 del Regolamento – gli Ispettori Onorari, di nomina elettiva, in carica per tre anni e rieleggibili, ed il cui ufficio era gratuito; e soprattutto le Commissioni regionali, istituite in ogni regione con sede in una città in cui fosse presente la Soprintendenza, deputate a dare parere su ogni argomento riguardante la tutela e la conservazione dei monumenti e degli oggetti d’antichità e d’arte nella rispettiva regione, oltre alla possibilità di fare proposte in materia di tutela sul patrimonio presente nelle singole province. Composte di non meno di sei e non più di dieci membri, esse avrebbero compreso anche i Soprintendenti, che ne avrebbero fatto parte di diritto.

L’assetto dell’Amministrazione delle Belle Arti era infine stato disegnato, dalla legge n. 386 del 27 giugno 1907, intitolata Uffici e personale delle Antichità e Belle Arti, il cui progetto era stato presentato alla Camera nella seduta del 2 febbraio 1907 dal ministro dell’Istruzione – il ravennate Luigi Rava – di concerto con il ministro del Tesoro Angelo Majorana. La legge del 1907, peraltro, aveva restaurato, di fatto e diritto, la primazìa della competenza provinciale: le Soprintendenze – suddivise tra Soprintendenze ai monumenti, Soprintendenze agli scavi e musei, e Soprintendenze alle gallerie – erano infatti organizzate in circoscrizioni interprovinciali ricondotte al capoluogo. E sullo stesso modello, con alcune piccole differenze, erano state organizzate le Soprintendenze agli scavi e musei e quelle alle gallerie, musei medievali e moderni, oggetti d’arte. La struttura delle Sovrintendenze riprendeva, del pari, la conformazione gerarchica e piramidale dei precedenti decreti: dal Sovrintendente, discendevano via via gli Ispettori, gli Architetti, i Segretari e Vice-Segretari, i Soprastanti, i Custodi. Ad essi erano attribuite le competenze ordinate secondo le indicazioni del Sovrintendente, e la Sovrintendenza erano coadiuvate – a norma dell’articolo – 2, da personale degli Affari Interni e della Pubblica Istruzione:

Dunque l’organizzazione delle Soprintendenze aveva dimostrato al tempo stesso le grandi possibilità offerte da una politica di decentramento amministrativo, ma anche i limiti opposti da una persistente diffidenza nei confronti di quello che Valentino Leonardi, nell’importante convegno degli Ispettori Onorari che si era svolto, nelle sale del Collegio Romano, dal 22 al 25 ottobre 1912, aveva definito come il principio del discentramento amministrativo. Sotto il primo rispetto esso aveva consentito la maturazione di una generazione di tecnici, intellettuali e studiosi, allievi, diretti o indiretti, di studiosi la cui autorevolezza scientifica era pari alla potenza accademica e politica, e che erano andati ad occupare, oltre alle cattedre universitarie di storia dell’arte, anche gli uffici superiori dell’amministrazione delle Belle Arti: Giulio Cantalamessa, ad esempio, Michele Ruggiero – allievo di Fiorelli – Luigi Del Moro, formatosi nell’Accademia di Belle Arti di Firenze, Raffaele Faccioli, Alfredo D’Andrade, Luca Beltrami, Giambattista Toschi, allievi o coetanei di Adolfo Venturi, l’uomo che aveva legittimato la storia dell’arte come disciplina accademica. Su tutti, spiccava, dal 1906, il ravennate Corrado Ricci, autentico dominatore della scena nel campo delle politiche di tutela e valorizzazione del patrimonio storico-artistico italiano per i decenni successivi in qualità di Direttore Generale delle Belle Arti. D’altra parte, quel discentramento cui aveva accennato Leonardi era stato in effetti ricondotto infine alla competenza della circoscrizione provinciale, poiché, in particolare, la carica di Soprintendente era stata concepita come carica ad locum e sulla base di un sistema locale si fosse concepito anche il reclutamento del personale. Il merito della legge del 1907, secondo Leonardi, era stato appunto quello di aver sviluppato un sistema di decentramento burocratico encomiabile. Un sistema, però – aveva sottolineato Giovanni Rosadi, relatore della proposta e massimo esponente politico, insieme a Rava, del movimento protezionista di inizio secolo – imperniato sul criterio della maggiore possibile limitazione di territorio, proprio per evitare la “dispersione in periferia, dove l’azione degli organi di tutela si sarebbe ‘illanguidita’ al pari di come si illanguidisce il sangue nelle estremità inerti del corpo”. E così, la legge-quadro del 1909, la legge “Rosadi-Rava”, risultato di un iter legislativo estremamente complesso e dietro il quale vi era un dibattito assai inteso sviluppatosi all’incrocio dei due secoli, e che aveva visto il coinvolgimento, nelle diverse Commissioni di studio istituite da titolari della Minerva – Niccolò Gallo, Nunzio Nasi, Errico De Marinis, ed infine Luigi Rava – di tutto il fronte compatto dei “conservatori”, aveva sancito questa impostazione. Una impostazione nella quale il rapporto tra centro e periferia era legato primieramente all’attenzione al controllo preventivo, alla strutturazione di competenze territoriali perimetrate, anche in ragione delle osservazioni che il dibattito intorno alla tutela aveva consolidato negli anni precedenti all’interno del laboratorio delle riviste e che aveva disegnato un quadro sconfortante delle condizioni in cui versava il patrimonio e soprattutto il personale deputato alla conservazione, un personale – come era stato segnalato sulla “Nuova Antologia” nel 1904 a proposito delle condizioni della Biblioteca Nazionale di Torino.

Questa distanza tra il personale e le condizioni dell’alta amministrazione delle Belle Arti, ed il personale, si potrebbe dire, minuto, quotidiano, che attendeva ai servizi, non era stata superata – ché anzi, si potrebbe dire, era stata ulteriormente accentuata – dall’azione politica del regime fascista, culminata nelle due leggi fondamentali che avrebbero informato l’ordinamento della tutela per tutto il periodo successivo al 1945 fino all’istituzione del ministero, e che avevano tratto i propri elementi dal dibattito che aveva vista impegnata la nuova generazione degli studiosi e dei critici d’arte che avevano affiancato Giuseppe Bottai in questo lavoro – si vuol citare perlomeno, su tutti, Giulio Carlo Argan, vero e proprio “disegnatore” delle leggi del 1939 – fino alle indicazioni, immediatamente precedenti l’approvazione della legge, venute in un altro importante Convegno degli Ispettori, svoltosi dal 4 al 6 luglio 1938, che della legge può considerarsi il preludio maturo. Nel quale, la necessità di un rapporto coordinato tra centro e periferia che consentisse al tempo stesso controllo ed autonomia discrezionale era stata sottolineata da Giuseppe Moretti sollecitando a costruire un rapporto virtuoso tra Soprintendenze ed organi di vigilanza repressiva (Prefetture) e tecnico-ispettiva (Uffici del Genio Civile ed Intendenze di Finanza); Salvatore Aurigemma aveva legato a queste funzioni l’opportunità di esercitare una vigilanza che passasse attraverso la rete delle Soprintendenze sui Musei Civici, semmai sottolineando l’opportunità di ricondurre la rete di questi musei ad una impostazione regionale.

La questione del regionalismo si era poi riproposta in sede Costituente, quando la voce potente di Concetto Marchesi, levatosi, sulla scorta di pareri di autorevoli istituzioni culturali, a difendere il patrimonio nella sua unitarietà, era stata temperata dall’intelligente proposta di Emilio Lussu che aveva portato ad inserire – nella dizione del secondo comma dell’articolo 9 – il termine Repubblica al posto di Stato, a significare che la competenza della tutela era imputata allo Stato-ordinamento e non soltanto allo Stato-persona.

Rispetto a questi precedenti, tuttavia, non può negarsi che l’istituzione delle Regioni a Statuto ordinario – implementando e completando il quadro normativo del decentramento in base al dettato costituzionale – portasse con sé alcuni elementi di novità. E che rispetto all’opinione diffusa secondo cui le Regioni non avrebbero in realtà avuto se non un potere limitato, che ancora negli anni successivi ne avrebbe impedito una effettiva incidenza nel quadro politico e sociale, le Regioni furono in effetti, al culmine della stagione del centro-sinistra, un laboratorio avanzato di sperimentazione di un nuovo accostamento alla tutela e più in generale alla promozione, non solo ormai del bene culturale, ma anche del “fatto culturale” in quanto tale, utilizzando proprio le competenze che la Costituzione ed i Decreti Delegati affidavano loro.

In questo senso le Regioni raccolsero da un lato le aperture concettuali che la nuova generazione di giuristi impegnati in particolare nella codificazione dei nuovi settori tematici del diritto amministrativo portarono, in relazione in particolare al problema della proprietà e dell’ambiente, e che si trasfusero nell’amplissima messe di convegni e dibattiti che le diverse sezioni dell’Istituto di studi amministrativi organizzarono sin dalla metà degli anni Cinquanta per poi avere un momento ulteriore di approfondimento nei lavori della “Commissione Franceschini”. Dall’altro l’attivismo nuovo con cui le forze politiche accostarono il tema proponendo, sulla base di esperienze consolidate a livello territoriale (si prenda a titolo di esempio il caso del “teatro di strada” dell’Emilia-Romagna), una nuova idea di cultura e di promozione culturale, di carattere “aperto”, “diffuso”, in ultima analisi “democratico”. Va semmai detto che proprio la limitata competenza conferita dai Decreti Delegati – sulla base dell’articolo 117 Cost. soltanto relativa a biblioteche e musei – impose ed al tempo stesso consentì alla Regione di utilizzare lo strumento del governo urbanistico per postulare una politica dei beni culturali come elemento di una più ampia e generale politica di sviluppo e gestione del territorio, che divenne il vero elemento nuovo ed il perno stesso dell’azione politica regionale.

Gli Statuti ordinari riprodussero tutti, in maggiore o minore misura, le norme delle Regioni a Statuto Speciale, inserendo nei primi articoli il riferimento all’impegno che la Regione avrebbe profuso a favore della tutela e della valorizzazione: testimoniando “la consapevole rivendicazione da parte delle regioni di un proprio ruolo in campo culturale e ad orientar la futura opera di produzione legislativa”, ma anche sollecitando “una interpretazione evolutiva delle norme costituzionali”, favorita dall’apertura che progressivamente cominciò ad evidenziarsi tanto da parte degli organi di indirizzo politico, quanto da parte della Corte Costituzionale.

Durante le due fasi dell’attuazione regionalistica in Italia, l’azione dei nuovi enti fu connotata dallo sforzo di “temperare” gli indirizzi restrittivi impressi alle norme, con un’azione politica non priva di risultati di interesse. In particolare, in un primo momento, le regioni rilevarono l’opportunità di accedere ad una concezione “più moderna” dei luoghi di conservazione, da intendersi come “luoghi di diffusione della cultura”, e come del pari il trasferimento alle regioni di poteri concepiti “per settori organici” e non attraverso una elencazione tassativa delle competenze, dovesse indurre a dare al decentramento una interpretazione più ampia ed evolutiva. Così, ad esempio, su proposta dei Consigli regionali furono trasferite alle Regioni le competenze sulle sovrintendenze bibliografiche, allora dipendenti dal ministero della Pubblica Istruzione, in considerazione del fatto che le attività di vigilanza, inventariazione e restauro del materiale bibliografico in possesso di biblioteche pubbliche non statali e private potessero trovare la propria più idonea collocazione in sede locale: Fu cancellato inoltre il comma dell’articolo 4 che faceva salve le attribuzioni allo Stato di tutte le competenze “comunque connesse alla materia”. Si ampliarono notevolmente, infine, i poteri veri e propri. La Regione finì per acquisire il ruolo di una “autonomia subordinata” che da un lato esercitava un potere svincolato di produzione normativa, ma dall’altro funzionava da garante dello Stato per l’attuazione delle competenze dello stesso. Il comma 2° dell’articolo 7 del Decreto n. 3 14 gennaio 1972 delegava alle Regioni le funzioni concernenti la istituzione, l’ordinamento ed il funzionamento dei musei e delle biblioteche di enti locali o di interesse locale, ivi comprese le biblioteche popolari ed i centri di pubblica lettura istituiti o gestiti da enti locali e gli archivi storici a questi affidati; la manutenzione, l’integrità, la sicurezza ed il godimento pubblico delle cose raccolte nei musei e nelle biblioteche di enti locali o di interesse locale; gli interventi finanziari diretti al miglioramento delle raccolte dei musei e delle biblioteche suddette e della loro funzionalità; il coordinamento dell’attività dei musei e delle biblioteche di enti locali o di interesse locale; le mostre di materiale storico ed artistico organizzate a cura e nell’ambito dei musei e biblioteche di enti locali o di interesse locale.

Ma fu, ancor più, l’articolo 9 dello stesso Decreto ad ampliare notevolmente le competenze regionali, delegando ad esse una serie di competenze amministrative che andavano dal vegliare sulla conservazione ed eventuale riproduzione dei codici, degli antichi manoscritti, degli incunaboli, delle stampe ed incisioni rare e di pregio possedute da enti e da privati e curare la compilazione del catalogo generale e dell’elenco indicativo di detto materiale, al fare le notificazioni di importante interesse artistico o storico a termini dell’articolo 3 della legge 1° giugno 1939 n. 1089, ai proprietari o possessori degli oggetti di cui all’articolo 1, comma primo, lettera c) della legge stessa; dal vigilare sull’osservanza delle disposizioni della suddetta legge per quanto concerne le alienazioni e le permute delle raccolte di importante interesse, possedute da enti e da privati, nonché delle disposizioni di cui alla legge 2 aprile 1950 n. 328, per quanto concerne le mostre non indicate nel precedente articolo 7, lettera e), al proporre al ministero il restauro ai manoscritti antichi e le provvidenze idonee ad impedire il deterioramento del materiale bibliografico di alta importanza storica ed artistica; dal proporre al ministero gli espropri del materiale prezioso e raro che presenti pericolo di deterioramento e di cui il proprietario non provveda ai necessari restauri nei termini assegnatigli ai sensi delle norme vigenti in materia; all’esercitare le funzioni di ufficio per l’esportazione ai sensi della suddetta legge 1° giugno 1939, n. 1089; dal proporre gli acquisiti di materiale prezioso e raro ogni qualvolta ritengano che debba essere esercitato dal governo il diritto di prelazione; dall’operare le ricognizioni delle raccolte private al promuovere l’istituzione di nuove biblioteche e vigilare sulle biblioteche popolari non di enti locali riferendo al ministero circa le condizioni di esse ed il loro incremento; al preparare i dati per la statistica generale.

Ancor più incisivo fu l’effetto della pressione politica esercitata dai Consigli Regionali nella fase della cosiddetta “seconda regionalizzazione”, avviata con la legge n. 382 del 22 luglio 1975 – che conferiva al governo una delega annuale per completare il trasferimento delle funzioni alle Regioni – ed imperniata sul Decreto Delegato n. 616 del 24 luglio 1977 – Attuazione della delega di cui all’articolo 1 della legge 22 luglio 1977 n. 382. L’impianto generale del Decreto, innanzitutto, appariva molto più articolato ed ampio nel deferimento delle competenze: alle Regioni venivano infatti attribuiti, a norma dell’articolo 2, poteri su “settori organici” di competenza, ed in particolare: ordinamento ed organizzazione amministrativa; servizi sociali; sviluppo economico; assetto ed utilizzazione del territorio. Su tali settori le Regioni potevano emanare norme di organizzazione e di spesa, norme di attuazione ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 117 della Costituzione, ma anche norme di legge con le quali si subdelegasse a province, comuni ed altri enti locali l’esercizio delegato di funzioni amministrative dello Stato. L’esercizio di tali competenze veniva effettuato attraverso organizzazioni consortili, e nell’ambito degli indirizzi programmatici dettati dallo Stato a livello nazionale, a norma dell’articolo 11.

Nell’architettura del Decreto, in secondo luogo, la materia dei beni culturali veniva richiamata come titolo del Capo VII ed all’interno della materia organica dei “servizi sociali”, disciplinata dal Titolo III. Al suo interno venivano significativamente dedicati al problema tre articoli rispettivamente intitolati – con evidente ampliamento concettuale e politico – a Musei e biblioteche di enti locali (art. 47), Beni culturali (art. 48), Attività di promozione educativa e culturale (art. 49). Molto più ampia era, in questo senso, la gamma dei “luoghi di conservazione” sottoposti alla tutela o alla gestione regionale. Contrariamente a quanto sostenuto da una parte della dottrina, infatti, è evidente come il dettato dell’articolo 47 rappresentasse un notevole incremento alle competenze del nuovo ente, nella direzione di un decentramento che – pur se richiamato sinteticamente sotto l’espressione di musei e biblioteche – ineriva ormai luoghi e funzioni assai più articolate: esse concernevano infatti “tutti i servizi e le attività riguardanti l’esistenza, la conservazione, il funzionamento, il pubblico godimento e lo sviluppo dei musei, delle raccolte di interesse artistico, storico e bibliografico, delle biblioteche anche popolari, dei centri di lettura appartenenti alla Regione o ad altri enti anche non territoriali sottoposti alla sua vigilanza, o comunque di interesse locale, nonché il loro coordinamento reciproco con le altre istituzioni culturali operanti nella Regione ed ogni manifestazione culturale e divulgativa organizzata nel loro ambito”. Comprese tra le funzioni trasferite alle Regioni erano inoltre quelle esercitate da organi centrali e periferici dello Stato in ordine “alle biblioteche popolari, alle biblioteche del contadino nelle zone di riforma, ai centri bibliotecari di educazione permanente, oltre ai compiti attribuiti al servizio nazionale di lettura”. Semmai può osservarsi che l’indicazione dell’articolo 48, specificamente dedicata all’organizzazione delle funzioni amministrative delle Regioni e degli enti locali in ordine alla tutela del patrimonio storico, artistico, archeologico, monumentale, paleo-etnologico ed etno-antropologicom venivano genericamente rimandate ad una legge da emanarsi entro il 31 dicembre 1979, che in realtà non avrebbe mai visto la luce.

Molto più precisa, da questo punto di vista, era la normativa relativa alla tutela delle bellezze paesaggistiche e dell’ambiente, disciplinata non solo – sotto il profilo morfologico – tra le materie relative allo sviluppo economico sotto il Capo VIII Agricoltura e foreste, per quel che riguardava, ad esempio, le calamità naturali o la disposizione di territori montani, foreste, e per quanto concerneva la conservazione del suolo; ma anche e soprattutto nel Titolo V – Assetto ed utilizzazione del territorio – che prevedeva all’articolo 82 – Beni ambientali l’esatta individuazione delle funzioni amministrative delegate, ripartite tra l’individuazione delle bellezze naturali, salvo il potere del ministro per il beni culturali ed ambientali, sentito il Consiglio nazionale per i beni cultural ed ambientali, di integrare gli elenchi delle bellezze naturali approvate dalle Regioni; la concessione delle autorizzazioni o nulla osta per le loro modificazioni; l’apertura di strade e cave; la posa in opera di cartelli o di altri mezzi di pubblicità; l’adozione di provvedimenti cautelari anche indipendentemente dall’inclusione dei beni nei relativi elenchi; l’adozione dei provvedimenti di demolizione e l’irrogazione delle sanzioni amministrative; le attribuzioni degli organi statali centrali e periferici inerenti le commissioni provinciali previste dall’articolo 2 della legge 29 giugno 1939 n. 1039, e dall’articolo 31 del Decreto del Presidente della Repubblica 3 dicembre 1975 n. 805; l’autorizzazione prevista dalla legge 29 novembre 1971 per la tutela dei Colli Euganei.

Tuttavia, per altro verso, l’articolo 49 prefigurava una competenza assai più ampia delle Regioni non tanto per la conservazione e tutela, quanto soprattutto per la valorizzazione e la promozione delle attività educative e culturali: “direttamente o contribuendo al sostegno di enti, istituzioni, fondazioni, società regionali o a prevalente partecipazione di enti locali e di associazioni a larga base rappresentativa, nonché contribuendo ad iniziative di enti locali o di consorzi di enti locali”.

Elementi sui quali, significativamente, le Regioni avrebbero fatto leva negli anni successivi per sviluppare un’attività di normazione di interesse e rilevanza tutt’altro che trascurabile.