di Ermanno Alpini, Alessandro Garofoli
Da alcuni anni la Società Storica Aretina organizza, fra le altre iniziative, incontri serali cinematografici “a tema”. Comprendono la contestualizzazione e l’analisi critica della proiezione. Una sorta di cineforum riservato ad argomenti storici. La dodicesima serie di Cinema e Storia, sviluppata fra l’ottobre 2010 e il marzo 2011, è stata finanziata con il contributo del 5 per mille. Titolo: Il Risorgimento, interpretazioni a confronto.
La Società Storica si è costituita nel 1997; ha un antecedente remoto nella sezione di Arezzo della regia Deputazione di Storia patria per la Toscana. Nata ai primi del 1936 per direttiva del regime, ebbe pochi anni di vita. Fra gli obiettivi, la Ssa si propone lo studio e l’investigazione della storia in generale e del territorio di riferimento, la divulgazione di conoscenze critiche e scientificamente fondate, la tutela e la valorizzazione delle fonti documentarie, archivistiche e bibliografiche.
Per riuscire a elevare la qualità delle proiezioni e la fruibilità cittadina, l’associazione ha da poco trasferito la programmazione in un locale posto nel centro di Arezzo. Un piccolo cinema-teatro, edificato nei primi del Novecento di proprietà del Circolo Artistico, che è riconducibile alla sociabilità borghese. Negli anni precedenti erano state utilizzate sale pubbliche grazie alla disponibilità delle circoscrizioni, meno idonee però allo scopo e periferiche. La “scure” abbattutasi sulla città di Arezzo – analogamente a quanto accaduto in molti altri centri del Paese – e la nascita di una multisala di più moderna concezione, ma che ha finito con il penalizzare quell’orientamento che è comunemente definito d’essai, in ogni caso il film d’autore, soprattutto se non alla prima uscita, ha finito con l’azzerare (o quasi) la disponibilità di sale cinematografiche.
Sopravvissuto al tempo e ad appetiti di varia natura per i vincoli statutari e l’accortezza di buona parte dei soci proprietari, il Teatrino dell’Artistico conforta la visione dei lungometraggi con un’atmosfera intrigante, retrò ma funzionale, perfetta per gli intendimenti degli organizzatori. Di dimensioni ridotte ma bastevoli, lo spazio è confacente al numero e alla tipologia degli amanti del cinema di qualità, offrendo un’architettura liberty rimasta sufficientemente intatta. Per farsi un’idea sommaria, si crea un’ambientazione riservata, “elitaria” nell’accezione positiva del termine, non in quella esclusivista. Non troppo lontana, per quello che riguarda i destinatari e la foggia, rispetto all’altrettanto romantica e coinvolgente fascination del Nuovo Cinema Paradiso.
Nonostante altri avvenimenti concomitanti e gli intralci della stagione invernale, i posti disponibili sono stati quasi sempre tutti occupati, confermando l’interesse per un cinema di nicchia che postula motivazioni ed empatie specificamente orientate verso sceneggiature storiche. La fascia d’età degli appassionati è ampia. Meno apprezzabile la partecipazione dei giovanissimi, soprattutto degli studenti che non oltrepassano i primi anni universitari.
Le celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, assai contrastate, almeno nei mesi di preparazione al “d-day”, 17 marzo 2011, hanno garantito la spinta principale, quasi “obbligata”, al varo del ciclo, teso a mettere a confronto le diverse interpretazioni del Risorgimento. Esse sono all’origine di alcuni film particolarmente meritevoli, entrati a far parte della memoria collettiva.
Per scelta del curatore, Ermanno Alpini, condivisa dal consiglio direttivo della Società Storica, non si è proceduto – com’è prassi – a scandire un percorso strettamente cronologico, ma si è voluto focalizzare alcuni momenti, tra i più importanti, nella storia del nostro cinema. In questo modo gli avvenimenti non sono stati selezionati, e di conseguenza analizzati, privilegiando la cosiddetta “obiettività” dello storico. Ammesso (e non concesso) che tale presunta oggettività possa davvero esistere e sostanziarsi, si deve prendere atto che il “documento storico” – in special modo dopo la rilettura cinematografica – non può avere un valore assoluto, né abitualmente ha preteso di averlo.
Si è sempre espresso, come prodotto finale, in relazione all’interpretazione dello storiografo e alla selezione, a monte, delle fonti. Se è buona regola assumere conoscenze sull’ambientazione degli eventi, occorrerebbe a sua volta, oltre che il giudizio dato, “contestualizzare” lo storico stesso. Ciò, a maggior ragione, nel caso di ricostruzioni portate sullo schermo dal regista e dai suoi collaboratori, anche se rispettosi di una metodologia che segua i canoni di un’operazione filologica oltre che euristica. In altri termini appare indispensabile verificare e decifrare anche il testo e la scenografia, perciò la regia stessa, la sceneggiatura e addirittura la consulenza storica. Un supporto indispensabile, quest’ultimo, che postula una doppia valutazione circa l’utilizzo del prodotto finale: frutto di una ricerca storica e fonte da collocare nell’ambito della storia del cinema.
Appropriandoci con deferenza e con le dovute cautele di quanto ha scritto Claudio Pavone trattando del lavoro dello storico, estendiamo alla comprensione dell’aggregato “cinema e storia” l’idea che occorra definire “l’importanza che ha la collocazione della fonte nell’ambito dell’attività del soggetto che l’ha prodotta e delle norme, o anche soltanto della prassi, da quello seguite per la conservazione della memoria di sé. Ma nel processo di decontestualizzazione/ricontestualizzazione, proprio del mestiere dello storico, questo è solo un punto di partenza, un vincolo al quale non ci si può sottrarre” (Pavone 2007, 117). Se Edward Carr (1966, 27) ammonì che ciò che occorreva contestualizzare per prima cosa era, in effetti, lo storico in persona, Arno Mayer (2000, XIII) ha suggerito ai lettori di contestualizzare lui stesso, partendo dal presupposto che il proprio testo, come qualsiasi altra opera storica, aveva una sua storia “ed era stato elaborato in un determinato contesto politico e storiografico”.
D’altronde il cinema, più di altre forme di linguaggio, ha dimostrato, fin dai suoi esordi, che una formulazione con velleità o presunzione di totale veridicità non è credibile. Né l’oggettività eventualmente auspicata, annunciata o promessa dagli autori è destinata a mantenersi nel tempo. Ogni ricostruzione è frutto dell’orientamento, dell’esprit du temps, di una visione del mondo. Non ultime della sensibilità e dell’esperienza professionale di ogni regista. Senza trascurare la mediazione delle impronte ideologiche.
Premesso questo, il ciclo Il Risorgimento, interpretazioni a confronto, ospitato al n. 12 di Via de’ Redi, a ridosso del Corso Italia, è stato realizzato con la proiezione di otto film, suddivisi in due momenti: l’ideale “primo e secondo tempo” di un unico film, quello del processo di unificazione nazionale visto con le lenti del cinema.
La pellicola d’esordio, Nell’anno del Signore (1969), scaturita da una coproduzione italo-francese, è stata proposta venerdì 29 ottobre 2010. Luigi Magni ne fu il regista e lo interpretarono alcuni fra i migliori attori del tempo: Nino Manfredi, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Enrico M. Salerno, Claudia Cardinale, Britt Ekland, Robert Hossein, Pippo Franco. Il cast d’eccezione contribuì al successo anche commerciale.
È la storia di un complotto carbonaro – un fatto realmente accaduto – mirato contro il governo papalino nella Roma del 1825, sotto Leone XII, Annibale Sermattei della Genga, un papa conservatore, timoroso del “nuovo” più in politica interna che in quella ecclesiastica, visto che eliminò dall’“Indice” le opere di Galileo Galilei e promosse il Giubileo del 1825. Ricordato per le repressioni compiute nella Romagna dal cardinale Rivarola, condannò alla pena di morte il romano Leonida Montanari e il modenese Angelo Targhini, accusati di un attentato (fallito) contro un informatore della polizia.
La narrazione è intrisa di momenti tragici e di accenti comici, compresi i feroci e irridenti epigrammi satirici affissi nottetempo sulla statua dedicata a Pasquino. Contiene non pochi riferimenti al Sessantotto, cioè alla contestazione giovanile contemporanea alle riprese. Nel film viene appunto evidenziata l’attualità della tensione rivoluzionaria: i carbonari sono visti come giovani studenti pervasi dall’impegno civile di cambiare il mondo. Tessendo una specie di trait d’union analogico fra due esperienze distanti più di un secolo.
Magni è sempre stato considerato un regista “municipale”, nel senso che ha dedicato tutti i film, da buon “romano de Roma”, alla città eterna, rappresentata nei vari momenti della sua storia. Erede cinematografico dei poeti dialettali che si esprimevano in romanesco, Giuseppe Gioachino Belli e Trilussa (Carlo Alberto Salustri), il regista dimostra una grande capacità di sapersi inserire nella tradizione del cogliere, anche mediante l’uso dell’ironia, le millenarie magagne della città caput mundi e dei suoi pontefici.
In questo modo la vicenda del ciabattino, finto tonto di giorno, eroe di notte, che affigge a rischio dell’incolumità personale le sue invettive anticlericali sull’antica statua di Pasquino, diventa il pretesto per la denuncia dell’intera gerarchia ecclesiastica dello Stato pontificio. I carbonari di Magni, e forse tutti “i carbonari” della storia, sono tuttavia isolati e il loro sacrificio diventa inutile se il popolo non è in grado o non vuole almeno ascoltarli, se non seguirli.
Si rientra così nei tradizionali interrogativi, posti durante il Risorgimento, circa i limiti e i difetti delle cospirazioni. A tali argomenti non è estraneo il successivo incontro.
Il secondo film, Quanto è bello lu murire acciso di Ennio Lorenzini, è del 1975. Il titolo fa riferimento a una canzone popolare che è stata a suo tempo rielaborata da Roberto de Simone. Ricostruisce in maniera essenziale e scabra il fallimento della spedizione di Carlo Pisacane in Calabria, nel tentativo di far insorgere le masse contadine del Meridione.
La pellicola valse a Lorenzini il David di Donatello e il Nastro d’argento del 1976 quale migliore regista esordiente, il premio assegnato ogni anno dal Sindacato nazionale dei giornalisti cinematografici italiani. Attori principali Giulio Brogi, Stefano Satta Flores, Alessandro Haber, Angela Godwin, Elio Marconato.
Singolare la fortuna/sfortuna del barone decaduto, patriota, Pisacane nella storiografia italiana. Ignorato dal volume Letture del Risorgimento italiano del Carducci (1920), un testo sacro nelle scuole del regno sino agli anni Trenta, recuperato in parte dal fascismo in funzione antiromantica, ritrova la sua giusta sistemazione con Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano di Nello Rosselli (1932; 1977) e nel Saggio sulla rivoluzione del Pisacane, curato da Giaime Pintor nel 1942, un anno prima di morire. Lo scrittore antifascista romano intravide nello sfortunato mazziniano nato a Napoli la matrice socialista. Nel secondo dopoguerra Pisacane è stato rivisitato, con qualche diffidenza, dagli storici di quella che al tempo era chiamata “l’area comunista”, riferendosi al Pci (Gramsci si era pressoché limitato a mettere in luce il contrasto con Garibaldi durante la Repubblica romana).
Perciò il film di Lorenzini può servire tanto a riformulare la figura di Pisacane come precursore di un socialismo utopistico fondato sulla ribellione delle masse, quanto a ricordarne gli scritti (Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-’49, un saggio del 1850, e i Saggi storici-politici-militari sull’Italia del 1854); oltre a far tornare con la mente sui banchi di scuola delle elementari, tentando di recitare nuovamente o rileggendo La spigolatrice di Sapri, composta sul finire del 1857 da Luigi Mercantini.
La contessa di Castiglione di Georges Combret (1954), primo titolo La Castiglione, è stato il terzo film in proiezione. Pure in questo caso si è trattato di una produzione italo-francese. La regia è di un transalpino rapidamente scomparso nell’anonimato dei semplici artigiani del cinema. Anche in questo film la sua presenza appare puramente casuale.
Il prodotto finale è diventato un melodramma sostanzialmente scontato che, ispirandosi al romanzo Ottocento di Salvator Gotta ((Ottocento può essere incluso nella tipologia del romanzo storico-politico. Tratta della complessa fase preparatoria dell’alleanza franco-piemontese contro l’Austria. Gotta ha attinto da documenti ufficiali e privati, alcuni direttamente indicati nel testo. )) , ricostruisce la fitta rete diplomatica tessuta dalla diplomazia piemontese alla corte di Napoleone III al fine di indurlo a intervenire in Italia contro gli Austriaci. Sfilano nel film personaggi illustri (i “padri della patria” Mazzini e Cavour, Costantino Nigra, Napoleone e l’imperatrice Eugenia), ma soprattutto le donne di corte, delle quali si esalta il contributo dato alla causa unitaria. Un contributo che, letto il libro oppure visto il film, appare decisivo: come dire che laddove non può la rivoluzione, possono le alcove!
I ruoli significativi sono stati affidati a Yvonne De Carlo, Georges Louis Marchal, Paul Merisse e agli italiani Rossano Brazzi e Lea Padovani.
La nobildonna fiorentina Virginia Oldoini Verasis, morta a Parigi nel 1899, ribattezzata “l’imperatrice senza impero”, femme fatale del Risorgimento italiano – è stato scritto di recente –, si prestava in maniera suggestiva a regalare pathos ad una rivisitazione intrigante. Non soltanto per i misteri riguardanti la sua azione politica effettiva, o per il fascino indiscusso e l’arguzia, persino per la “leggenda” della sparizione-distruzione del carteggio diplomatico.
La prima parte de Il Risorgimento, interpretazioni a confronto è terminata venerdì 10 dicembre con la visione di 1860, di Alessandro Blasetti. Presentato al pubblico una prima volta nel 1933, venne modificato e riproposto nel 1951 con il sottotitolo I Mille di Garibaldi. La riedizione è stata curata dallo stesso Blasetti, il quale (opportunamente) volle eliminare il finale originario, inserire una nuova colonna sonora musicata dall’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, e rivedere il doppiaggio dei dialoghi salvaguardando le inflessioni dialettali. Inoltre ha accorciato alcune sequenze prolisse e aggiunto nuove inquadrature nelle scene della battaglia finale.
Nell’epilogo della versione 1933 stava il punctum dolens: la vittoria di Giuseppe Garibaldi a Calatafimi, che apre la strada per Palermo e per l’intera Sicilia, si concludeva con l’immagine retorica della bandiera sabauda che sventolava vittoriosa. Poi la macchina da presa si spostava in panoramica verso il basso, mostrando un gruppo di anziani reduci garibaldini che rendevano omaggio ai giovani balilla in parata: un tentativo patetico che s’inseriva negli intenti del regime di dimostrare l’ideale continuità fra il Risorgimento e il fascismo. L’opera di Blasetti doveva celebrare il Cinquantesimo della morte di Garibaldi ricostruendo lo sbarco dei Mille in Sicilia, evidenziando, al contempo, il contributo determinante dei picciotti siciliani.
Girato a Valguarniera, un villaggio abbandonato nei pressi di Partinico, il film è ritenuto un’anticipazione del Neorealismo italiano: in effetti Blasetti rinnova il genere storico cinematografico rifiutando i teatri di posa e gli attori professionisti.
Viva l’Italia di Roberto Rossellini (1961) ha aperto, in gennaio, la seconda partizione del ciclo, quella del 2011. Una svolta definitiva nel cinema del maestro: la scoperta della televisione come strumento didattico e il conseguente approdo al cosiddetto “cinema didascalico”, cioè a un cinema che si avvaleva di un notevole accumulo d’informazioni e di documenti per ricostruire le vicende storiche secondo le versioni più accreditate. Si trattava quindi di cercare di rievocare gli avvenimenti come si erano svolti realmente, utilizzando anche i “detti memorabili”, quando fossero stati suffragati da documenti attendibili. Per fare un esempio: “Qui si fa l’Italia o si muore!”.
Come i lavori di Magni e di Combret, anche Viva l’Italia è stato permesso dalla collaborazione fra l’Italia e la Francia. Il regista si è avvalso delle recitazioni di Renzo Ricci, Paolo Stoppa, Franco Interlenghi, Giovanna Ralli, Raimondo Croce.
Approfittando del centenario dell’Unità (1861-1961), Rossellini ricostruisce l’impresa di Garibaldi in Sicilia dallo sbarco a Marsala fino all’incontro di Teano. Il cinema diventa così un grande libro da sfogliare per leggervi la storia d’Italia. Il testo non è più riservato a pochi addetti ai lavori, ma è destinato a raggiungere un pubblico molto vasto proprio grazie alla diffusione televisiva.
In un primo tempo il film avrebbe dovuto assumere il titolo Paisà 1860, con l’ambizione di riproporre la tensione morale ed emotiva del capolavoro del ’46 sulle condizioni dell’Italia alla fine della Seconda guerra mondiale. Realizzato seguendo le truppe alleate liberatrici dalla Sicilia fino al Veneto e sottolineando il potente contributo alla liberazione nazionale dato dai partigiani. Così si è espresso, in proposito, lo sceneggiatore triestino Sergio Amidei: “In entrambi i film ci troviamo di fronte ad un esercito di liberatori che conquistano paesi e popolazioni di cui ignora i problemi reali. In entrambi i film si verifica un incontro tra persone che stentano a capirsi, riversando i liberati un carico di speranze troppo pesanti sulle spalle dei liberatori e avendo questi ultimi idee di libertà troppo vaghe, astratte e utopistiche per esercitare un potere d’attrazione sulle masse affamate del Mezzogiorno”. Una continuità fra il Risorgimento e la Resistenza.
Nel corso della lavorazione le cose sono cambiate, portando alla rottura con lo stesso Amidei e Antonello Trombadori, perché Rossellini ha voluto accentuare il concetto di “storicità”, escludendo l’interpretazione storica e rimanendo così al di fuori degli eventi. Si limita a ricostruirli sulla base dei documenti autentici. Un’operazione di questa natura raggiungerà il massimo risultato con il film La presa del potere di Luigi XIV (1966). Di contro è stata posta particolare attenzione allo studio della sequenza iniziale de Il Gattopardo di Luchino Visconti (1963), in cui – come è noto – viene filmata l’irruzione della storia nella fissità secolare del regime feudale, il turbamento di una quiete atavica, la rottura di un ordine, il segnale di una fine ormai imminente (soprattutto attraverso le inquadrature della recita del Rosario serale e la scoperta del soldato morto nel parco della villa dei Salina a Palermo). Ha fatto seguito la sequenza del colloquio tra il principe (“il vecchio”) e Tancredi (“il nuovo”) per evidenziare come Giuseppe Tomasi di Lampedusa prima e Visconti poi optino per un’interpretazione della storia causticamente pessimista, svuotata da qualsiasi istanza progressiva: “Se vogliamo che tutto cambi, tutto deve rimanere com’è!”, sono le pluricitate parole profferte da Tancredi, entrate nel linguaggio comune. Lo scrittore aveva tratto ispirazione dalla vita del bisnonno, principe Giulio Fabrizio.
Infine è stata la volta della sequenza della battaglia di Palermo, girata come un grande affresco durante il quale non sono taciuti gli esiti violenti della vicenda garibaldina: in una rivoluzione – ci dice Visconti – anche la violenza più feroce diventa inevitabile.
Bronte: Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, regia del ferrarese Florestano Vancini (1972, Italia-Jugoslavia), assume invece la caratteristica di una “cinecronaca”. Qui la storia è vista dal basso, dalla parte di coloro che generalmente non ne sono gli artefici, semmai i soggetti passivi.
Compiendo un salto a ritroso nel tempo ma conservando lo sguardo culturale del presente, che è l’anno 1972, ci s’immerge nei tragici accadimenti del paese siciliano che vide la dura e sostanzialmente gratuita violenza, da parte dei garibaldini di Nino Bixio, contro una rivolta contadina in prevalenza esplosa per ottenere la terra. La speranza, che era stata accesa proprio dall’arrivo di Garibaldi in Sicilia, fu annullata dalla repressione giustificata da Bixio con la necessità di riportare l’ordine di fronte al pericolo di una deriva rivoluzionaria popolare. Si può asserire che, in questa come in altre occasioni, il cinema finisce con il conferire all’evento una notorietà che altrimenti non avrebbe avuto.
L’utilizzo della macchina da presa portata a spalla permette di penetrare le stamberghe dei contadini per prendere atto della loro miseria; di situarsi, o meglio immedesimarsi, tra la folla dei manifestanti per riuscire a comprendere più visceralmente l’esasperazione che li ha portati alla rivolta.
Gli episodi narrati sono tutti rigorosamente documentati, tanto che nei titoli di coda sono citate correttamente le fonti. Lo scorrere della vicenda incrementa l’autorevolezza degli addetti ai lavori, accresce nello spettatore la convinzione che non ci si trovi al cospetto di una fiction. Anche se il Verga della novella Libertà è la fonte ispiratrice principale del regista, si preferisce evitare qualsiasi intenzione “romanzesca”, come sarebbe invece proprio del mezzo cinematografico.
È stata quindi la volta di Senso di Luchino Visconti (1954), libera trascrizione per il grande schermo del racconto Senso. Nuove storielle vane (1883) di Camillo Boito, “scapigliato” più architetto che scrittore, fratello maggiore di Arrigo. Come nella novella ispiratrice, la cui trama ha però contenuti tutt’altro che patriottici, anche il film è narrato in prima persona. Racconta la tragica e passionale tresca, una liaison dangereuse tra la contessa Serpieri, patriota che tradisce per amore, e un ufficiale austriaco codardo e corrotto. Visconti dilata i limiti temporali fino ad accogliere le vicende del 1866, la Terza guerra di indipendenza con l’annessa disfatta di Custoza.
La trama passionale è preponderante rispetto alla vicenda storica, sottraendo vigore e incisività alla tesi che sta a monte del film: il Risorgimento visto secondo l’interpretazione gramsciana di rivoluzione borghese incompiuta.
La sequenza iniziale all’interno del teatro La Fenice di Venezia, durante la rappresentazione del Trovatore Giuseppe Verdi, su libretto di Salvadore Cammarano, fornisce la chiave di lettura dell’intero film. La macchina da presa avanza fino al proscenio, penetra a fondo nel palcoscenico e, oltre a mostrarci la scena rappresentata, inquadra anche i tecnici del teatro, a suggerire come appunto si tratti di uno spettacolo, proprio mentre si avvicina il momento della celebre aria, la cabaletta Di quella pira l’orrendo foco, intrisa di suggestioni libertarie. Tenendo in campo il tenore, la macchina in panoramica inquadra gli orchestrali, una parte della platea, i palchi nobili, su verso il pubblico del loggione, ove si sta preparando la manifestazione antiaustriaca. Uno stacco, poi la macchina da presa indugia di nuovo sul palcoscenico, stavolta però dall’alto verso il basso: è il punto di vista dal quale – secondo Visconti – si deve guardare alla storia. Più volte, nel corso del film, questo punto di osservazione sarà ripetuto. Lo scorrere del tempo inteso come un melodramma. Infatti, proprio perché il melodramma, come genere teatrale, si colloca al confine tra la vita e il teatro, facilita la lettura della vita come teatro.
La battaglia di Monterotondo del 1867, anticipatrice della sconfitta di Garibaldi a Mentana, fa da sfondo al primo dei sei episodi del film Cento anni d’amore (1953) di Lionello De Felice (regista già assistente di Blasetti). Intitolato Garibaldina, è ispirato ad un racconto di Guido Gozzano.
L’amore fra una giovane camicia rossa e la nipote del proposto di Monterotondo, un parroco di campagna, dà vita ad una simpatica schermaglia fra preti e mangiapreti. Un saggio di commedia dove tutto – ivi compreso il Risorgimento – si conclude secondo il classico e quasi scontato lieto fine “a tarallucci e vino”. L’arcinota possibile variante de “gli italiani brava gente”. Questa rarità cinematografica è stata proposta anche per recuperare il gusto di un cinema ormai del tutto scomparso, la “commedia all’italiana”.
L’ultimo atto del ciclo, proiettato sempre più a ridosso dell’anniversario, la sera del 4 marzo, Il brigante di Tacca del lupo di Pietro Germi (1952), è stato giudicato il film di genere storico su argomento risorgimentale più moderno fra quelli che sono stati girati negli anni Cinquanta. Germi, moralista genovese avvinto dal meridione d’Italia, ha beneficiato di prestigiosi collaboratori alla sceneggiatura quali Federico Fellini, Tullio Pinelli e Fausto Tozzi. Racconta le conseguenze subitanee della “liberazione” del Sud, vale a dire la guerra civile (più o meno riconosciuta) che ne è seguita e che al tempo si pensò di celare sotto la dispregiativa, più banditesca e occasionale definizione di “brigantaggio”. Fatti oggi comunemente ricondotti nell’insieme complesso del cosiddetto “Grande brigantaggio”, fenomeno insurrezionale che vide i contadini meridionali e gli ultimi rimasugli dell’esercito borbonico cercare di “liberarsi dai liberatori”, unendosi talvolta a bande di briganti nel senso più tradizionale della qualificazione.
Restano memorabili le parole pronunciate dal capitano dei bersaglieri Giordani, un Amedeo Nazzari che troneggia in scena con le sembianze del “monumento di sé stesso”. Intendono sunteggiare le inquietudini del pur solido protagonista: “Bella idea quella di Garibaldi di venire a liberare il Meridione. Dovrebbe venire lui ora a fare la guerra contro i briganti!”.
L’ufficiale è un uomo all’antica, “tutto d’un pezzo” si soleva dire; esente da dubbi e incertezze sul proprio agire, all’opposto del protagonista del romanzo omonimo di Riccardo Bacchelli, da cui il film è stato tratto. Dipinge i nemici indigeni come “un’accozzaglia di ladri, assassini, stupratori”, senza sforzarsi di provare a capire le radici di azioni così drammatiche.
Al Giordani si contrappone il commissario di polizia Francesco Siceli, nativo del Sud, che cerca invece di adoprare astuzia e buon senso per comprendere le motivazioni e le tattiche dei contadini in rivolta. Non ha nessuna fretta di chiudere le operazioni di pubblica sicurezza e preferisce dialogare con la popolazione per ottenere risultati condivisi, usando vie incruente.
Nonostante la figura energica del loro comandante, gli “eroi piemontesi” appaiono stanchi, demotivati, persino delusi. Hanno smarrito la voglia di fare il Risorgimento a vantaggio di gente del luogo che, invece di combattere, se ne sta tranquillamente seduta ai tavolini dei caffè. Neppure gli scontri con i briganti danno corpo a elementi epici e a gesti valorosi: i soldati dell’esercito regolare si mostrano, non di rado, peggiori dei cosiddetti “cattivi”. Dai quali, in ogni caso, hanno rapidamente appreso i metodi brutali.
Pietro Germi non è un regista che prende posizione, che si schiera: nel film ognuno ha le proprie ragioni da sostenere e i suoi torti. I nordisti nel voler imporre il progresso, la modernità, il senso del futuro; i sudisti nel difendere la loro arretratezza e, in fondo, la propria terra, le radici e le tradizioni. Per più analogie e per l’ambientazione cinematografica, allo spettatore (mutatis mutandis) può sembrare di assistere a un film girato secondo gli stilemi Western di John Ford.
La scelta delle otto pellicole non è stata animata dalla volontà di offrire un omaggio celebrativo, encomiastico, sulla scia dell’occasione offerta dall’anniversario. Piuttosto dovrebbe essere intesa come un tentativo di stimolare alla ricerca e all’approfondimento delle problematiche proposte. Non si è voluto fornire né favorire una visione univoca del Risorgimento – ci ripetiamo –, ma sforzarsi di illustrarne le varie sfaccettature.
Nello stendere, immodestamente, un bilancio finale dell’operazione culturale, riteniamo che il gradimento del pubblico, confermato dalle richieste di prosecuzione dell’iniziativa, abbia confermato la validità dell’indirizzo. Cioè una scelta sufficientemente vincente, se non “avvincente”.
Purtroppo non si può non notare, in un bilancio complessivo (forse retorico e ovvio), che nella città di Arezzo occasioni da non sottovalutare, come potrebbe essere questa, rischiano di rimanere a sé stanti. Confinate e circoscritte a un gruppo seppur non esiguo di aficionado. Poco coordinate con l’insieme delle altre iniziative pubbliche. Slegate dal livello politico istituzionale e ignorate dalla maggioranza dei cittadini, sempre più votati a film “facili”, attuali e commerciali.
La lettura delle vicende italiane e la formazione dello Stato nazionale sconta, altresì, prevenzioni paraideologiche nei confronti delle correnti cinematografiche in voga nei vari periodi. In soldoni, anche nel situarsi rispetto alla filmografia, si riflettono le divisioni e gli schieramenti di matrice politica. Con buona probabilità uno degli esiti della diffusione del “banalizzare” la ricostruzione del passato.
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1942 Saggio su la rivoluzione, a cura di G. Pintor, Torino, G. Einaudi.