Il Sessantotto raccontato dai sessantottini: il valore della storia orale

di Andrea Hajek

Abstract

Nel 2013 il Sessantotto celebra il suo 45º anniversario. Potrà finalmente superare le divisioni che hanno provocato, nei decenni precedenti, le varie appropriazioni e usi strumentali di questo passato che non passa, per diventare un fenomeno storico da studiare senza pregiudizi? O continueranno a dominare le memorie individuali e collettive? Questo articolo riassume i contenuti di un numero speciale della rivista inglese “Memory Studies” dedicata alla ricerca sul Sessantotto tramite la storia orale, occupandosi dei vari percorsi e narrazioni del Sessantotto e di come si può produrre una storia più complessa e onnicomprensiva che va oltre le memorie pubbliche promosse dai leader di movimenti, dai mass media, e dalla storiografia tradizionale. In altre parole, esso mette in dubbio quelle memorie dominanti che hanno da sempre monopolizzato la memoria del Sessantotto facendo ricorso ad una metodologia di ricerca che fiorì proprio in quegli anni.

Abstract English

In 2013, 1968 celebrates its 45th anniversary. Will it finally be able to overcome the divisions that have produced, over the past decades, appropriations and instrumental uses of a past that will not pass, in order to become at last an historical phenomenon that can be studied without prejudice? Or will individual and collective memories continue to dominate? This articles summarizes the contents of a special issue of the journal “Memory Studies” on research into 1968 through oral history methodology, which deals with the various trajectories and narratives of 1968 and with the way we can produce a more complex and inclusive history which goes beyond public memories that are promoted by protest leaders, mass media and traditional historiography. In other words, it challenges those dominant memories that have monopolized the memory of 1968 by drawing on a research methodology that flourished in those precise years.

Quest’anno il Sessantotto celebra il suo 45º anniversario. I riti di commemorazione e di celebrazione, che sono andati crescendo dal 20° anniversario in poi, sono culminati nel 2008, portando addirittura una parte della destra di allora (l’ex Alleanza nazionale di Gianfranco Fini) ad appropriarsi della memoria del Sessantotto. Questo dimostra quanto l’esperienza del Sessantotto – ma la stessa cosa si può dire per gli anni Settanta, dei quali ho parlato in un articolo precedente (http://www.storiaefuturo.com/it/numero_29/didattica/3_stragismo-tv~1508.html) – in Italia siano sottoposti ad un uso strumentale e politico del passato. Si pensi, ad esempio, all’attacco che fece Nicolas Sarkozy, durante la sua campagna elettorale del 2007, all’eredità del Sessantotto in Francia: secondo l’ex-presidente, l’eredità del Sessantotto avrebbe indebolito l’autorità dello Stato. Inoltre, la resistenza dei protagonisti dei movimenti di protesta stessi ad entrare a far parte della storia se non attraverso i ricordi personali di un gruppo ristretto di persone ha ulteriormente ostacolato un approccio più complessivo, imparziale e più o meno oggettivo al Sessantotto.

Lo storico inglese Robert Gildea ha definito queste due interpretazioni opposte dell’eredità del Sessantotto in quanto “una celebrativa, di liberazione sia individuale che sociale, e una demonizzante, di discesa nel caos, che sia di edonismo privato o violenza politica o complicità con il totalitarismo” (2013, 46). Già Arthur Marwick, nel suo imponente volume sugli Anni Sessanta del 1998, ha parlato di una dicotomia nel modo in cui il Sessantotto è stato interpretato e commemorato, parlando però in termini ideologici: “Agli occhi della sinistra radicale, è l’era della rivoluzione imminente, che fu tradita dalla fiacchezza dei fedeli e dall’imbroglio del nemico; per la destra radicale, è l’era di sovversione e di depravazione morale” (3). Una tale divisione netta non si può più sostenere, tuttavia: il discorso negativo sul Sessantotto che Marwick attribuisce alla destra è stato sostituito, recentemente, da una certa appropriazione quasi nostalgia della memoria del Sessantotto da parte di alcuni esponenti di destra, nei due paesi dove il Sessantotto ha pesato di più: la Francia e l’Italia. Ho già accennato al tentativo della destra di Fini, pur con disaccordi interni, di decostruire l’immagine del Sessantotto in quanto fenomeno di sinistra: nel gennaio del 2008, la rivista mensile di Alleanza nazionale, “Charta minuta”, tentò di diffondere l’idea di un Sessantotto esistenziale e generazionale che potesse “liberare” questo passato dal peso ideologico, e renderlo condivisibile anche a destra (Hajek 2013). Nello stesso anno, la rivista di destra francese,Le Choc du Mois”, dedicò il numero di maggio proprio al Sessantotto visto da destra (Gordon 2010).

Questi due esempi mostrano quanto la memoria del Sessantotto non sia più la proprietà o il possesso esclusivo di un gruppo unico di “agenti di memoria”, come si suol dire. Essi riflettono ciò che Michael Rothberg ha definito – nel suo stimato libro sul rapporto complesso tra l’Olocausto e il postcolonialismo – una “memoria multidirezionale”, ovverosia una memoria “soggetta a negoziazioni continue, riferimenti incrociati, e appropriazioni” (2009, 3). A quarantacinque anni di distanza, les années 68 potranno finalmente superare le divisioni che hanno portato a queste appropriazioni del passato, per diventare un fenomeno storico da studiare seriamente e senza pregiudizi? O continueranno a dominare le memorie individuali e collettive? Il numero speciale di gennaio 2013 della rivista inglese “Memory Studies” si occupa dei vari percorsi e narrazioni del Sessantotto, di come si può produrre una storia più complessa e onnicomprensiva che va oltre le memorie pubbliche promosse dai leader di movimenti, dai mass media, e dalla storiografia tradizionale. In altre parole, esso mette in dubbio quelle memorie dominanti che hanno da sempre “monopolizzato la memoria del Sessantotto” (Waters 2010, 10).

Questa rielaborazione della storia e memoria del Sessantotto viene effettuata attraverso la storia orale, una metodologia che da sempre è stata criticata per via della sua presunta inaffidabilità e mancanza di oggettività (Thomson 2006, 53). Come spiega Lynn Abrams, scrittrice del primo libro teorico sulla storia orale, “la professione storiografica ha tenuto la storia orale a distanza di sicurezza, diffidando di essa in quanto ritenuta una fonte storiografica illegittima” (2010, 5). Fu solo dopo la Seconda guerra mondiale che la storia orale cominciò ad essere considerata come un metodo di ricerca vero e proprio (Thomson 2006, 51). Soprattutto negli anni Settanta l’idea che la storia orale fosse inaffidabile o “ingenua” venne attaccata da persone come Alessandro Portelli e Luisa Passerini, dimostrando che il lato soggettivo della storia orale è invece il suo punto di forza, aiutando il ricercatore a capire meglio il rapporto tra memoria ed identità, tra passato e presente (54).

Un’altra caratteristica della storia orale è il fatto che offre una moltitudine di punti di vista, dando così voce e spazio a coloro che non sono mai riusciti ad entrare nella storia tramite la storiografia tradizionale (Abrams 2010, 24-25). Questo elemento percorre quasi tutti gli articoli nel numero speciale di “Memory Studies”, intitolato Challenging dominant discourses of the past: 1968 and the value of oral history (Sfidare i discorsi dominanti del passato: il Sessantotto e il valore della storia orale). Gli articoli sono stati sviluppati a partire dagli interventi in un seminario interdisciplinare sullo stesso argomento, tenutosi all’Università di Warwick (Inghilterra) nel 2011 e che ha portato, successivamente, alla creazione della Rete di storia orale (il numero speciale contiene un riassunto del seminario scritto da Simone Varriale). Gli articoli sono stati scritti da ricercatori e studiosi provenienti da discipline varie e che si trovano in fasi diversi della loro carriera, e si concentrano su quattro paesi: la Francia, la Germania, l’Inghilterra e l’Italia.

Il numero apre con un articolo che non si basa su interviste, ma che propone una revisione degli studi sul Sessantotto italiano. In fondo, l’Italia non è solo il paese dove il Sessantotto ha avuto l’impatto più forte, continuando fino alla fine degli anni Settanta, ma è anche una delle patrie della storia orale, che ha prodotto alcuni tra i più rinomati storici orali (Portelli e Passerini) e che ha contribuito alla rivalorizzazione della storia orale. Bruno Bonomo discute un corpo di testi storici e più recenti sul Sessantotto italiano, alcuni dei quali tornano negli altri articoli, tra cui l’immancabile Autoritratto di gruppo di Passerini, ma anche il volume collettivo curato da Ronald Fraser, 1968. A Student Generation in Revolt. Bonomi nota come la storia orale è diventata sempre più “di moda”, dalla pubblicazione – nel 1988 – di questi due libri chiave fino al giorno d’oggi. Questo si riflette soprattutto nell’analisi dell’altro Sessantotto, specie il Sessantotto fuori dalle metropoli, il Sessantotto non dei leader ma della gente comune, dei genitori, dei carabinieri che si trovarono dall’altra parte delle barricate, ecc. Tutto sommato, partendo dall’idea della “presa della parola” collettiva che ha marcato les années 68, Bonomo spiega il rapporto tra il Sessantotto e la storia orale e traccia lo sviluppo della ricerca (di storia orale) sul Sessantotto negli ultimi quarant’anni.

Il secondo articolo si sofferma sul famoso libro di Luisa Passerini, paragonandolo con un altro libro sperimentale e autobiografico pubblicato nello stesso periodo: Landscape for a Good Woman: A Story of Two Lives (1986) della storica inglese Carolyn Steedman. Entrambe le scrittrici fanno parte della generazione del Sessantotto, ma hanno un rapporto diverso con le loro esperienze di quell’anno: se il conflitto generazionale è presente nell’opera sia di Passerini che di Steedman, quest’ultima “scredita l’idea di far parte di una generazione amareggiata di figlie”, rispecchiando così una società che non ha avuto né il conflitto né il discorso generazionale che ha avuto l’Italia (2013, 30). Joseph Maslen discute i due testi concentrandosi sulla dinamica delle narrazioni personali e sociali che producono i due libri e sul concetto dell’identità generazionale che torna anche in altri contributi, in particolare nell’articolo di Anna von der Goltz, l’autrice di una recente pubblicazione sui conflitti generazionali del Sessantotto. Nella sua analisi dei percorsi politici di militanti della Germania dell’Est, dopo l’invasione sovietica dell’ex-Cecoslovacchia nell’agosto del 1968, Von der Goltz affianca i discorsi più dominanti e comuni che mettono enfasi sulla “resistenza contro la dittatura” a quei discorsi che meno facilmente si possono collegare al discorso della resistenza. Sono quei discorsi dove la sconfitta delle riforme socialiste del 1968 diventano “un impulso per rinunciare all’opposizione esplicita a favore di una ricerca di cambiamento all’interno delle istituzioni” (2013, 56). Qui la storia orale si rivela particolarmente importante nel dare la possibilità agli intervistati di creare ciò che Graham Dawson ha chiamato “composure” o contegno, cioè la costruzione di una versione del proprio essere con cui il narratore riesca a convivere (Summerfield 2004). Questo fa sì che il narratore/intervistato possa raccontare una storia che non sia determinata dai discorsi dominanti e pubblici sul passato che, come ci spiega Von der Goltz, riducono la Germania dell’Est “ad uno sperimento sfortunato di dittatura, che non riescono a prendere sul serio l’idealismo che ha portato molti a sostenere il progetto Socialista – anche dopo il 1968” (Von der Goltz 2013, 66).

Lo stesso concetto di “composure” è fondamentale per l’analisi che porta avanti la giovane ricercatrice Celia Hughes, nel suo contributo sulla sinistra radicale inglese impegnata nella campagna di solidarietà per il Vietnam, alla fine anni Sessanta. Il suo approccio è più psicologico rispetto a quello di Von der Goltz, incentrato sul suo rapporto personale con gli intervistati (quello che Abrams definisce un rapporto “inter-soggettivo’) e sull’effetto della differenza di genere, nel caso di intervistati di sesso maschile. Concentrandosi su due interviste con un uomo e una donna, Hughes dimostra in effetti come la sua giovane età, il suo sesso e la sua personalità hanno influito sulle interviste e sugli intervistati, per quanto riguarda il livello di “composure” che i due intervistati sono riusciti – o, al contrario, non sono riusciti – a ottenere durante l’intervista. Un uomo che militò nel gruppo trotskista International Socialist, ad esempio, cambiò completamente atteggiamento quando Hughes passò dal tema della sua militanza politica al tema dei suoi rapporti personali. L’uomo – che non si era mai sposato – era evidentemente imbarazzato dalle domande sulla sua vita intima. Tuttavia, il suo non era solo un silenzio individuale ma anche collettivo:

Una parte della delusione che Norman espresse alla fine dell’intervista può anche esser stato il riflesso di una sua realizzazione che io impersonavo quel discorso personale e politico della cultura moderna che ha nutrito le autobiografie delle scrittrici femministe. Per lui questa cultura aveva limitato lo spazio disponibile per poter rappresentare le sue proprie memorie politiche […]. Può essere stato che nel mio linguaggio di sensibilità e di sensazioni Norman ha sentito degli echi di ciò che per lui è stato un nuovo e sgradevole linguaggio maschile della politica di sinistra, il cui arrivo fu legato all’erosione del vecchio cuore industriale e labourista e ad una virilità militante e operaia che lui ed altri militanti dell’International Socialist avevano portato avanti (2013, 81).

Lo storico Robert Gildea, invece, si occupa di memorie individuali e collettive nella sua discussione di una serie di interviste con alcuni ex-sessantottini francesi, il loro percorso di vita e l’attuale interpretazione della loro militanza politica. La sua ricerca – come quella di Von der Goltz – si inserisce in un progetto collettivo: “Around 1968: Activism, Networks, Trajectories” (“Intorno al 1968: Attivismo, Reti, Percorsi”, http://www.history.ox.ac.uk/research/project/around-1968-activism-networks-trajectories.html), che si svolse tra il 2007 e il 2010, coinvolse quattordici studiosi che hanno intervistato cinquecento ex-militanti in quattordici paesi europei. Nel suo contributo al numero speciale, Gildea ha selezionato cinque interviste con uomini e donne provenienti da contesti culturali diversi e a volte marginali rispetto ai temi principali del Sessantotto, seppur rappresentativi di altri elementi importanti di quegli anni come la violenza politica, la posizione degli immigrati nord-africani nella società francese, o l’attivismo gay, per discutere i loro tentativi di negoziare tra memorie private, memorie di gruppo e memorie culturali o pubbliche del Sessantotto francese.

Questa attenzione alle zone emarginate della militanza è centrale, infine, anche ad un ultimo articolo scritto di Sofia Serenelli, che ci riporta al caso italiano dal quale è partito il numero speciale. Serenelli racconta la storia di una comunità hippy di Macerata, una città ancora molto rurale e Cattolica in quegli anni e dunque l’oggetto ideale di una micro-storia del Sessantotto al di fuori dai centri urbani. Inoltre, Serenelli indaga sul lato privato del Sessantotto, esaminando la scoperta di nuove identità generazionali e di genere da parte di questa piccolo comunità, ma anche la presenza di silenzi individuali e collettivi (sul tema del silenzio si veda anche Foot 2010).

Tutto sommato, i contributi di questo numero speciale valutano i vantaggi e i limiti della storia orale come metodologia nella ricerca del Sessantotto. Essi dimostrano come la storia orale può sia costruire che rovesciare i discorsi esistenti sul passato, rivelare i rapporti tra memorie individuali e collettive, e valutare l’impatto di esperienze personali e politiche sulle proprie identità.

Biografia

Andrea Hajek ha ottenuto il suo dottorato di ricerca presso l’Università di Warwick (Inghilterra), con una tesi sulle memorie pubbliche del movimento studentesco del 1977 a Bologna, in corso di pubblicazione presso Palgrave Macmillan. Dal 2009 lavora come assistente editoriale per la rivista “Memory Studies” (Sage), e dal 2010 per la rivista “Modern Italy” (Taylor & Francis). È tra le fondatrici della Rete di Storia Orale dell’Università di Warwick. Oltre a memoria culturale e collettiva, movimenti di protesta e storia orale, si occupa di memorie digitali e visive, terrorismo nella didattica italiana, genere, e trauma. Pubblica in riviste academiche e su alcuni blog academici e culturali (gli articoli si possono scaricare su: http://factotumish.wordpress.com/). Email: andreahajek@gmail.com

Biography

Andrea Hajek received her doctorate from the University of Warwick (UK). Her dissertation was on the public memories of the 1977 student movement in Bologna (Italy) and is currently being prepared for publication with Palgrave Macmillan. Since 2009 she is the Senior Editorial Assistant for the Sage journal of “Memory Studies”, and she is an Associate Editor for “Modern Italy” (Taylor & Francis). She is a founding member of the Warwick Oral History Network. Other than cultural and collective memory, protest movements and oral history, her research interests include digital and visual memories, terrorism in Italian history education, gender, and trauma. She publishes in academic journals as well as on a number of academic and cultural blogs (articles can be downloaded at: http://factotumish.wordpress.com/). Email: andreahajek@gmail.com

Bibliografia

Abrams L.

2010                Oral History Theory, London-New York, Routledge.

 

Cornils I., Waters S. (cur.)

2010    Memories of 1968. International Perspectives, Oxford, Peter Lang.

 

Gordon D.

2010                Memories of 1968 in France: Reflections on the 40th Anniversary, in  Cornils, Waters.

 

Foot J.

2010                Looking back on Italy’s Long ’68”. Public, Private and Divided Memories, Cornils, Waters.

 

Hajek A.

2013                The legacy of protest. Negotiating memories of dissent in Western Europe, Basingstoke, Palgrave Macmillan.

 

Marwick A.

1998                The Sixties: Cultural Revolution in Britain, France, Italy and the United States, c.1958c.1974, Oxford, Oxford University Press.

 

Rothberg M.

2009                Multidirectional memory: remembering the Holocaust in the age of decolonization, Stanford, CA: Stanford UP.

 

Summerfield P.

2004                Culture and Composure: Creating Narratives of the Gendered Self in Oral History Interviews, in “Cultural and Social History”, n. 1.1.

 

Thomson A.

2006                Four Paradigm Transformations in Oral History, in “The Oral History Review”, n. 34.1.

 

Waters S.

2010    Introduction: 1968 in Memory and Place, in Cornils, Waters.

Siti consigliati

Informazioni sul progetto collettivo sul Sessantotto in Europa, “Around 1968”: http://www.history.ox.ac.uk/research/project/around-1968-activism-networks-trajectories.html

 

Sito web della rivista “Memory Studies”:

http://mss.sagepub.com/

 

Sito web della Rete di Storia Orale dell’Università di Warwick, Inghilterra: http://www2.warwick.ac.uk/fac/cross_fac/ias/current/networks/oralhistory