Recensione di Alberto Malfitano
Isabella Insolvibile è una giovane studiosa della Seconda guerra mondiale e si occupa in particolare delle vicende che hanno riguardato le forze armate italiane nel periodo 1943-45. Dopo aver recentemente pubblicato una bella ricerca che ha fatto luce su uno degli episodi tragici e poco noti successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943, la strage nazista di Kos, l’isola greca dove 96 ufficiali italiani furono fucilati dall’esercito tedesco dopo una breve resistenza, è ora la volta di un volume che racconta, con grande dovizia di documentazione, una vicenda per certi versi meno drammatica ma molto più ampia: la prigionia in Inghilterra di decine di migliaia di italiani, presi prigionieri soprattutto sui campi di battaglia nordafricani dove, tra l’estate del 1940 e il maggio del 1943, si susseguirono offensive e controffensive tra Libia e Egitto.
Prendendo spunto dal nomignolo venato di razzismo con cui gli inglesi erano soliti chiamare i prigionieri italiani, quel “Wops” che era sia l’anagramma di “Pows” (“prigionieri di guerra”) sia l’anglicizzazione del termine “guappo”, l’autrice utilizza archivi italiani e britannici per ricostruire l’intera vicenda e colmare una grave lacuna storiografica. In effetti, mentre le vicende degli italiani prigionieri della Germania dopo l’armistizio sono state ormai affrontate e sono conosciute, come anche quelle degli italiani caduti nelle mani dell’Unione Sovietica, il dramma degli italiani prigionieri degli Stati Uniti, e ancora di più della Gran Bretagna, ha dovuto attendere più a lungo per essere ricostruito e analizzato.
È chiaro che coloro che caddero in mano degli inglesi non soffrirono nemmeno lontanamente le pene di chi affrontò la prigionia in Siberia o nel Terzo Reich, come l’autrice opportunamente ricorda. La loro condizione fu incomparabilmente migliore, a partire dalle condizioni dell’alloggio e del vitto; ma pur sempre di prigionia si trattò, venata di disprezzo per quei soldati che, male armati e addestrati superficialmente, avevano combattuto contro uno degli eserciti più potenti del mondo per volontà della dittatura fascista, e da quello erano stati catturati, tornando poi molto utili all’economia britannica. Priva infatti della maggior parte dei propri giovani, impiegati nelle forze armate, la Gran Bretagna sfruttò i prigionieri italiani adibendoli a lavori prettamente agricoli, ma utilizzandoli a volte anche per costruire fortificazioni o difese militari, preferendoli ai tedeschi e persino agli irlandesi, ritenuti meno affidabili rispetto alla “docile e apolitica” massa di prigionieri italiani, la cui consistenza crebbe dagli 80.000 circa del 1943 agli oltre 155.000 di inizio 1945. Eppure la cobelligeranza avrebbe dovuto modificare lo status degli italiani, ma il governo inglese ebbe sempre come obiettivo prioritario quello di sfruttare al meglio la forza lavoro costituita dalla massa dei prigionieri, per cui anche la modifica dello status in “cooperatori” risultò di scarsa efficacia e venata di troppe ambiguità per cambiare veramente la loro condizione. Non a caso – come la Insolvibile sottolinea – non si tentò nemmeno di arruolare i prigionieri disponibili per inviarli a combattere in Italia contro il nazifascismo, ritenendoli troppo preziosi per i lavori cui erano di volta in volta destinati. La permanenza in Gran Bretagna fu poi aggravata dal disprezzo e dalla diffidenza di gran parte della popolazione civile, che nel complesso non amò quegli uomini, anche perché preoccupata dai numerosi episodi di fraternizzazione con le ragazze locali, donne che spesso pagarono anche dopo la fine della guerra le relazioni con gli italiani, al punto da non poter ricorrere nemmeno a eventuali “matrimoni riparatori” per l’opposizione del governo inglese.
Sebbene assai meno drammatica delle altre, anche quella inglese fu per i soldati italiani un’esperienza assai poco felice, e di certo non poteva che essere altrimenti. Non solo si protrasse a lungo, fino al 1946, per la riluttanza del governo inglese a privarsi di quella manodopera così preziosa, ma anche per le responsabilità di quello italiano, che dapprima cercò di sfruttarli come “merce di scambio” per migliorare la propria posizione nei confronti degli Alleati, poi tutt’altro che entusiasta, nel caotico passaggio del dopoguerra, alla prospettiva di farsi carico di tutti quegli uomini che tornavano a casa e avevano bisogno di un lavoro.
Il bel volume della Insolvibile si ferma qui, non però senza alcune considerazioni importanti: innanzitutto ricordando che la prigionia fu una conseguenza della guerra voluta da Mussolini, la cui colpa quindi non può essere attribuita alla Gran Bretagna; in secondo luogo, che gli italiani che, infine, tornarono dai campi inglesi, si ritrovarono in un paese che voleva soprattutto dimenticare quanto successo. Quegli uomini, che avevano conosciuto la guerra ma non la Resistenza, e nemmeno la scelta drammatica cui furono sottoposti gli Internati militari (IMI) in Germania dopo l’8 settembre, a favore o contro il nazifascismo, ma che soffrirono una lunga prigionia, furono i protagonisti di una storia”poco eroica”, fatta soprattutto di non scelte e lontana dall’epopea della Resistenza. E tuttavia, meritevole di essere ricordata sia perché tale dev’essere il lavoro dello storico, di illuminare ogni angolo della storia del proprio paese, specie quando è così rilevante, sia perché le vicissitudini, piene di ombre e poche luci, di quegli uomini, che tornarono in patria smarriti e frastornati, facevano parte delle vicende di un Paese che cercava faticosamente di rinascere sulle rovine della devastante guerra voluta dal fascismo.