La divulgazione artistica in tv tra accademismo e spettacolarità

di Benedetta Fiorani

Se qualcuno ci domandasse “Che cos’è la televisione?” saremmo tutti in grado di fornire una spiegazione chiara e consapevole circa le caratteristiche fisiche e sociali di questo mezzo di comunicazione di massa? E la storia che lo ha accompagnato nel corso di questi cinquant’anni, e le dinamiche politiche, economiche e culturali che hanno permesso una sua repentina ascesa a mezzo indiscusso di intrattenimento e di divulgazione? Al giorno d’oggi il mezzo televisivo è infatti considerato dai più uno sterile strumento di involuzione e di isolamento sociale, nel quale l’assoluta prevalenza di concetti come spettacolarità, celebrità, artificiosità ed esagerazione, ha radicalmente offuscato i nobili ideali che l’avevano eletta, almeno in origine, a baluardo della società moderna.

Precisi e puntuali chiarimenti in grado di fornire un panorama vasto e completo in merito a tale complessa questione, sono raccolti nel libro “Che cos’è la televisione” (A. Grasso, M. Scaglioni 2003). Nell’intraprendere questa analisi, i due autori hanno dapprima ritenuto necessario liberare il mezzo televisivo da tutti quei pregiudizi e concetti che nel corso degli anni avevano prevalso sulla sua autenticità e vera essenza, ripartendo da alcune premesse fondamentali. Prima fra tutte, il rapporto di fratellanza che la televisione ha sempre manifestato nei riguardi degli altri mezzi di comunicazione di massa che la avevano preceduta nel tempo: ed in particolare la radio ed il cinema. Il medium televisivo, infatti, fonda i suoi presupposti esistenziali su due principi cardine che erano già divenuti i protagonisti delle altre forme di divulgazione sopra citate: l’immagine per il cinema, e la parola per la radio. Senza alcun dubbio, infatti, la televisione può essere collocata in quell’ampio scenario di attività umane che fa capo alle arti visuali, insieme ad altre pratiche, quali ad esempio la fotografia, che come lei permettono una sistematica riproduzione della realtà nelle sue esatte fattezze. Il solo impiego dell’immagine visiva, non consentiva tuttavia di raggiungere i precisi obiettivi che i governi politici del tempo si erano prefissati: la parola dunque divenne il secondo elemento imprescindibile nell’idea di una divulgazione tutta televisiva. “E’ attraverso la parola che la televisione si rivolge ai suoi spettatori e costruisce particolari legami con programmi e canali. La parola perciò genera la sfera socio-comunicativa entro la quale l’immagine televisiva opera” (A. Grasso, M. Scaglioni 2003). La comunicazione radiofonica, infatti, fin dagli anni Venti era entrata nelle case del popolo italiano andando a imporsi come uno dei primi tentativi di creazione di un fronte comune di informazione attivo a livello nazionale. Ma l’etimologia stessa del termine “televisione” (che significa appunto “visione a distanza”), si riferisce ad un terzo “ingrediente” divenuto la peculiarità per eccellenza del medium televisivo e per mezzo del quale gli fu assegnato fin da subito un posto di tutto rilievo nel panorama delle comunicazioni di massa. Si tratta della “diretta”, nel senso di “istantanea riproduzione e dell’istantanea trasmissione e ricezione” (A. Grasso, M. Scaglioni 2003). È così che dunque la diretta aprì nuovi orizzonti alle modalità tradizionali di comunicazione e divulgazione: in tal modo, la televisione venne presentata al grande pubblico come una valida maestra di vita, una compagna di viaggi figurativi, una piacevole distrazione nel tempo libero.

Almeno al principio, il mezzo televisivo nacque e si sviluppò in una dimensione quasi esclusivamente sociale e popolare, come ultima allegoria di una battaglia intestina contro nemici quali l’analfabetismo, il disfacimento, lo smarrimento, in nome di una nuova e intensa rinascita. Le distruzioni e la profonda ferita seguite al secondo conflitto mondiale, avevano infatti intimamente piegato il popolo italiano che si trovava ora privo di un’identità netta, di un sentimento nazionale forte e di una valida guida. La televisione, dunque, apparve come unica soluzione in questo complesso processo di ripristinamento di un ordine generale che fosse stabile e continuativo. Un mezzo attraverso il quale il governo italiano fu in grado di imporre norme, gusti e routine; di educare il popolo all’ascolto e all’importanza dell’informazione e del sapere; di trasmettere in tempo reale notizie di interesse nazionale ed internazionale; di sensibilizzare i cuori all’amore per la patria e per tutte le meraviglie storico-artistiche che essa premurosamente conserva.

Tuttavia è necessario sottolineare che non solo le dinamiche politiche-sociali di cui abbiamo fatto menzione, contribuirono all’accrescimento di questa predominanza televisiva in età moderna: lo sviluppo del medium televisivo si intrecciò infatti con il simultaneo e graduale abbandono del veicolo a stampa quale rilevante mezzo di comunicazione ed informazione. Le riviste continuarono a circolare a lungo per lo più negli ambienti dell’alta cultura artistica e letteraria, assecondando l’ormai radicata tradizione umanistica esplosa a partire dalla stagione illuminista e dei famosi cafè parigini. E, almeno nel contesto italiano, l’idea che la cultura scritta rappresentasse il veicolo privilegiato di conoscenza e di divulgazione, si concretizzò nell’incremento repentino di numerose e variegate riviste storiche, letterarie, artistiche, per mezzo delle quali gli uomini dell’alta società si tenevano informati sulle più interessanti novità dal mondo. Tuttavia, non è difficile comprendere come la carta stampata non consentisse una divulgazione estesa ed uniforme: infatti “mentre una civiltà della stampa privilegia gli specialismi, la separazione dei ruoli, i media elettronici hanno portato alla rottura dei sistemi informativi specialistici e separati creati dalla stampa. Oggi le informazioni sono molto più condivise dai diversi settori della popolazione” (A. Grasso, M. Scaglioni 2003).

Ciò di cui necessitava urgentemente il governo italiano era la presenza di un’entità superiore ai particolarismi culturali; uno strumento fisico in grado di raggiungere ogni individuo nell’intimità della sua abitazione, di trasmettergli valori etici e di colmare ogni sua mancanza linguistica; un mezzo più rapido ed oggettivo nella trasmissione di notizie di interesse nazionale e non. Per tali motivi, la televisione delle origini nacque con una decisa impronta monopolistica manifestatasi soprattutto nel diretto controllo che il governo esercitava sulla tipologia delle programmazioni e sugli orari della loro messa in onda. In quest’ottica, al mezzo televisivo, considerato uno strumento deputato al solo servizio del popolo, fu affidato l’arduo compito di riportare a nuovo ordine tutte quelle difformità di carattere culturale, linguistico, politico e sociale, di cui il Belpaese si era fatto carico per troppo tempo. La televisione si accese così di innumerevoli trasmissioni articolate in altrettante categorie tipologiche: quiz, documentari, rubriche culturali, film e lezioni, vennero collocate in modo sapiente e ben studiato all’interno del palinsesto giornaliero, affinché rispecchiassero le esigenze e le aspettative di tutte le fasce di pubblico.

Ed in particolare, l’arte fece il suo ingresso ufficiale sullo schermo televisivo il 3 gennaio 1954, quando fu mandata in onda sui canali Rai la prima puntata della serie Le avventure dell’arte, dedicata a Giambattista Tiepolo e condotta da Antonio Morassi. Si trattava di una delle prime programmazioni televisive interamente dedicate al sapere artistico, il cui obiettivo era quello di avvicinare gli spettatori all’attività di noti pittori italiani attraverso la loro vita e le loro opere. La nascita della televisione italiana avvenne, dunque, sotto il segno della cultura, in concordanza alle volontà governative italiane del secondo dopoguerra. Tale esemplare disposizione rispondeva alla primaria istanza già menzionata, di creazione di una forte identità nazionale di cui tutti i cittadini potessero sentirsi parte. Altresì, un’autorevole presenza culturale sullo schermo televisivo permetteva una sua più agevole legittimazione, soprattutto agli occhi di quella ristretta cerchia di intellettuali che deteneva da sempre le redini del sapere e della tradizione nostrana.

Tuttavia, tale duplice tendenza, popolare e colta, di cui il mezzo televisivo si faceva faticosamente carico, manifestò fin a subito i suoi limiti sostanziali che si concretizzarono in numerose programmazioni, a partire dalla loro realizzazione formale. Se infatti da un lato le prime trasmissioni Rai andate in onda negli anni Cinquanta e dedicate al sapere artistico, si conformavano interamente a quello che al tempo era stato concepito come il modello pedagogico della tivù delle origini; dall’altro lato veniva meno, però, una ricerca linguistica, formale, educativa, che facilitasse una completa comprensione ed un sincero avvicinamento del pubblico alle questioni esposte sullo schermo televisivo. Il dilemma di fondo risiedeva anzitutto nella scelta di un lessico troppo specifico, e quindi difficilmente accessibile a tutto il popolo italiano, e nell’impiego di una struttura formale tipica delle tradizionali lezioni accademiche in cui uno storico dell’arte, assoluto protagonista dello schermo, elargisce una serie di nozioni in merito ad un tema predefinito. Pertanto, tale profonda discordanza tra una cultura televisiva alquanto selettiva ed un crescente analfabetismo esteso a livello nazionale, generò un’incompatibilità di linguaggi che contraddistinse, in modo considerevole, tutta la televisione delle origini (o “paleotelevisione”). La televisione infatti “usa una lingua standardizzata e non più scritta, bensì parlata ed informale e, forte dell’efficacia comunicativa offerta dal nesso con l’immagine, dà vita a una lingua nuova, più popolare forse, ma anche più adeguata alla società moderna (A. Grasso, M. Scaglioni 2003).

Questa inconciliabilità formale e lessicale rappresentò a lungo un importante ostacolo per tutte quelle figure professionali che si dedicarono con tenacia all’organizzazione di programmazioni televisive, e nello specifico quelle culturali. Risultava dunque necessario raggiungere un giusto compromesso tra una terminologia troppo esclusiva ed elitaria (alla quale avevano fatto riferimento fino ad allora la maggior parte degli intellettuali che operavano nel nostro Paese) ed una lingua semplice, diretta e facilmente comprensibile, al fine di rispettare, comunque, quel carattere di scientificità che contraddistingue il sapere artistico al pari delle altre discipline accademiche, senza rinunciare tuttavia ad una divulgazione su larga scala, divenuta oramai un’esigenza primaria in quel determinato periodo storico. Come vedremo poi, la componente accademica ed educativa lasciò ben presto il posto a concetti quali spettacolarità, divertimento, intrattenimento, fama.

Un rinnovato interesse per il tema della divulgazione artistica in televisione è scaturito anche recentemente, a dimostrazione dell’attualità e del rilevante ruolo che ha assunto nella storia della televisione italiana. Nel 2014, infatti, in occasione del sessantesimo anniversario dalla nascita del piccolo schermo, sono stati organizzati due interessanti convegni che hanno finalmente permesso il tanto atteso dialogo tra i numerosi esperti in ambito divulgativo, sia culturale sia televisivo, spinti dalla volontà di instaurare un rapporto costruttivo fondato sulla reciproca interazione tra due mondi solo apparentemente contrapposti. Ad un primo incontro dal titolo La comunicazione della storia dell’arte: fronti, confronti e frontiere predisposto a Roma dalla Consulta Universitaria di Storia dell’arte, è seguito un secondo convegno a Milano qualche giorno dopo, Modi di vedere. Forme di divulgazione artistica in televisione, organizzato dalle Università IULM e Cattolica nelle Sale della Triennale. Ed in particolare, dagli atti del congresso milanese, raccolti nel libro Arte in tv. Forme di divulgazione (A. Grasso, V. Trione 2014) è emerso come “il processo di informatizzazione della cultura sopravvive solo se è alimentato continuamente dalla divulgazione, la cultura sopravvive solo se sa trasformarsi in divulgazione, l’arte ha senso di esistere solo se è comunicata, preferibilmente ad un pubblico di massa”. Partendo da questo presupposto fondamentale, secondo il quale appunto l’arte (o meglio la cultura, in generale) entra a far parte delle artificiose dinamiche programmative del piccolo schermo solo per mezzo di un consapevole adattamento divulgativo, è comprensibile come nel corso del tempo la dottrina artistica abbia dovuto sottostare a talune norme predisposte dal mezzo televisivo stesso. Prima fra tutte la necessità di mediazione, che coinvolge in primis l’esperto d’arte interpellato, che si consegue per mezzo di una accurata attività di traduzione e narrazione degli argomenti trattati: i giudizi e le informazioni proposte devono risultare semplici, dirette e concrete; ma, allo stesso modo, lo storico deve essere in grado di colorire queste nozioni al fine di renderle quanto più interessanti, stimolanti ed avvincenti per il grande pubblico a casa. Pertanto, la pratica divulgativa richiede anzitutto un’abile maestria nel racconto, nel tentativo di trasformare artificiose lezioni accademiche in intriganti fabulae romanzate. Altresì, Aldo Grasso riconosce nella leggibilità, nella ripetizione e nel divertimento, i tre presupposti fondamentali per una efficace comunicazione televisiva. Ed in particolare, la continua ripetizione alla quale si ispirano la maggior parte delle strutture mediatiche, ha reso il piccolo schermo uno dei più validi strumenti di apprendimento di sempre: è stato dimostrato infatti che mediante una costante ripetizione di informazione dirette e di semplice comprensione, la mente umana assimila automaticamente ciò a cui sta assistendo, attribuendo indubbiamente maggior importanza alle questioni che più le interessano.

Dunque, fin dai primi anni Cinquanta, i primi programmi culturali tentarono di sottostare a talune norme linguistiche e formali imposte da questo innovativo mezzo di comunicazione. È possibile riscontrare una struttura comune e ripetitiva sulla quale venne a fondarsi l’organizzazione delle primitive trasmissioni artistiche, le quali potevano essere suddivise tra loro in categorie tipologiche sulla base di specifici fattori, quali pubblico, valori prefissati, collocazione temporale nel palinsesto, etc. Le programmazioni in questione, che furono trasmesse all’incirca fino ai primi anni Settanta, si manifestarono per lo più in quattro forme principali, riassunte in tal modo da Aldo Grasso: la figura dell’esperto, la lezione, il documentario, il conduttore.

Nello specifico, la prima categoria racchiudeva tutte quelle trasmissioni incentrate unicamente sulla figura dello storico dell’arte, il quale era ripreso mentre interagiva con i telespettatori nell’intimità del suo studio o in occasione di eventi straordinari, come mostre od esposizioni. Sullo schermo televisivo, l’esperto d’arte andava ad assumere un importante ruolo di veridicità e di autenticità in merito agli argomenti che venivano trattati nel corso della trasmissione. Seppur molto efficace sotto un punto di vista didattico e pedagogico, tale tipologia si inseriva ancora pienamente nello scenario dei primi approcci al mezzo televisivo, prossimi all’ormai radicata tradizione accademica e ben lontani da una divulgazione televisiva vera e propria. Le programmazioni di questo genere, caratterizzate da un lessico troppo selettivo e specifico, furono probabilmente quelle maggiormente diffuse negli anni che seguirono la nascita della televisione italiana, contraddistinti da un approccio molto limitativo e superficiale del mezzo in questione. Altresì, la seconda categoria proposta da Aldo Grasso, “la lezione”, ha riscontrato maggior diffusione nelle trasmissioni andate in onda prima della grande riforma televisiva avuta luogo alla fine degli anni Settanta. In questo secondo caso, il tentativo era quello di ricreare in tutto e per tutto le dinamiche di una moderna lezione scolastica: è evidente come anche in tali programmazioni, il valore pedagogico escludesse in toto concetti quali divertimento, intrattenimento e spettacolarità. La terza tipologia, quella del documentario, si dimostrò per molto tempo uno dei più sensazionali strumenti di divulgazione artistica in televisione. Si trattava di superbi lavori, vicini al mondo cinematografico e realizzati per mezzo di una perfetta corrispondenza tra parola e immagini: alla prima era indubbiamente affidato quel compito precedentemente impersonato dalla figura dell’esperto, ossia la spiegazione critica delle immagini che nel contempo si muovevano sullo schermo televisivo. In tal modo, però, veniva meno quell’impostazione troppo compassata ed austera che avvolgeva, nella maggior parte delle volte, lo storico dell’arte, a favore di un sensibile accrescimento della narrazione e del racconto. A sigillare questo pacchetto sensoriale, venne poi introdotta la componente musicale (generalmente musica classica) nella speranza di incrementare quanto più possibile la partecipazione e la carica emozionale della visione. Nel documentario d’arte, pertanto, il critico rimaneva fedele alla sua dottrina artistica, andando tuttavia a rinnovare tutte quegli ingredienti aggiuntivi in grado di convertire la tradizionale lezione accademica in un prodotto più interessante ed accattivante per il grande pubblico televisivo. “Il film televisivo – ha più volte affermato la celebre storica dell’arte e produttrice Anna Zanoli – deve basarsi sulla stessa ricerca storica e filologica del saggio critico, ma usare sistemi di comunicazione emozionali quali le soluzioni immaginose di regia, l’ausilio importante del commento musicale, il sincrono del testo con le immagini”. Infine l’ultima categoria, “il conduttore”, nasceva da una forma di ibridazione delle tre tipologie precedenti. Si trattava di programmazioni che racchiudevano al loro interno differenti pratiche di divulgazione artistica (il documentario, il salotto, l’intervista, le scoperte, il laboratorio d’arte), ma tutte coordinate e riunite nella figura cardine ed assoluta del conduttore televisivo, generalmente dotato di spiccata versatilità e abilità d’intrattenimento. Questo genere di trasmissioni si collocavano sulla scia di un percorso evolutivo relativamente rapido che, a partire dalle più remote manifestazioni artistiche della televisione delle origini, si è rafforzato sempre più nelle moderne tendenze che contraddistinguono tuttora il panorama televisivo. In tali programmazioni, pertanto, prevaleva visibilmente la connotazione di un’arte spettacolare e interattiva, frutto di un attento e complesso connubio tra il compito di educare il pubblico alla cultura, e la ricerca di una maggior leggerezza e spontaneità nella trasmissione del sapere. Un modello televisivo in grado di presentare l’arte nelle sue specifiche declinazioni, a quante più diverse e variegate fasce di pubblico.

A condizionare in modo alquanto rilevante il successo e la diffusione che tali programmazioni potevano riscontrare nel pubblico a casa, concorreva anche la loro collocazione tra le fila del palinsesto televisivo. In particolare: nella televisione delle origini, contraddistinta da un’offerta programmativa molto limitata, le trasmissioni culturali erano prevalentemente concentrate “nella fascia denominata Ritorno a casa (tra le 18.30 e le 20) o in quella definita dell’insonnia (dopo le 22.30) dove si addensavano i programmi cosiddetti ‘intelligenti’” (L. Bolla, F. Cardini 1994). Tale duplice e singolare posizionamento dei culturali all’interno dell’organizzazione televisiva, si conformava appieno con l’ambiguo e complesso rapporto che al tempo si era instaurato con il concetto di educazione e di cultura. Se da un lato infatti quest’ultima si configurava come un elemento imprescindibile dall’idea della televisione pedagogica delle origini; dall’altro lato però, l’indubbia sistemazione marginale in tarda serata appariva già una chiara manifestazione di quello che sarebbe stato poi lo sviluppo decisivo delle trasmissioni televisive, per lo più orientato ad un’idea di divulgazione fondata sulla spettacolarità, e implicando, di conseguenza, una cerchia di telespettatori ben precisa. Inoltre, dalla medesima analisi intrapresa da Luisella Bolla e Flaminia Cardini dedicata, questa volta, alle programmazioni culturali trasmesse tra il febbraio e il maggio del 1993, è emerso come quest’ultime trovassero maggiormente spazio nella fascia del mattino e del pomeriggio, nell’arco di tempo compreso tra le 6.40 e le 18, subendo poi un sensibile decremento nella produzione della prima serata, per ricomparire copiosamente nelle ore notturne. Al palinsesto notturno erano infatti relegate tutte quelle trasmissioni esiliate dalla produzione del giorno, quali visite a mostre, monografie di artisti e servizi simili, in quanto considerate marginali e non di primaria importanza in relazione alle più immediate ed imminenti notizie d’attualità. Ad ogni modo, a seguito soprattutto dell’avvento della neotelevisione e della relativa frammentazione dei numerosi generi televisivi, tracce timide e sporadiche di cultura hanno investito buona parte delle programmazioni del piccolo schermo, ma si trattava tuttavia di presenze di accompagnamento in contesti di altra natura, in cui era possibile ritrovare “l’arte accolta sotto forma di attualità, oppure legata ad eventi e personaggi, o ancora quale semplice fondale, cornice scenografica ad alta riconoscibilità” (L. Bolla, F. Cardini 1994).

È necessario sottolineare, tuttavia, che quando si parla di divulgazione artistica in televisione, non si fa esclusivamente riferimento all’abile maestria di conduttori, esperti, presentatori o qualsivoglia. Una fondamentale componente all’interno delle dinamiche che hanno caratterizzato e che contraddistinguono tuttora la comunicazione dell’arte sul piccolo schermo, è rappresentata dalle capacità tecniche della televisione stessa. Quest’ultima infatti viene ad occupare l’ultimo posto di un lungo e complesso processo di straniamento e decontestualizzazione che ha repentinamente invaso il settore artistico a partire dal secolo scorso, ed incentivato per lo più dall’introduzione di nuove forme di rappresentazione figurativa: in particolare cinema e fotografia. Tale incessante fenomeno fondato su una meccanica e costante manipolazione dei manufatti artistici ha inevitabilmente prodotto due congiunte implicazioni: da un lato il venir meno di quella famosa aura distintiva delle opere d’arte, a lungo studiata e teorizzata dal celebre Walter Benjamin nel corso delle sue pubblicazioni; e dall’altro lato uno stravolgimento visivo e percettivo dell’opera stessa, soprattutto in termini di colore, forme, dimensioni, dettagli. Pertanto, al fine di compensare in toto tale ineluttabile mancanza fisica e sensoriale tra lo spettatore e il manufatto artistico, nel piccolo schermo si concede maggior rilievo a tutti quegli aspetti integrativi ed accessori volti ad accrescere quanto più la partecipazione emotiva e fenomenica del telespettatore. E nello specifico: la componente musicale come accompagnamento alle immagini (in genere musica classica) predispone lo spettatore ad abbandonarsi piacevolmente alla scoperta del mondo dell’arte; la ricerca storica e filologica intorno all’opera d’arte, assieme ad una serie di informazioni utili circa l’autore e la sua poetica, rende più immediata la comprensione della stessa; ed infine il ricorso alla parola come elemento necessario e imprescindibile nella spiegazione alle immagini, affinchè questa sia in grado di descrivere e comunicare ciò che non può trasparire dal freddo schermo televisivo.

Ad ogni modo, la tendenza sopra citata fondata su una sistematica duplicazione e manipolazione dell’arte mediante il ricorso a strumenti meccanici di riproduzione come fotografia, cinema e televisione, ha da tempo intaccato anche le fondamenta stesse del mondo artistico, favorendo l’affermazione di un fenomeno tipicamente moderno: la cosiddetta industria culturale. E “questa caratteristica serializzazione e standardizzazione dei prodotti dell’industria culturale contrasta con il valore di unicità/sacralità dell’oggetto artistico nei sistemi culturali del passato: l’industria culturale segna dunque la morte dell’arte” ( A. Grasso, M. Scaglioni 2003). Pertanto, gli artisti contemporanei sono stati inevitabilmente travolti da questo vortice di trasformazioni, rendendo necessario un loro repentino adattamento alle nuove formule comunicative: al giorno d’oggi, infatti, non sussiste più l’idea di un’arte per l’arte (l’arte non si afferma più come fine a se stessa), ma quest’ultima sopravvive per mezzo della conoscenza e della divulgazione al grande pubblico.

A partire dalla seconda metà del secolo scorso, è stato avviato un intenso processo di indagine volto alla scoperta di inedite forme d’espressione che permettessero all’artista di spingersi oltre la tela dipinta. Attraverso le nuove formulazioni artistiche, prime fra tutte performance e installazioni, gli artisti hanno perciò affiancato al tradizionale concetto di arte elementi quali spettacolo, stupore, meraviglia, notorietà, portando alla creazione di un rinnovato e sincronico legame con la società contemporanea. In questo senso, dunque, la nostra televisione non ha rappresentato esclusivamente uno strumento di divulgazione di un’arte prodotta da terzi, ma è stata essa stessa generatrice di cultura. Basti pensare al celebre Manifesto del movimento spaziale per la televisione, ricordato come uno degli eventi più rilevanti che hanno segnato gli sviluppi dell’arte contemporanea, pubblicato il 7 maggio 1952 nel corso di una trasmissione della Rai di Milano e firmato da numerosi artisti, tra cui Lucio Fontana. “Noi spaziali trasmettiamo, per la prima volta nel mondo, attraverso la televisione, le nostre nuove forme d’arte, basate su concetti dello spazio (…) La Televisione è per noi un mezzo che attendevamo come integrativo dei nostri concetti”; ed infine, “Noi spaziali ci sentiamo gli artisti di oggi, poiché le conquiste della tecnica sono ormai a servizio dell’arte che noi professiamo”.

Da ciò emerge come, nonostante in campo divulgativo il nostro piccolo schermo abbia ripetutamente piegato l’arte ai suoi linguaggi e alle sue formule, dal punto di vista artistico ha invece permesso il raggiungimento di inedite modalità di visione e di sperimentazione. Risulta infatti necessario “ripensare in termini televisivi ad una nuova ‘arte da camera’ e, quindi, valutare il campo delle arti visive in un’ottica nuova, significa anche valutare il mezzo televisivo non come un passivo deposito di immagini, un luogo di montaggi e di sequenze che mimano i movimenti del cinema, ma come un’architettura mobile, una ‘architettura attiva’ della visione” (L. Bolla, F. Cardini 1994). Pertanto, se partiamo dal presupposto che oramai l’arte è anche ripetizione e che buona parte delle opere contemporanee è realizzata appositamente per una diffusione sullo schermo televisivo, la speciale relazione intercorsa da sempre tra arte e televisione si mostra ora più solida e paritaria.

Che la televisione italiana sia sorta su solide e ben radicate basi umanistiche e che il progetto della Rai delle origini fosse quello di una programmazione socialmente e culturalmente impegnata, è oramai un fatto conclamato. Persino gli intellettuali, diffidenti per natura ma mossi da una sapiente curiosità verso questo nuovo mezzo di comunicazione, si erano abbandonati alle più svariate sperimentazioni, nel tentativo, quasi, di testarne l’efficacia e le possibilità. Almeno al principio infatti i letterati, sinceri amanti della scrittura e fautori, per lo più, di un sapere esclusivo ed elitario, non senza difficoltà accettavano di rinunciare a quell’innumerevole serie di riviste produttrici di cultura sin dal primo Novecento, a favore di una divulgazione televisiva, ritenuta popolare e incolta. A tal fine, uno strumento fondamentale nella creazione di un ponte relazionale tra uomini di cultura e televisione, fu il Radiocorriere, che per molti anni rappresentò “una frequentata palestra di grandi firme, un luogo d’incontro anomalo e trasversale, un albergo del libero scambio di idee, una vera rassegna di pareri” (A. Grasso 2002). Già al servizio della radio a partire dagli anni Trenta, il Radiocorriere assunse l’arduo compito di avvicinare l’ancora misterioso mezzo televisivo alla popolazione italiana presentando, pagina dopo pagina, l’ampia varietà di programmazioni che questo poteva offrire.

Pertanto, il Radiocorriere si manifestò in questo senso come una condizione obbligata e necessaria nel difficoltoso processo relazionale tra intellettuali e comunicazione di massa. Tale autorevole strumento permetteva infatti ai nostri letterati di accostarsi alle macchinose dinamiche della produzione televisiva operando, però, attraverso una dimensione che risultava loro più fidata e familiare, quale era quella della scrittura e delle relative riviste. Tuttavia, superate le prime resistenze gnoseologiche, il fronte intellettuale si dispiegò in variegate tipologie di atteggiamento: alcuni che si dimostrarono più restii a concedersi apertamente al mondo massmediatico; altri che invece indossarono piacevolmente i panni di abili divulgatori televisivi. Non mancarono, naturalmente, casi di mediocritas, in cui temerari uomini di cultura si abbandonarono a timide e sporadiche apparizioni in trasmissioni di un conclamato spessore culturale, nella speranza di sfruttare quanto più possibile le già più che note potenzialità divulgative del mezzo televisivo. Ad ogni modo, l’attitudine assunta dai nostri intellettuali si identificò ancora una volta con il tradizionale metodo critico-teorico impiegato da sempre nel campo delle arti: ciò permise loro di scorgerne aspetti del tutto inediti in termini di espressività, divulgazione e tecnicismo, che sfociarono da un lato in ardite applicazioni pratiche, e dall’altro lato apportarono modifiche sostanziali alle dinamiche strutturali dell’ovattato mondo artistico. Nonostante ciò, l’impiego politico ed economico del medium televisivo non lasciò spazio a sperimentazioni di altra natura, e ciò sfociò probabilmente in uno dei più fondati e sentiti rimproveri che i letterati rivolsero alla società moderna.

Le sensibili trasformazioni a cui abbiamo precedentemente accennato, non si sono mantenute circoscritte alla sola pratica artistica (intesa in senso stretto), ma hanno inevitabilmente travolto anche le austere figure dei critici d’arte, considerati ormai da tempo abili e necessari persuasori della cultura moderna. Anche gli intellettuali, infatti, con l’insorgere della tivù commerciale, furono coinvolti nel medesimo decadente turbinio di popolarità e spettacolo che colpì, inevitabilmente, gran parte delle programmazioni culturali del nostro piccolo schermo. A tal proposito, Aldo Grasso parla di un repentino rovesciamento di rapporti tra il soggetto e l’oggetto delle trasmissioni televisive: infatti “nella logica divulgativa tradizionale, il soggetto enunciatore è per lo più al servizio dell’oggetto della divulgazione – e – al centro della scena c’è il contenuto (…) mentre il dispositivo – la televisione – e i suoi officianti (il giornalista, il documentarista) cercano (…) di farsi trasparenti” (A. Grasso, V. Trione 2014). Con l’avvento della neotelevisione, invece, il critico divenne egli stesso opera d’arte e protagonista assoluto dell’attenzione televisiva, con l’amara conseguenza che l’arte in quanto tale fu talvolta rilegata a semplice pretesto per affrontare questioni più attuali e coinvolgenti. Oramai vittima dell’irresistibile celebrity culture, l’intellettuale moderno vestì i panni di una vera e propria icona pop (A. Grasso, V. Trione 2014): perfettamente informato sulle pratiche divulgative moderne e spiccante tra i tanti per il suo estro e la sua originalità, il letterato-medio si abbandonò così alla trascinante spettacolarità televisiva, rendendosi protagonista conclamato in programmazioni di varia natura, non necessariamente legate al mondo dell’arte.

Naturalmente tale analisi non è estendibile all’intera cerchia di storici e critici d’arte che si sono occupati di questi studi per un lungo tempo e con una profonda dedizione, tuttavia è possibile constatare come recentemente questa tendenza abbia adunato sempre più seguaci. Il caso più emblematico, in grado di avvalorare queste nostre considerazioni, è evidentemente quello dello storico e critico d’arte Vittorio Sgarbi, che rappresenta una delle personalità più eccentriche del nostro tempo. Nel corso della sua nutrita carriera, infatti, Sgarbi ha innalzato su di sé l’immagine di un perfetto personaggio dello spettacolo, e si è dimostrato uno dei primi ad aver sinceramente compreso che al giorno d’oggi la sopravvivenza dell’arte dipende, per lo più, dall’autorevolezza del suo legame con la società, la politica, l’economia. Pertanto, “lo stile di Sgarbi resta costante nel tempo: l’arte fa capolino continuamente nel suo eloquio, e la sua attitudine è ricorrere ad artisti, opere e soggetti dipinti per affrontare i problemi del presente” (A. Grasso, V. Trione 2014).

Ad ogni modo, da questo breve excursus circa gli sviluppi tecnici e formali che hanno scandito il tempo della produzione artistica in televisione, seguito dalle relative trasformazioni che hanno decisamente condizionato l’attività delle figure professionali coinvolte, è opportuno spendere qualche parola in merito a quelle programmazioni culturali che più di tutte si sono distinte per le eccelse qualità e per i nobili principi da cui erano mosse. Come abbiamo precedentemente ricordato, l’arte ha segnato il suo ingresso ufficiale sullo schermo televisivo nel lontano 3 gennaio 1954, in occasione della messa in onda di una puntata della famosa serie Le avventure dell’arte dedicata a Giambattista Tiepolo e curata da Antonio Morassi. A questo primo appuntamento ne seguì un secondo, qualche giorno dopo, dal titolo Espressionismo: origini ed esempi, a cura di Umbro Apollonio.

A soccorrere questi timidi e sporadici interventi d’arte nel panorama televisivo delle origini, si affiancarono ben presto una serie di programmazioni di eguale natura, quali Musei d’Italia, La casa dell’uomo, Dieci minuti con, trasmesse fino al 1959 circa. Le produzioni artistiche che colorarono la televisione italiana degli anni Cinquanta erano accomunate da una simile struttura organizzativa, che si fondava per lo più su una suddivisione della serie in un numero predefinito di puntate, ed una collocazione alquanto variabile all’interno del palinsesto settimanale. Da una celere analisi emerge inoltre come queste fossero ancora intimamente legate alla tradizione artistica del passato, soprattutto nel conferire particolare risalto allo splendore Rinascimentale ed ai più noti maestri che ne furono gli indiscussi protagonisti: Masolino, Masaccio, Paolo Uccello, Piero della Francesca, e tanti altri. Tuttavia, non venne meno anche una sincera attenzione alle manifestazioni culturali più contemporanee, quali Futurismo ed Espressionismo, ed ai principali eventi d’attualità che coinvolsero il mondo dell’arte a partire dal secondo Novecento. Pertanto, fin da subito, le programmazioni culturali del piccolo schermo assunsero tale duplice istanza di canale di memoria e di ricordo di un’arte antica, considerata la struttura portante di tutta la cultura occidentale, e mezzo di diffusione e divulgazione delle più recenti novità espressive, estetiche e formali.

In particolare, il programma Dieci minuti con, andato in onda dal 1956 al 1958, rappresentò insieme a Ritratti contemporanei il più considerevole spazio dedicato alla libera espressione degli artisti in ambito televisivo. In un tempo previsto di circa dieci minuti, l’artista intervistato ripercorreva premurosamente le proprie esperienza di vita, soffermandosi sugli snodi focali che avevano contraddistinto il suo percorso poetico. Le sue parole erano intanto accompagnate in studio dallo scorrere continuo di sequenze di immagini ed inquadrature, come una musica visiva che scandiva le riflessioni profonde che il soggetto rivelava su di sé e sul contesto culturale in cui era intimamente immerso.

Di tutt’altro genere si presentava invece Musei d’Italia, un programma televisivo diretto da Emilio Garroni tra il 1953 e il 1959, e dedicato alla continua scoperta delle numerose realtà museali che da tempo adornavano il territorio italiano. Comodamente sistemati tra le mura domestiche, i telespettatori erano accompagnati, puntata per puntata, in un travolgente viaggio virtuale attraverso gli sfarzosi ambienti delle più rinomate gallerie d’arte, da sempre considerate custodi fedeli e indispensabili per la conservazione della memoria artistica proveniente da ogni tempo. Attraverso il racconto di quelle che erano state le origini e i trapassi storici di queste celebri istituzioni, il programma era orientato alla promozione di un’arte più tangibile e concreta, nella speranza di promuovere al pubblico a casa la conoscenza diretta del Nostro patrimonio.

A seguire, è opportuno poi dedicare un breve accenno alla costante e fervida attività del celebre Franco Simongini: scrittore, giornalista, regista e autore di una consistente produzione documentaria in ambito televisivo. Le sue trasmissioni rappresentano uno degli esempi più validi di perfetto connubio tra documentario televisivo e un’adeguata critica d’arte. In particolare, in A tu per tu con l’opera d’arte e Come nasce un’opera d’arte, attraverso la sapiente voce fuori campo di Cesare Brandi, di volta in volta le opere erano studiate, analizzate, percorse visivamente nelle successive fasi della loro gestazione, e ne vanivano evidenziati i caratteri di continuità con le altre opere di uno stesso artista o periodo storico, affinchè il manufatto in questione fosse collocato all’interno di un percorso stilistico e poetico organico. Pertanto, i documentari di Simongini portarono sul piccolo schermo un diverso sguardo sull’arte, in grado di dar voce alle opere dall’interno: e fu così che allora tutti gli elementi formali, luministici, compositivi, acquistarono un diverso valore, più reale e comprensibile. “Nella società contemporanea, dominata dalle immagini e dalla fretta, si ritrova la necessità di uno sguardo lento, che possa indugiare nei particolari e leggerli come valori” (A. Grasso, V. Trione 2014).

Particolarmente rilevante si dimostrò, inoltre, la collaborazione del regista con la nota rubrica d’arte dal titolo L’Approdo. Sorta con sembianze letterarie nel fervente clima critico-artistico dei primi decenni del Novecento, a partire dal 1963 la rivista si aprì calorosamente al lauto mondo della divulgazione televisiva, favorendo in tal modo un più intenso avvicinamento del pubblico italiano alle novità culturali del Belpaese. L’autorevolezza ed l’indiscusso valore della trasmissione erano altresì testimoniati dalle illustri firme che era possibile contare tra i suoi collaboratori più fedeli: Bacchelli, Bo, Cecchi, Longhi, Ungaretti e tanti altri. Fin dagli esordi, L’Approdo rappresentò un raro esempio di reciproca interazione tra la dimensione intellettuale e quella televisiva, in quanto in ogni occasione si dimostrò fedele alla disciplina critico-artistica intesa come vera scienza, senza rinunciare tuttavia ad una diretta sperimentazione delle novità che, giorno dopo giorno, condizionavano la società moderna. Tale rubrica settimanale era in grado di offrire ai suoi telespettatori un’idea di cultura a tutto tondo, spaziando da servizi dedicati all’attualità, a presentazioni di mostre ed eventi di vario genere, ad inchieste in merito a questioni scottanti di interesse nazionale. Il tutto affrontato con un tono “quanto più possibile piano ed esplicativo, senza creare diaframmi di maggior difficoltà nella presa di contatto tra il grosso pubblico ed i problemi della letteratura e dell’arte, che devono essere di tutti, perché si riferiscono alla nostra stessa vita, ai sentimenti, alle storie del nostro tempo” (A. Grasso 2002).

Ad ogni modo, le innumerevoli personalità del panorama culturale nostrano che è possibile contare tra le fila del palinsesto artistico-televisivo dagli anni Cinquanta ad oggi, risultano infinite. Dagli intellettuali che per primi si avventurarono in un’indagine critico-teorica alla scoperta delle radici estetiche, sociali e politiche, di tale inedito strumento di comunicazione, quali: Giulio Carlo Argan, Carlo Ludovico Ragghianti, Roberto Longhi; attraverso poi coloro che, fin dal principio, presero parte più o meno attiva alle dinamiche divulgative del mezzo televisivo nelle variopinte vesti di conduttori, accademici, critici o qualsivoglia; fino a giungere a personaggi come Anna Zanoli e Luciano Emmer, che si resero creatori e autori di sensazionali prodotti divulgativi intimamente dedicati a un’arte a tutto tondo, e tuttora annoverati tra i più efficaci documentari nella memoria artistica di declinazione televisiva.

Bibliografia

Bibliografia

Bolla L., Cardini F.

1994 Le avventure dell’arte in tv, Torino, VQPT/NUOVA ERI

Grasso A., Scaglioni M.

2003 Che cos’è la televisione?, Milano, Garzanti

Grasso A., Trione V.

2014 Arte in tv. Forme di divulgazione, Johan & Levi Editore

Grasso A.

2002 Schermi d’autore. Intellettuali e televisione, RAI ERI