Di Saverio Battente
Tra Otto e Novecento, anche in Italia, la dimensione sportiva iniziò timidamente e non senza ambiguità e contraddizioni, a strutturarsi, come elemento della costruzione della nazione (Bonetta 1990; Ferrara 1992; Teja-Giuntini-Palandri 2012; Impiglia-Palandri 2014). Al suo interno si aprì anche un timido spazio per la pratica sportiva al femminile, di cui la ginnastica con intenti educativi ed igienici, finì per esserne la matrice distintiva (Salvini 1982). In simbolica continuità, infatti, con la tradizione della classicità e coerentemente con il ruolo e l’influenza esercitata da questa sui valori ed i sistemi educativi dell’Italia del tempo, la pratica fisica al femminile, per le figlie delle classi più agiate, trovò un nobile precedente ed una legittimazione, addirittura nei testi omerici, come la figura di Nausicaa stava a testimoniare (Bertoni Jovine 1965; Scotto di Luzio 1999; Bonetta-Fioravanti 1995). La ginnastica in rosa, infatti, doveva contribuire alla formazione delle future donne italiane, in qualità di mogli e madri, già in età liberale, trovando addirittura spazio e sponda oltre che nella teoria pedagogica, nell’eugenetica, secondo una sua peculiare interpretazione (Mantovani 2004; Cassetta 2006). Proprio in questo contesto Siena fu la porta che introdusse anche in Italia la pallacanestro, con una chiara e dichiarata connotazione femminile, all’interno del perimetro dell’educazione fisica, monopolizzato dalla ginnastica (Valacchi 1991; Boldrini-Natili 2008). Partendo dalla provincia, quindi, il basket femminile, nel corso del “secolo breve” accompagnò la storia sociale del paese, contribuendo a connotarla in modo originale ed essendone influenzata, finendo per esserne un peculiare caleidoscopio, tramite cui osservare alcuni degli snodi e delle criticità problematiche sottese alla storia di genere in Italia e del suo percorso verso l’emancipazione e la ricerca della parità. Il basket, infatti, per i suoi natali, poteva essere un potenziale volano in tale direzione, anche in Italia. La pallacanestro, infatti, era una diretta emanazione delle società anglosassoni, in cui più sentita era stata la genesi delle rivendicazioni di genere, sommando al suo interno, elementi educativi, salutistici e ludici, centrati sulla figura femminile, che, tuttavia, non necessariamente furono recepiti in modo supino in Italia, a fronte di una loro originale reinterpretazione.
La stampa specialistica, quindi, collegata alla pallacanestro in rosa, seppure o proprio per la sua natura di nicchia, può rappresentare un utile strumento di riflessione, tramite cui analizzare la genesi e lo sviluppo di una questione di genere in Italia ed i cambiamenti sociali ad essa sottesi.
Le origini in età liberale.
La questione femminile, infatti, in Italia aveva tardato ad affermarsi, riproponendo un predominio di genere di un mondo maschio, retaggio di una società profondamente rurale (Pieroni Bortolotti 1963, 1978; Chianese 1980; De Cori 1996; Duby 1992; Doni-Fugenzi 2001; Migliucci 2006).1 Già in età liberale, comunque, alcuni timidi cambiamenti del costume, legati alla donna, avevano iniziato a muoversi, specialmente in seno a quella ristretta élite, al cui interno si andava strutturando una prima stagione dei consumi (Scarpelllini 2008; Cavazza-Scarpellini 2006, 2010). Il primo conflitto mondiale, poi, aveva dato impulso ad una più consapevole presa di coscienza dell’urgenza di una questione di genere in Italia, che, tuttavia, avrebbe trovato un proprio incipit soltanto in età repubblicana, dopo la conquista del voto e, soprattutto dopo il boom economico (Vidotto 2005; Crainz 2005; Cardini 2007).
Sebbene in modo pacato e timido, senza rompere con gli schemi della tradizione, in tale contesto, lo sport rappresentò, agli inizi del Novecento, un elemento capace di promuovere, se non un’emancipazione di genere, nel solco di una storia generazionale, quanto meno un elemento di apertura verso una nuova sensibilità nei confronti dell’universo femminile (Bonetta 1990). Senza brusche fratture o improvvise accelerazioni, quindi, la pratica sportiva, sebbene in modo circoscritto, in senso attivo quanto passivo, a cavallo tra Otto e Novecento, rappresentò un primo timido embrione, in tale direzione, capace di contribuire all’emancipazione femminile in Italia, seppur limitatamente ad alcune fasce sociali, avviando una trasformazione del costume delle italiane, come fattore di modernizzazione (Piccone Stella-Saraceno 1996; Canella-Giuntini 2009; Forgacs-Lumley 1996; Deem 1986; Hargreaves 1994).
La questione femminile, inoltre, ebbe un andamento non uniforme in tutto il paese, con profonde differenziazioni geografiche tra nord e sud e tra metropoli e provincia e sociali. Anche in questo caso la pratica sportiva in Italia, inizialmente concepita unicamente nel solco esclusivo dell’educazione, svolta e praticata da una minoranza, ebbe un indiretto ruolo nell’avviare un’emancipazione di genere e generazionale delle future donne italiane, contribuendo ad allargarne il perimetro, geografico e sociale (Salvini 1982).
La pratica fisica, del resto, in età vittoriana nel Regno Unito, si era sviluppata nell’universo femminile dei ceti aristocratici ed alto borghesi, congiuntamente con la diffusione della frequentazione di terme e l’introduzione di diete, con fini igienico salutisti, accompagnata, talora, dall’elemento ludico (Duffin 1978; Jewell 1977). Questo aveva avviato un primo contributo all’impulso di una moda legata alla pratica fisica, purché non in conflitto con la morale, confermando, assieme all’impatto educativo, la centralità dell’elemento estetico, sotteso allo sport in rosa. La pratica sportiva femminile, quindi, anche all’estero nasceva non come elemento consapevole di rottura della subalternità della donna, ma, al contrario, proprio come sua conferma, sebbene, poi, fosse risultato un cavallo di troia tramite cui contribuire all’avvio di una emancipazione di genere (Duffin 1978; Jewell 1977).
Progressivamente nel Regno Unito, inoltre, come in Francia, Germania o negli Stati Uniti, la pratica fisica riservata alle donne, tanto nella sua organizzazione affidata alla società civile quanto allo Stato, aveva lo scopo di allargarsi a tutti ceti, con particolare attenzione a quelli più bassi, con una valenza educativa verso il ruolo riservato loro in seno alla nazione (Guttman 1991; Vigarello 1988).
In Italia, al contrario, il fenomeno ginnico rimase molto più circoscritto ed elitario, nonostante un’importante propaganda a rimorchio della riforma De Sanctis del 1878, continuando a privilegiare l’elemento educativo, sebbene ritardando l’inserimento di tutte le classi sociali nella nazione (Bonetta 1990).
La pallacanestro, nello specifico, rientrava proprio tra quelle discipline sorte in seno alla ginnastica, con fini educativi delle future madri e moglie italiane dei ceti medi borghesi, di città come di provincia, capaci, tuttavia, di contribuire ad avviare un contributo sensibile al cambiamento sociale del costume delle donne in Italia, sebbene non senza contraddizioni e con grande lentezza, rispetto al contesto estero. La pratica della pallacanestro doveva andare proprio nella direzione di superare questo iato, sommando elementi igienico-educativi, con quelli ludici. Inoltre, in potenza, poteva essere aperta a tutti i ceti sociali, praticata nelle grandi aree metropolitane come in provincia, da nord a sud della nazione. Nella prassi, invece, in età liberale, finì per riguardare quasi esclusivamente le classi medio-alte, del centro nord del paese, ruotando intorno alle realtà urbane di medio grande dimensioni. Lo sport femminile, prima della grande guerra, in Italia, infatti, rimaneva un fenomeno dilettantistico e circoscritto, rivolto alla fascia generazionale giovanile, in sintonia con la sua vocazione educativa, propedeutico al futuro ruolo in società di madri e mogli.
Ida Nomi Pesciolini, professoressa senese, nel 1907 aveva istruito un gruppo di giovani ginnaste senese della Mens sana in corpore sano alla pratica di questa nuova disciplina, appresa attraverso la traduzione dall’inglese di alcuni regolamenti, provenienti dal Regno Unito, giunti a Siena per il tramite della locale comunità di sudditi di Sua Maestà, non necessariamente fedeli nei confronti di quello di Naismith, il cui debutto, appunto, era avvenuto nel 1907 alla manifestazione ginnica di Venezia, organizzata presso lo stadio militare di Sant’Elena (Arceri-Bianchini 2004; Boldrini 2008).
La “Palla al cerchio”, quindi, era stata presentata come un “gioco ginnastico per giovinette”, ricollegandosi alla medesima suggestione che anche in Inghilterra aveva avuto, dove nel 1895 era per la prima volta approdata dagli Usa, stando alla definizione datane nel dizionario che recitava “pratica simile al calcio ove le porte sono gabbie di ferro, poste agli estremi di una palestra” da ritenersi “gioco da ragazze” (Oxford English Dictionary 1895). La pallacanestro femminile europea, tuttavia, pur derivando dagli Stati Uniti, prese una sua traiettoria originale, rispetto al paese di provenienza. Infatti, nel vecchio continente, da subito le regole di base del gioco furono equiparate, tra pratica maschile e femminile, mentre negli Usa per lungo tempo, sulla scia di un primordiale errore di valutazione del 1895 da parte di Clara Baer, del Newcomb College di New Orleans, avevano seguito un percorso parallelo e separato, di cui era emblematica la volontà di francesizzarne il nome in “ basquette” per renderlo più elegante (Arceri-Bianchini 2004).
Nel 1896 Senda Berenson, Direttrice del Dipartimento di educazione fisica dello Smith College di Northempton aveva organizzato la prima partita di basket al femminile, negli Usa, dopo l’esperimento dell’anno prima a porte chiuse alla presenza del solo Naismith. L’inventore del gioco, in tale occasione aveva puntualizzato come, a suo dire, l’abbigliamento non fosse consono, calzando “scarpe da tennis…da passeggio” nessuna avendo rinunciato “ai lunghi vestiti stretti che andavano di moda” pur non consentendo “libertà di movimento (Naismith 1895). Per motivi di pudore e morali, del resto, la pratica introdotta in Italia dalla Pesciolini non era troppo diversa nell’abbigliamento previsto.
Inoltre nel 1907 l’educatrice senese aveva istruito le sue allieve alla palla al cerchio permettendo l’impiego anche dei piedi per toccare la palla, frutto di una errata interpretazione di un regolamento tradotto e letto, in via teorica, senza aver mai, probabilmente, assistito ad una sua rappresentazione pratica. L’opuscolo redatto, intitolato “Basketball”, distribuito il 27 aprile 1907, presso la palestra Sant’Agata di Siena, doveva anticipare l’effettiva prima manifestazione, poi annullata per mancanza di spazio e rinviata, appunto, a Venezia nel corso dello stesso anno (Boldrini 2008). Il clima degli esordi, quindi, era quello proprio dell’Italia liberale a cavallo tra i due secoli, in cui si andava consolidando la nazionalizzazione delle borghesie, al cui interno un ruolo sensibile aveva la pratica sportiva, come strumento di igiene fisica, secondo, non a caso, una suggestione anche di Achille Sclavo, tra l’altro, presidente della Mens Sana Siena (Banti 1996; Maggi 2004; Canella 2012). In questo senso, inoltre, si potevano leggere, le intonazioni patriottiche e proto nazionaliste, divise tra piccola e grande patria, con cui la direttrice dell’Associazione ginnastica senese, signora Romagnoli, aveva esortato le giovani atlete nel 1906 alla vigilia di una loro esibizione da tenersi a Milano: “fate, o giovinette, che anche a Milano, si ammiri in grazia vostra la gentilezza e la forza della città ghibellina annidata sui colli a custodire gelosamente tesori d’arte, di lingua e di cortesia gentilizia” (Boldrini 2008). Era lo stesso humus da cui aveva preso origine anche il “vario nazionalismo” delle origini di Corradini e delle riviste fiorentine, che proprio in Siena aveva visto l’archetipo delle virtù nazionali immutabili nel tempo, da cui ripartire per andare verso la modernità (Gaeta 1965; Strappini 1980; Battente 2005).
Interessante, inoltre, notare come in questa fase pionieristica la pallacanestro femminile, così come quella maschile, non avesse acquisito una sua autonomia disciplinare, ma fosse ancora una costola dell’Associazione di ginnastica, tanto a livello locale, quanto a livello nazionale, dove, appunto, dipendeva dalla Federazione nazionale ginnastica (Battente-Menzani 2009).
Lo sport della palla al cerchio femminile, non diversamente dagli altri sport italiani, in questa sua fase pionieristica, non aveva dato vita ad alcun tecnicismo nella realizzazione di strumenti ed abiti ad hoc per la pratica. Le divise delle ragazze, infatti, erano frutto di sartorie locali, non diversamente dagli altri abiti, indiretta conferma di una pratica diffusa solo tra i ceti borghesi benestanti. Inoltre lo sport al femminile era ancora lontano dal concepire una mentalità professionistica o anche solo ipotizzare la pratica sportiva come vettore di consumi. La matrice educativa ed igienica rimanevano l’elemento fondante, a cui si univa l’aspetto ludico, per una pratica, comunque, dilettantesca e generazionale, tesa a contribuire alla formazione delle future madri e mogli della patria. Lo sport, infatti, veniva visto come un’ottima propedeutica per la procreazione.
La grande guerra e il contatto con le truppe americane avevano contribuito al decollo del basket come disciplina sportiva, tuttavia, privilegiandone una connotazione prettamente maschile (Teja 2015). Dopo Siena, la pallacanestro femminile aveva spostato il proprio baricentro di sviluppo al nord, tra Legnano e Como (Arceri-Bianchini 2004). Durante il ventennio fascista, infatti, si proseguì, relativamente al basket in rosa, in continuità con quanto avviatosi in età liberale.
Il decollo durante il ventennio fascista.
Nel 1924 Matilde Candiani aveva aperto una sezione di basket femminile presso la Pro Patria et Libertate di Busto Arsizio, vincendo l’Olimpiade della grazia a Montecarlo, contro francesi e cecoslovacche. Sempre nel 1924 la Federazione ginnastica atletica femminile aveva dato vita ad un embrionale competizione nazionale vinto dal Club atletico di Torino, impostosi sull’U.S. Milanese.2 Il primo campionato ufficiale, invece, prese il via nel 1930 con la vittoria della Triestina. La Candiani, in merito ricordava come “il basket” fosse “uno tra i migliori giuochi adatti alla donna”. Emergeva anche una certa retorica nazionalista e fascista quando affermava come “nessuna delle giocatrici” giocasse “per sé, ma per la squadra, poiché solo l’affiatamento e la collettività” potevano “dare la vittoria”. Il basket era uno sport non violento e per questo adatto alla grazia femminile. La natura presunta non violenta, del resto, era stato alla base anche della sua fortuna al maschile presso l’esercito durante il primo conflitto mondiale, come elemento di svago e distrazione dagli orrori del fronte. La Candiani auspicava che il basket divenisse lo sport femminile per definizione, in ragione della sua armonia e grazia.3
Il ventennio fascista aveva visto il predominio di tre realtà cittadine: Trieste, appunto, Milano e Napoli. Interessante notare come a Milano vi fosse una pluralità di squadre cittadine, capaci di succedersi alla conquista del titolo: la Gioiosa, la Canottieri, l’Ambrosiana e il Guf. Quest’ultima denominazione, in linea con la strutturazione che dello sport aveva dato il regime, portò alla vittoria anche la squadra partenopea nel 1940-41 (Battente-Menzani 2009; Canella-Giuntini 2009).
A contribuire ad una timida iniziale fortuna del basket femminile, durante il regime fascista, furono i primi successi riportati in manifestazioni internazionali europee dalla nazionale azzurra, soprattutto contro le odiate cugine transalpine, diversamente dagli uomini le cui fortune furono più alterne. Nel 1930 aveva fatto il suo esordio la nazionale delle azzurrine proprio a Parigi contro le transalpine. Nel 1938, inoltre, le ragazze italiane avevano trionfato al primo campionato europeo, svoltosi a Roma, sui campi del Muro Torto, organizzato dalla Società ginnastica Roma, su pressione di Asinara di San Marzano, nei confronti della Fiba, capace di vincere, secondo Jones, “la misoginia” dello stesso Asinara, “per le pressanti richieste della Federazione italiana e di alcune giocatrici romane”, battendo in finale le francesi per 34 a 19. Tale manifestazione vide l’esordio dei pantaloncini corti per le giocatrici lituane, francese e polacche, ma non per quelle italiane. Il distacco, invece, con il basket d’oltreoceano rimaneva abissale: nel 1928 una selezione italiana era stata sconfitta a Milano, sul campo della Forza e Coraggio dal Canada per 60 a 2.4
Durante il ventennio, infatti, pur provando ad allargare, sebbene non sempre con successo, la base sociale delle praticanti il gioco della pallacanestro, all’intero corpo della nazione, sebbene ancora ancorata ad una dimensione giovanilistica in termini generazionali, la pallacanestro continuò a mantenere come proprio obbiettivo quello di contribuire alla formazione educativa ed igienico salutista, delle giovani italiane, quali future mogli e madri. Nella retorica del tempo, infatti, emergeva l’accento posto sulla gentilezza, la bellezza e l’eleganza indotta dalla disciplina sportiva in questione, quale garanzia per la tutela e la formazione delle qualità delle donne italiane. Il basket, in sintonia con l’intera impostazione dello sport durante il ventennio al femminile, non rappresentò un momento di emancipazione e di rottura del modello maschilista, quanto piuttosto un suo corollario, in cui la pratica sportiva era resa funzionale al ruolo sociale demandato alle donne, in sintonia con l’impostazione ideologica data delle questione femminile dal movimento nazionalista. L’elemento estetico, infatti, finiva per esserne un tratto distintivo (Bordo 1997; Green-Hebron-Woodward 1990; Cahn 1994). Tuttavia, senza mai alterare il senso della pubblica morale, profondamente legata ai valori della tradizione religiosa.
Ciò nonostante, la pratica del basket, avviatasi durante il ventennio, diversamente dalla ginnastica, riuscì grazie alla presenza di un elemento ludico nella pratica del gioco, a contribuire ad una primordiale ed embrionale apertura verso quella che sarebbe stata una presa di coscienza dell’importanza della questione di genere, da parte della donna, anche in Italia, nel secondo dopoguerra.
Il fascismo aveva molto enfatizzato il basket femminile, coerentemente con l’accento posto sulle competizioni internazionali a fini propagandistici, proprio in virtù delle vittorie riportate dalle ragazze italiane (Gori 2003; Ferrara 1992). Con il declinare di tali vittorie, durante gli ultimi anni del regime, l’interesse per la pallacanestro femminile andò scemando in Italia, pur rimanendo uno delle discipline più praticate dalle ragazze, mostrando tutti i limiti del basket nello specifico e dello sport più in generale, quale volano di un significativo traino per una presa di coscienza della questione femminile nel paese, complice anche lo scoppio del secondo conflitto mondiale. Era la conferma di una impostazione dello sport in rosa in chiave conservatrice, voluta dal regime, in sintonia con la natura ancora profondamente rurale della società italiana (Canella-Giuntini 2009). All’estero, al contrario, sebbene non senza criticità e grande fatica, lo sport aveva segnato un momento importante, quale contributo alla presa di coscienza delle donne e del raggiungimento di una rivendicazione della parità di genere (Guttamn 1991; Cahn 1994; Festle 1996).
Ciò era, del resto, in sintonia con l’impostazione e la visione che dello sport femminile dette ed ebbe il regime di Mussolini. Da un lato, infatti, ne enfatizzò le eccellenze individuali delle singole atlete nelle competizioni internazionali, per scopi propagandistici, come gli esempi, su tutti, di Ondina Valla alle Olimpiadi di Berlino del 1936 e di Claudia Testoni agli Europei del 1938 a Vienna stavano a testimoniare (Landoni 2016). dall’altro, invece, tentò di limitare e circoscrivere lo sport in rosa come evento e fenomeno pubblico, preferendone una impostazione ti taglio educativo e salutista, in linea con il principio dell’angelo del focolare. Peraltro, in modo emblematico, nel 1932, anche su pressione del Vaticano, l’Italia aveva inviato una squadra esclusivamente maschile alle Olimpiadi americane di Los Angeles (Jacomuzzi 1976; Sbetti 2012). L’ambiguità e la subalternità dello sport femminile rispetto ad una società maschilista durante il fascismo, emergeva bene, inoltre, attraverso i canoni di bellezza delle atlete: l’elemento estetico, infatti, prima di quello agonistico e tecnico, finirono per rimanere un tratto sensibile dominante. La stessa pallacanestro, infatti, sembrava confermare tali impostazioni di fondo: una visione dello sport al femminile educatrice e salutista, centrata sula grazia, l’eleganza e la bellezza delle giovani italiane, ma sempre in modo morale e sobrio, a discapito dell’elemento agonistico e tecnico, a cui si preferiva, al massimo, quello ludico. I canoni stessi della bellezza erano tracciati e disegnati secondo i gusti ed i criteri di un mondo maschile, e non dettati da ideali autonomi femminili, in cui, comunque, atletismo e tecnicismo, non avevano spazio. Le atlete vincenti, al contrario, senza venire meno all’ideale di grazia, avevano quasi un tratto asessuato, in cui la bellezza, non veniva sottolineata. Non solo in Italia, del resto, permaneva una netta separazione tra l’ambito maschile e quello femminile, in cui la parte estetica, non poteva sconfinare in elementi anche solo velatamente androgini. La vincitrice delle competizioni di nuoto dell’Olimpiade di Los Angeles del 1932, Heleanor Holm, aveva dichiarato emblematicamente che se l’esercizio in vasca le avesse fatto assumere un tratto muscolare troppo maschile avrebbe immediatamente rinunciato allo sport (Guttman 1991).
L’abbigliamento stesso adottato sotto il fascismo per la pratica del basket, fu molto sobrio. Si superarono gli anacronismi tardo ottocenteschi di una pratica sportiva della pallacanestro in gonne lunghe, scarpe da passeggio e ampie camicie, sostituite, però da camicie a maniche corte, gonne sotto il ginocchio e scarpe da ginnastica, per rendere più dinamica la pratica, ma senza rinunciare alla morale e alla identità femminile.
Interessante, inoltre, ed emblematico come la pallacanestro femminile tentasse di decollare, durante il regime, principalmente nelle grandi aree municipali, da nord a sud (ma soprattutto al nord), lasciando, momentaneamente, ai margini la provincia. Questo in parte sembrava indicare una certa timida apertura verso le istanze della modernizzazione, diversamente dai tratti conservatori propri della provincia. Lontana era, ormai, già durante il regime fascista, la fase pionieristica in cui Siena ne era stato il prototipo. La maggiore difficoltà del basket, tutto, in Italia, in questo periodo fu quella di emanciparsi dalla ginnastica. Il settore maschile vi riuscì piuttosto bene, mentre più faticoso fu il percorso delle ragazze. L’abbraccio con la ginnastica e l’atletica, infatti, ne condizionò lo sviluppo, confermandone un’impostazione conservatrice, centrata su educazione e morale comune, frenandone le seppur timide spinte innovatrici per una coscienza di genere, procrastinando ed imponendo anche nei grandi centri urbani quella visione morale e formativa che era stata propria delle origini in provincia. Il difficile percorso verso l’autonomia dalla ginnastica della pallacanestro rosa era, forse, lo specchio, del complesso percorso, in Italia, verso il fiorire di una coscienza femminile, conferma della natura conservatrice di una parte determinante della società italiana, retaggio di un mondo rurale, in cui più che lo sport era stata la ginnastica, appunto, come elemento di educazione e morale, a guida maschile, ad essere percolato tra le giovani donne, come strumento di consolidamento dei valori dell’angelo del focolare. In sintonia con l’ideologia fascista, infatti, la pratica fisica era inquadrata nelle maglie dello stato, più che espressione del dinamismo della società civile.
Il fascismo, infatti, aveva strutturato una macchina organizzativa dello sport, legata a precisi fini del regime, il cui fulcro era lo stato, che per la sua funzionalità finì per essere la struttura portante del fenomeno sportivo in Italia, anche dopo il crollo del regime, sebbene, con finalità diverse(Landoni 2016; Canella-Giuntini 2009). Per certi versi, si ripeté nello sport quello stesso percorso che aveva riguardato altri pezzi della cultura e delle istituzioni, come ad esempio il parastato o la cultura economica (Melis 1996; Cardini 1991).
Anche il basket femminile, infatti, dopo le pionieristiche esperienze degli anni venti, aveva avuto una strutturazione in campionati a partire, come ricordato, dal 1930. Si era trattato, da prima, di competizioni della durata di una due giornate, dal 1924 al 1928, organizzate dalla Fiaf Federazione italiana atletica femminile, indirettamente procrastinando l’influenza della Ginnastica.5 A partire, invece, dal 1930, ad organizzarle e gestirle fu la Fip, incardinata nelle maglie dello stato. Il regime, inoltre, spinse molto per ridurre il numero delle squadre delle singole realtà municipali, cercando di legare ad ogni città una singola società. Emblematico il caso di Milano con la fusione tra Internazionale ed U.S.Milanese in Ambrosiana.
Il ventennio fascista, tuttavia, enfatizzando la pallacanestro in rosa per fini propagandistici sul piano estero, aveva, comunque, contribuito a far germinare le potenzialità latenti di tale disciplina, avviatasi in età liberale, che nel secondo dopoguerra, contribuì alla lunga marcia delle donne, verso la piena emancipazione, cercando e trovando nello sport un fattore di cambiamento di costume in ambito sociale, per cercare di accompagnare e dare effettiva sostanza, alla brusca accelerazione avuta in ambito politico, con il diritto di voto, ed in ambito economico con l’accesso al mondo del lavoro.
Nell’autunno del 1945, pertanto, provando a superare i drammi del secondo conflitto mondiale, riprese l’organizzazione del campionato nazionale di pallacanestro femminile, dopo l’interruzione del biennio precedente. Non era più la nazionale, sul momento, il baricentro del movimento, ma il campionato per club, coerentemente con l’imbarazzo lasciato dal ventennio fascista circa l’utilizzo dell’idea di nazione (Galli della Loggia 1996; De Felice 1995). A trionfare fu la Reyer Venezia, richiamando alla memoria proprio il luogo dove la pallacanestro, in generale, aveva avuto il suo incipit in Italia nel 1907.
Dal secondo dopoguerra al miracolo economico.
Il secondo dopoguerra, quindi, ripartì con la vittoria di Venezia, ricollegandosi, in modo simbolico con le origini, seppur con la volontà, allo stesso tempo, di andare oltre, un po’ come l’intero stato repubblicano sembrava voler fare, nei confronti del Risorgimento (Colarizi 2007; Scoppola 1997).
Il torneo assunse a partire dal 1945 la denominazione di seria A, mantenuta, poi, inalterata fino al 1979, in cui fu assunta la divisione in A1 ed A2 (Battente-Menzani 2009).
Solo dal 1948-49, comunque si ebbe un campionato effettivo a nove squadre. Un ruolo centrale per l’organizzazione e la gestione lo ebbe da subito la Fip. Mancava in seno alla società uno slancio capace di sostituirsi al ruolo affidato alla mano pubblica, ereditato dal ventennio fascista. Così un ruolo centrale di indirizzo continuò ad averlo la Federazione. Furono momenti difficili: nel 1960 addirittura il campionato fu sospeso per problemi organizzativi. I primi anni cinquanta furono segnati dal ruolo guida della Comense, nelle cui fila spiccava il nome di Lilly Ronchetti.
Il basket femminile, in Italia, nel secondo dopoguerra, proseguì, quindi, il percorso di ridimensionamento, in termini, di praticanti e popolarità, già avviatosi durante il ventennio fascista, assumendo un tratto elitario, sebbene per motivi diversi. Sul finire degli anni trenta era stato il venir meno della spinta propagandistica collegata ai successi internazionali della nazionale femminile, a sgonfiare la crescita del movimento. Nel secondo dopoguerra, fino al “boom” economico, invece, era stata la competizione con altre discipline in crescita, a segnarne una certa stagnazione (Battente 2012). Obbiettivo principale della pallacanestro in rosa, in Italia, rimase, anche nel secondo dopoguerra, il consolidamento dell’autonomia raggiunta dalla ginnastica. Il basket femminile, infatti, era riuscito a svincolarsi dall’abbraccio con la ginnastica, trovando una propria autonomia organizzativa. Questo potenzialmente si prestava al superamento di un’idea di sport in termini di semplice educazione e profilassi alla salute, aprendo la strada verso un compiuto agonismo, sebbene pur sempre dilettantistico, condiviso formalmente con la maggior parte dello sport italiano, per l’influenza delle due principali culture politiche del paese.
La mentalità piuttosto tradizionale, inoltre, nei confronti dell’universo femminile, condivisa, sebbene per motivi diversi, tanto dalla tradizione cattolica, quanto da quella socialista (pur non senza significative eccezioni), retaggio della comune base rurale, rappresentò un vincolo sensibile allo sviluppo dello sport al femminile, in generale, e della pallacanestro in rosa nello specifico (Madella 1979; Salvini 1982; Giuntini 1992, 595-605).
Tuttavia, il basket femminile, proprio per la sua battaglia per la raggiunta autonomia, ebbe un potenziale di rottura ed innovativo interessante, sebbene, non coinciso con la forza necessaria ad impostare la crescita del movimento. Il basket, infatti, tanto maschile quanto femminile, negli anni del miracolo economico, poteva rappresentare, in Italia, un potenziale forte legame con i valori dell’american way of life, tramite cui, contribuire a ridisegnare quelli tradizionali dell’Italia mille anni. Tutta la pallacanestro nazionale mostrò limiti, in tal senso, per la verità, non solo il settore femminile, indiretta conferma, attraverso lo sport, della volontà della classe dirigente di impostare la modernizzazione del paese, in modo originale, controllandone gli esiti (Battente-Menzani 2009).6
Pur nella sua valenza elitaria, tuttavia, la pallacanestro italiana mostrò alcuni tratti di originalità che dettero un piccolo potenziale contributo all’emancipazione femminile.
Lo sport al femminile, infatti, risentiva ancora, in Italia, anche nel secondo dopoguerra, di un pesante vincolo morale perbenista e velatamente maschilista che intendeva reiterare la funzione educativa, morale ed igienico salutista ereditata dal passato dello sport al femminile, ancorato ai ruoli propri delle tre emme, madre moglie e massaia, relegando la tra le mura domestiche piuttosto che in spazi pubblici per la pratica sportiva, attiva o anche solo passiva (Lumley-Forgacs 1996; Bravo 2001). Al contrario, una visione ludico agonistica della pratica sportiva, oltre ad allontanare dal focolare domestico e dai propri presunti compiti, necessitava, di un genere di abbigliamento e di movenze, non consone per quella che veniva ancora percepita come la morale comune, soprattutto in certe aree geografiche del paese, acuendo i dualismi tra nord e sud, tra centro e periferia, tra metropoli e provincia (Crainz 2005; Cardini 2007).
In questo la pallacanestro femminile mostrò alcuni tratti originali. La necessità di sciogliersi dal vincolo con la ginnastica, infatti, aveva impresso al basket in rosa la ferma volontà di rompere con un’impostazione dello sport come educazione ed igiene salutistica, provando ad incamminarsi verso un compiuto agonismo. In tal senso, quindi, l’ideale estetico di grazia, armonia e bellezza che ne aveva contraddistinto gli esordi veniva ora messo in discussione, per dar spazio al momento atletico e tecnico. Questo aveva, più o meno volontariamente, aperto ad una visione androgina della donna atleta, dove la forza, la velocità e la potenza, abbinate al gesto tecnico, stavano progressivamente soppiantando grazia ed eleganza. Diversamente da altre discipline, quindi, per la pallacanestro l’aspetto estetico rimase, a partire agli anni sessanta un tratto meno visibile e vincolante. Le giocatrici, per la loro statura e per le logiche proprie dello sport stesso, non rappresentavano necessariamente modelli di estetica e di grazia, quanto piuttosto di forza, atletismo e tecnicismo. Riemergeva anche quella visione, quasi asessuata, che era prevalsa per le atlete vincenti durante il ventennio. Ormai lontani erano i tempi in cui, in seno alla ginnastica, la palla al cerchio, era stata concepita come un gioco per signorine, lasciando spazio, adesso, ad una sua maschilizzazione marcata. Lontana era l’intonazione della Candiani o della Pesciolini che avevano visto nel basket un esempio di leggiadria per fanciullette, i cui precedenti ideali sulla scia dell’importanza degli studi classici potevano risalire fino all’esempio di Nausicaa e del gioco con la palla, narrato da Omero nell’Odissea. In questa fase, quindi, non fu la consapevole ricerca di una originalità ed autonomia di genere a guidare le cestiste italiane, nei confronti dell’universo maschile, ma la ferma volontà di raggiungere e difendere un’autonomia di disciplina nell’alveo della pratica sportiva, ad imitazione di quella maschile. Ciò passava anche attraverso il prolungamento dell’età preposta alla pratica, svincolata dall’età della formazione, per abbracciare quella della parabola di un atleta nelle proprie prestazioni. Indirettamente, comunque, tali conquiste sportive, per quanto sul momento inconsapevoli sul piano della parità dei sessi, contribuirono nei decenni successivi, alla conquista di un’autonomia di genere al femminile, anche in Italia.
Nel 1956 fece il suo esordio il Gruppo sportivo magazzini Standa Milano. Si trattava di un primo grande esempio di sponsorizzazione per fare del basket un traino verso i consumi di massa della galassia femminile. Era l’equivalente del Simmenthal Olimpia Milano a livello maschile (Battente-Menzani 2009). Inoltre per la prima vola i pantaloncini corti e le canotte, avevano iniziato a prendere il posto di gonne e magliette anche per le ragazze sul rettangolo da gioco in Italia.
La Standa si pose come innovatrice per portare, attraverso cambiamenti nel gioco, cambiamenti indiretti negli stili di vita: Vanni Assente ricordava, in occasione dello scontro vinto contro la Recoaro, nel 1967, come le motivazioni del successo riposassero nel fatto che “noi abbiamo giocato a basket loro… a palla al cesto”, enfatizzando la velocità ed il dinamismo di giovani coraggiose.7 La grande metropoli cercava di mutare, anche attraverso lo sport, il costume degli italiani e delle italiane, più gelosamente custoditi, secondo la tradizione, in provincia, come la canzone “Ciao amore” di Luigi Tenco del 1967 ben sintetizzava.
Nel 1953 vennero istituiti i primi campionati mondiali di basket femminili, vinti dagli Usa (Arceri-Bianchini 2004).
Le competizioni internazionali significarono per il basket femminile in Italia anche una visione meno “autarchica” ed una comparazione con diversi modi di impostare lo sport al femminile, sebbene incardinate su questione meramente tecniche, le cui implicazioni indirette di carattere socio-culturale e politico, non sempre furono percepite o raccolte. Da subito, nel clima della guerra fredda, si instaurò un forte dualismo competitivo tra la nazionale statunitense e la squadra femminile sovietica (Sbetti 2012). Tale scenario si rifletté, sensibilmente, anche sul piano interno, in Italia. Da un lato, infatti, il modello sovietico sembrava indulgere a porre l’accento maggiormente sul collettivo, trasfigurando e sminuendo, oltre alle individualità, le diversità sessuali, in nome di un sentimento di comune uguaglianza e parità. Dall’altro, invece, il modello statunitense puntava proprio sull’individualismo, come potenziale strumento per contribuire al riconoscimento della parità di genere, attraverso lo sport. A questo si aggiungeva una rinnovata enfasi posta sull’elemento generazionale. Pur nella forte contrapposizione ideologica, in Italia, la pallacanestro femminile si affacciò a tale dualismo, in senso più tecnico che politico o culturale, conferma dell’impostazione disciplinare assunta.
La nazionale italiana femminile non prese parte ai mondiali del 1953, limitandosi a partecipare agli Europei per tutti gli anni cinquanta, peraltro con risultati mediocri. Solo nel 1964 si ebbe la prima esperienza mondiale, anche in questo caso piuttosto mediocre (Sbetti 2012).
Il baricentro del movimento cestistico femminile italiano a partire dal secondo dopoguerra, passando per il boom economico e fino agli anni settanta, si era spostato nelle competizioni per club, rispetto alla nazionale, con una vocazione “autarchica” attenta più ai tornei nazionali che internazionali, anche per la sua scarsa competitività. A seguito della vittoria riportata nel campionato del 1962, comunque, l’anno successivo l’A.P.Udinese prese parte per la prima volta alla Coppa dei campioni femminile, sebbene con risultati modesti.
La nazionale femminile di basket rimase comunque un punto di riferimento anche nel secondo dopoguerra, al di là dei risultati, per il movimento, in continuità apparente con il fascismo. Come per il basket maschile, infatti, il perno del movimento fu rappresentato dalla Fip, la Federazione italiana pallacanestro, piuttosto che dalle singole Leghe (Battente-Menzani 2009). Era il paradosso di un sistema centrato sui campionati per club, ma incapace di fare a meno dell’indirizzo della Federazione, specchio delle ambiguità e delle incongruenze del modo di concepire lo sport in Italia tra stato e società, in cui il modello statalista ereditato dal fascismo continuava a rappresentare la struttura portante del sistema, adattato al nuovo contesto, alla ricerca di una propria dimensione originale sintetizzata dal concetto di “terza via”, anche in ambito sportivo, permettendo alle due principali culture politiche di trovare un terreno di dialogo e confronto.
Nel basket femminile in Italia fino alla fine degli anni sessanta, l’agonismo, svincolato da un ideale di armonia e grazia, era il tratto distintivo, pur nell’assenza di risultati prestigiosi. Forte della volontà di mostrare la propria rinnovata identità sportiva il basket femminile si impossessò dei valori nazionali rappresentati dal tricolore, senza particolari imbarazzi per l’utilizzo fattone dal ventennio a fini politici (Galli della Loggia 1996). La bandiera italiana, infatti, era la sintesi non solo di un sentito patriottismo, ma della volontà di mostrare un modo diverso di concepire lo sport al femminile. In realtà, non era tanto una consapevole esigenza di dare nuovo lustro ad una rinnovata idea di nazione, o l’utilizzo strumentale dello sport a fini culturali di emancipazione, quanto la pragmatica necessità di puntare anche sulla nazionale per contribuire ad innervare una diversa idea dello sport al femminile, centrata su atletismo e tecnicismo agonistico, inconsapevole tassello verso un’embrionale emancipazione della donna in Italia, affiancando in ciò i singoli club. Rispetto al ventennio fascista, infatti, il basket aveva perso nel secondo dopoguerra la propria inclinazione educativa e ludica tracciata dal regime, e condivisa, sebbene non senza distinguo e perplessità, dalla cultura cattolica, per assumere adesso una definita valenza di sport di squadra agonistico, sebbene non sempre del tutto in sintonia con l’ideologia dell’Italia benpensante degli anni del dopoguerra e del miracolo, per quanto attraversata dai cambiamenti del boom economico. Tra metropoli e provincia, infatti, il basket femminile coltivava l’idea di ambire, per stile di gioco ed approccio, a imitare l’impostazione maschile, fatta di agonismo e competitività marcata. Questa era la rivoluzione combattuta, di carattere tecnico. Per questo la provincia non trovò difficile farla propria, in nome del lustro che primeggiare nello sport poteva dare alla piccola patria municipale, anche se fatto in rosa. I tratti di rivendicazione socio culturali erano per lo più lasciati a margine. Prova ne sia che a guidare il movimento cestistico femminile non fu l’elemento femminile stesso, o anche solo parte di esso, ma quello maschile, in termini di guida tecnica e di gestione.
Il basket in rosa assunse una natura androgina, spesso consapevole e ricercata, o almeno non fuggita, che però si fermò dentro al rettangolo di gioco. Lungi dall’essere un traino verso una più compiuta emancipazione e parità dei sessi, infatti, questo aspetto isolò ancora di più il basket nel panorama italiano, allontanando gli spettatori, ancora in prevalenza maschi, spaventati o disinteressati dall’aspetto androgino delle giocatrici. Il basket femminile, infatti, aveva avuto negli anni del miracolo economico, quale obbiettivo primario un proprio consolidamento rispetto alla vecchia impostazione datane dalla ginnastica da cui si era staccato, prendendo ad esempio il movimento maschile. Involontariamente ciò si poteva aprire anche come contributo verso una emancipazione di genere e parità dei sessi, tramite lo sport, dell’universo femminile. I risultati furono, però, in tale direzione, modesti, perché le atlete non dettero alla lotta sportiva una connotazione anche politica e culturale, ma semplicemente sportiva.
Fino alla seconda metà degli anni sessanta il basket femminile rimase ai margine del circuito internazionale, in parte per limiti di valore, in parte, però, per scelta, mostrando una certa tendenza alla chiusura all’interno dei confini nazionali. Questa volontà di preservarsi da confronti del basket femminile, oltre al ritardo sul piano tecnico-sportivo, fu il portato di un ritardo sul piano culturale, dettato dai vertici del movimento, per scelta, rigorosamente rappresentato da figure maschili, timoroso di paragoni che avrebbero potuto indurre cambiamenti sociali e culturali non desiderati in Italia. Ben diversa, infatti, negli anni del miracolo fu l’ascesa internazionale del basket maschile, in cerca di vetrine per i prodotti del made in Italy.
L’impostazione data al basket in rosa negli anni del boom, celava una sorta di protezionismo culturale, da parte dei vertici dirigenziali, che preferirono circoscrivere al rettangolo di gioco i cambiamenti, con il tacito assenso delle cestiste, piuttosto che farne un cuneo per lotte ben più importanti e pesanti, le cui radici stavano non solo nel vecchio nazionalismo, ma anche in seno all’identità di quelle forze che ne avevano preso il posto, in termini partitici. Questo poteva risultare solo apparentemente contraddittorio con l’adesione italiana al libero mercato degli anni del miracolo, sebbene anche in questo caso in linea con un marcato pragmatismo italico, e non necessariamente per convinzione ideologica (Cardini 2009; Perry 2011).
Lo pallacanestro femminile, infatti, rimaneva saldamente in mano agli uomini: specchio di questo il fatto che la governance del basket in rosa fosse in Italia quasi esclusivamente maschile, così come la maggior parte della guida tecnica. L’emancipazione avviata era di tipo tecnico, appunto, e non necessariamente culturale e sociale. Tuttavia, la necessità e la volontà di dettare questa rivoluzione sportiva per emanciparsi dalla vecchia idea di basket, retaggio della ginnastica, aprendosi ad un’idea moderna di pallacanestro da parte del movimento cestistico femminile in Italia, pose il seme per una, magari sul momento non consapevole e poco visibile, rivoluzione culturale e di costume, che contribuì negli anni settanta ad una accelerazione dell’emancipazione del ruolo della donna.8 La scelta di imitare gli uomini nel gioco, infatti, seppur dettata da ragioni tecniche, contribuì al consolidamento di una visione androgina della donna atleta. Ciò era riscontrabile anche, indirettamente, nella volontà di impiegare tute maschili per la pratica sportiva. Sul momento tale impostazione generale fu negativa in termini di popolarità e diffusione della pratica sportiva del basket femminile, relegandolo ad una zona di nicchia. La pratica, infatti, andò diminuendo rispetto al ventennio fascista, così come gli spettatori, in gran parte uomini, affatto attratti dai tratti eccessivamente androgini delle atlete. Ciò tuttavia aiutò a sdoganare un abbigliamento tecnico non visto come moralmente inaccettabile, proprio per la natura tecnica del gioco.
L’universo stesso femminile, infatti, fu lento a muoversi verso una originalità di genere, nonostante gli sforzi ed i cambiamenti indotti dal boom economico, rispecchiati anche dallo sport ed in particolare dal basket. La pallacanestro, infatti, aveva perso nel giro di pochi anni la prospettiva di essere centrale nell’universo femminile, simultaneamente con il declinare della sua funzione educatrice a vantaggio di una impostazione più ludico agonistica, non necessariamente in sintonia con la cultura di riferimento del paese, ancora profondamente maschilista nelle sue principali componenti socio culturali e politiche.
Dal ’68 agli anni novanta.
Tra gli anni del secondo dopoguerra e gli anni sessanta, quindi, il movimento cestistico femminile aveva assunto una nuova connotazione. Lasciatisi alle spalle i tratti educativi e salutistici, propri delle origini, una volta prese le distanze dal mondo della ginnastica, aveva, infatti, intrapreso la rincorsa verso una originalità disciplinare, impostata sull’agonismo, a imitazione del modello maschile. Questo, non tanto come consapevole ricerca di una emancipazione di genere, attraverso lo sport, quanto, piuttosto, come desiderio di affermazione e legittimazione del basket in rosa. L’imitazione degli stilemi maschili, tuttavia, non dette uno slancio alla pallacanestro femminile, anzi, contribuì a relegarla in un limbo.9 L’eccessiva mascolinizzazione della pratica sportiva, in conflitto con l’ideale ancora imperante dell’angelo del focolare, creò disinteresse tra gli sportivi spettatori uomini, senza, al contempo, aprire nuovi scenari di attenzione tra le donne, come potenziali spettatrici o praticanti. Il tratto androgino, prodotto della pratica sportiva del basket, quindi, fu colto più in chiave asessuata, che come ricerca o rincorsa verso una parità dei sessi.
Gli anni settanta, comunque videro alcuni cambiamenti interessanti con le vittorie di Torino, di Sesto San Giovanni, di Milano e di Vicenza. In primo luogo il fenomeno delle sponsorizzazioni trovò nuovo slancio.10
Fino a quel momento, infatti, con poche eccezioni, era proseguito il trend precedente, secondo il quale lo pallacanestro femminile non aveva creato un vero traino sportivo legato ai consumi di prodotti tecnici per la pratica, né un percepibile avviamento al consumo di prodotti di massa. Questo si sommava alla mancanza di una specifica managerialità professionistica, ancor più marcata di quella dell’universo maschile.
La Fiat, sulla scia della via indicata dalla Standa, in tal senso, fu innovativa. Del resto nel 1911 la Mens sana Siena aveva disputato proprio a Torino una gara dimostrativa, dando il via ad una consolidata tradizione nel maschile e nel femminile, come emblema di un intero movimento regionale.11
La pallacanestro rosa provò ad essere percepita come uno dei vettori, tramite cui raggiungere potenziali consumatrici. Tra gli sponsor di maggior richiamo figuravano la Fiat a Torino, la Standa a Milano, la Recoaro e la Primigi a Vicenza, l’Algida a Roma e l’Eni a Priolo.12 Proprio il connubio a Torino con la Fiat, aveva fatto affermare che “Torino basket vive solo al femminile” come era “risaputo”. In tal senso gli incontro casalinghi della Fiat di serie A erano lo spunto per fare del basket un elemento di traino per il turismo, enfatizzando, a margine dell’evento sportivo, i musei e le prelibatezze tipiche della cucina piemontese.13
Come per il basket maschile a muovere il movimento spesso erano imprenditori di piccole e medie dimensioni, frutto del miracolo, che vedevano nello sport un motore per reclamizzare i propri prodotti sul piano più interno che internazionale ( in questo differenziandosi dal mondo maschile, attento ad entrambi) dedicato soprattutto ad un pubblico femminile. Diversamente dal basket maschile, comunque, mancò una presa vera come traino verso i consumi, anche solo in senso di genere. Paradossalmente il basket maschile fu individuato come un brend di maggiore successo per i consumi della donna, angelo del focolare, piuttosto che quello femminile, riprova di una società ancora lontana da una sua emancipazione, per il tramite dello sport, o almeno del basket.14 Le donne, infatti, erano una fetta significativa di spettatrici del basket maschile, mentre non rappresentavano un volume significativo a livello delle competizioni rosa. L’universo femminile si era avvicinato al mondo del basket maschile come spettatrici rompendo la sacralità di genere dell’arena sportiva, per il tramite del minibasket, che aveva visto le madri coinvolte nell’avviamento allo sport dei loro figli.15 La prima società era stata all’Onestà di Milano per il tramite della figura di Emilio Tricerri, imprenditore del carbone che aveva conosciuto questo fenomeno sorto negli Usa nel 1950 grazie ad un’idea di Jay Archer, oriundo italo calabrese, che lo aveva sperimentato a Scranton, Pennsylvania, città non a caso carbonifera. Tricerri aveva creato così nella palestra Forza e Coraggio adibita per la scherma il primo centro per il minibasket, poi imitato da Genova, Udine e Roma.16
Anche il tecnicismo del materiale da gioco non aveva rappresentato un vero volano di sviluppo per lo sport femminile, molto spesso costretto ad adattare prodotti maschili alla pratica del gioco, reperibili nei primi negozi di sport che stavano sorgendo nelle principali città (Cavazza-Scarpellini 2006, 2010; Scarpellini 2008; Cavazza 2004).
Interessante notare, inoltre, come la guida tecnica delle squadre fosse sempre demandata ad allenatori maschi, spesso a fine carriera nell’universo maschile, o in cerca di un riscatto, dopo un periodo difficile, a riprova di come lo sport in termini d’ emancipazione fosse ancora un percorso lungo e difficile da realizzare. In tal senso erano emblematiche le parole di Azeglio Maumary, presidente della Geas Sesto S.Giovanni, squadra destinata a segnare gli anni settanta con i suoi successi, che ancora nel 1969, affermava “il settore allenatori delle squadre femminili non è che un centro di raccolta dei residuati del settore maschile” cosa ingiusta e “controproducente” a suo parere, auspicando la genesi di una nuova generazione di allenatori ad hoc per il settore femminile “non a pigione”.17 Interessante, tuttavia, come proprio Maumary definisse la sua presenza nel basket femminile, come un hobby, un necessario diversivo dopo le tante ore di lavoro, segnale di una mentalità imprenditoriale legata allo sport femminile ancora lontana da una sua connotazione in chiave definita e professionale. Peraltro, salvo sporadiche eccezioni, tendenza condivisa con l’universo maschile, per le medesime ragioni etiche di approccio verso la pratica sportiva (Battente-Menzani 2009). Intanto, comunque, negli anni settanta il movimento femminile per club, in simbiosi con la ripresa anche della nazionale era cresciuto. Nel 1975 la Geas, dopo la finale disputata di Coppa delle Coppe dell’anno precedente sentiva la necessità di un impianto più capiente della palestra scolastica che riusciva a contenere più di ottocento persone. Maumary, imprenditore edile, si era offerto di costruire il nuovo impianto, qualora il comune avesse trovato il terreno nel piano regolatore, mantenendone la proprietà per un numero di anni definiti, prima di passarlo all’amministrazione pubblica. Un’idea, come si vede, che anticipava i tempi. I tempi della politica, tuttavia, non erano maturi, dilatandosi le attese, fino a far esclamare al presidente della Geas di confidare nel potere dell’avvicinarsi della data della scadenza elettorale, per risolvere la questione.18 Il movimento femminile, a livello di club stava crescendo in termini di risultati agonistici, tanto sul piano nazionale che internazionale, quindi, secondo un canovaccio simile a quello del basket maschile. Fu comunque necessario aspettare il 1974 per vincere, con la nazionale, il bronzo a Cagliari, seguito da un quarto posto ai mondiali dell’anno successivo, e addirittura il 1995 per raggiungere l’argento agli europei (Arceri-Bianchini 2004).
Ad organizzare i tornei nazionali per club era in questo periodo la Lega femminile pallacanestro, sebbene sempre con un dialogo costante con la Federazione italiana pallacanestro, seguendone le linee guida, di nuovo come per il caso maschile.19 La Lega, acquisito il nome di Lega femminile basket, giunse ad annoverare circa 100 società iscritte, distribuite su tutto lo spettro nazionale, senza vuoti regionali, circa 2000 tesserate senior, 7000 inserite nel movimento giovanile e più di 10000 a livello di minibasket, con un bacino di spettatori superiore ai 200000 a stagione nei vari palazzi dello sport.20
Numeri significativi, ma ancora ben lontani da quelli dei principali movimenti sportivi nazionali, non solo maschili, ma anche femminili.
Il radicamento sul territorio, inoltre, fu da subito, sbilanciato verso le regioni del nord, aprendosi poi progressivamente verso quelle del centro, e, solo, con grande ritardo e lentezza verso il sud. Nell’estate del 1969 la rivista “I Giganti del Basket” dava notizia dei vari tornei estivi sparsi per lo stivale: a fronte dei venticinque tornei maschili ne figuravano, e non tutti confermati, solo otto femminili. Tuttavia era interessante come tra questi figurassero località quali Avellino, Messina, Ragusa e Bari, oltre a Trieste, Sesto S.Giovanni e Sanremo.21 Segnale che qualcosa si stava muovendo: accanto a località turistiche che usavano lo sport estivo come attrattiva, infatti, figuravano realtà di provincia dove lo sport era vissuto come trampolino di apertura verso la modernità. Il mondo del basket femminile non conobbe la trasformazione patologica da spettatori a ultras, così come invece avvenuto, in parte, per il mondo maschile (Battente-Menzani 2009).
A dominare erano, oltre ai grandi capoluoghi, come Milano Torino o Bologna, realtà di provincia come Sesto San Giovanni, Vicenza, Faenza e Treviso.22 Questo risultava interessante, visto che nell’area metropolitana, infatti, il processo di emancipazione femminile, in teoria, doveva essere, tra i ceti medi, più rapido rispetto alla lentezza della provincia. La pallacanestro femminile, al contrario, in provincia ebbe una duplice valenza, apparentemente divergente: da un lato prese le distanze dalla tradizione delle origini, esaltando i tratti agonistici del gioco e così provò a colmare il fossato che lo divideva dal mondo maschile, assumendo anche tratti più androgini; dall’altro, al contrario, la pratica sportiva del basket in provincia non recise del tutto il legame educativo attribuito allo sport in età liberale prima e fascista poi, di cui la ginnastica era stata depositaria, inserito in un quadro di un perbenismo borghese, nell’alveo del rispetto dei ruoli, garanzia di una guidata modernizzazione. La rivoluzione sportiva in rosa era, quindi, relegata all’aspetto tecnico, per controllare e prevenire ben altri cambiamenti sociali, connessi con l’emancipazione femminile. Le stesse ragazze praticanti accettarono tale impostazione “piccolo borghese” di provincia, come il fatto che la guida tecnica e il governo del movimento fossero rimaste saldamente al mondo maschile stava a testimoniare. Nella metropoli, al contrario, con una tipizzazione geografica marcata, la pratica del basket per le donne stava iniziando ad assumere anche una valenza sociale e culturale di cambiamento. In generale, lo sport in Italia si stava faticosamente e non senza contraddizioni avviando verso una compiuta crescita in seno alla modernità, di cui anche le donne iniziarono a trarre le opportunità ed i benefici, sebbene in ritardo e non senza fatica, a fronte di un predominio dell’universo maschile, conferma della prevalente mentalità conservatrice della società italiana. Questo era vero sia in termini attivi di pratica sportiva che passivi di fruizione visiva come spettatori. Del resto, nel mondo del calcio Rita Pavone aveva messo in musica la frustrazione dell’universo femminile per le domeniche al maschile del mondo del pallone. La provincia risultò come la naturale prosecuzione di una vocazione dilettantistica ed educativo morale da affidare alla pratica sportiva, tanto maschile che femminile, di fronte alle spinte verso un più marcato professionismo, imitazione del mondo anglosassone, espresso dalle aree metropolitane, come ancora difensiva di fronte alla modernità, e sua originale interpretazione in chiave nazionale. Inoltre il basket, in generale, e quello femminile, per le ridotte necessità economiche, permisero a piccole realtà di provincia di emergere a livello nazionale e, talora, internazionale, dando lustro all’identità della piccola patria, propria dell’Italia dei mille campanili.
Lo pallacanestro femminile, in sintonia con la mentalità cattolica e socialista, relativamente alla questione di genere, quindi, continuò ad avere anche nel secondo dopoguerra un’impostazione conservatrice, paradossalmente, piuttosto che di emancipazione sociale e di costume, che iniziò a scardinarsi solo dopo il ’68. Interessante, a parziale riprova di questo, come i motori dell’avviamento al basket femminile fossero molto spesso, oltre alle storiche società sportive, i ricreatori e le parrocchie, seguite, dalle case del popolo (Battente-Menzani 2009).23
Con la rivoluzione di genere e generazionale introdotta dal ’68, gli anni settanta segnarono alcuni cambiamenti significativi per la pallacanestro femminile. Il basket in rosa, era rimasto un fenomeno troppo elitario, in termini di praticanti e spettatori. La rivoluzione tecnica, infatti, non aveva da sola pagato in termini di popolarità. Investire nel basket diveniva difficile. I tratti androgini delle giocatrici, ereditati dal decennio precedente, indiretto orgoglio di un percorso di equiparazione alla pratica maschile, iniziarono a scolorire, per lasciare il posto ad una rivalutata estetica delle ragazze sul rettangolo di gioco. Non essendo più in discussione una valenza agonistica della pratica da difendere, si poteva finalmente tornare ad esibire la bellezza fisica come elemento di spettacolo. A traino del cambiamento dei costumi, il basket femminile iniziò a mostrare atlete in canottiera e mini hot pant, fino a qualche decennio prima impensabili, capelli sempre più lunghi, al posto di tagli più maschili, e perfino un filo di trucco.24 La bellezza delle atlete non era più nascosta né in competizione con la loro bravura. Emblema in tal senso fu Mabel Bocchi, eletta miglior giocatrice de mondo, brava, ma anche bella. La Bocchi si era formata ad Avellino, ma era nella Geas che era esplosa.25
Si cercava di aprire verso una maggiore attrattiva dello sport della palla a spicchi in rosa, avvicinando anche la galassia maschile, senza spaventarla per l’“imponente stazza fisica” non sempre aggraziata, delle giocatrici.26 Il tratto androgino, infatti, che da un lato, aveva avvantaggiato la pratica del basket femminile, verso una crescita che lo allontanasse da una mera visione da educande, dall’altro aveva finito per isolarlo, perdendo l’opportunità di sommare emancipazione sportiva con emancipazione sociale e di costume delle praticanti e per il loro tramite del genere femminile. Il basket femminile finiva, infatti, per essere visto come una brutta copia di quello maschile, senza una propria originalità specifica. Il tratto androgino aveva segnato, quindi, il destino di marginalità del movimento in seno allo sport italiano.
L’atleta al femminile veniva ricondotta nei canoni delle tre emme, vedendo lo sport come una parantesi non dissonante dalla realtà, piuttosto che un suo elemento di rottura.
Il basket, così, provò a inserirsi in tale percorso riscoprendo la femminilità delle atlete e per il loro tramite la bellezza del gioco, senza tuttavia, rompere con gli schemi della tradizione.
Nelle riviste specializzata di basket, come “I Giganti” o “Super Basket”, lo spazio dedicato alla pallacanestro rosa fu sempre residuale e minimale. Nei pochi momenti in cui si centrava l’attenzione su alcuni eventi o su singoli protagoniste, non lo si faceva tanto per evidenziarne le capacità, ma per sottolinearne la normalità, quasi fossero extraterrestri. Nelle interviste, poche, non si insisteva sugli aspetti tecnici, ma sul fatto che le protagoniste avessero una vita normale, con fidanzati, fatta di cucina, di civetterie femminili e desiderio di maternità. Le foto stesse che le riproducevano accanto a quelle de rettangolo di gioco le ritraeva nel pieno della loro femminilità, quasi con un vezzo di morigerata civetteria. Da un lato era il frutto di una cultura benpensante che tendeva a riportare nel recinto del focolare domestico queste ragazze che per la loro pratica sportiva, avrebbero potuto rompere gli schemi convenzionali, aprendo a rivoluzioni di costume, e per la prestanza atletica, quasi intimorivano l’universo maschile, come si trattasse di fenomeni da baraccone. Dall’altro, per scardinare tale luogo comune, si enfatizzava la normalità di tali ragazze, non diverse da tutte le loro coetanee, per poter aprire, in seguito, ad una loro emancipazione non solo sportiva ma, per il suo tramite effettiva, sebbene guidata e controllata dall’alto.27 Il mondo del basket maschile, invece, usava, talora, stereotipi presi a prestito dallo scontro di genere negli anni settanta, come nel caso di Corsolini che, per affrontare l’argomento “zone press”, come originalità del basket nazionale, ripresa dagli Usa, affermava “cestisti consoliamoci! Non abbiamo la minigonna ma abbiamo la zone press”.28
Così come l’acquisizione di una fisionomia androgina o asessuata, del periodo precedente, non era stato necessariamente un elemento di consapevolezza sulla strada di una rivendicazione di parità dei sessi, per il tramite dello sport, così adesso il recupero del tratto estetico di bellezza delle praticanti, non più nascosto, ma mostrato, non poteva dirsi come il portato di un percorso di autonomia di genere e generazionale, consapevole, nel mutato clima sociale e culturale del paese, quanto, per paradosso, proprio il contrario. Nelle intenzioni dei vertici del movimento, infatti, il tratto estetico era strumentale proprio alla difesa di una diversità di genere, di fronte ai cambiamenti che stavano segnando la società. Senza abiurare una visione agonistica del basket in rosa, se ne voleva dare una versione meno androgina e più aggraziata al femminile. La riscoperta delle differenze di sesso, tuttavia, aiutò le giocatrici e per il loro tramite l’universo femminile a raggiungere ulteriori conquiste nella parità di genere.
La disciplina sportiva del basket, infatti, diversamente da quanto ipotizzato ed auspicato in origine agli albori del Novecento, non enfatizzava gli elementi di armoniosità e di estetica del corpo femminile nella pratica. Al di là degli sforzi compiuti negli anni settanta di riscoprire l’aspetto estetico delle atlete, quindi, il basket rimase uno sport poco attrattivo per gli spettatori, riprova indiretta di un marcato maschilismo voyeuristico, difficile da scardinare, e allo stesso tempo contraddittorio con quel senso etico e del pudore proprio della morale comune di cui lo sport femminile, in Italia, dalle origini, si era detto ispiratore, in seno alla società italiana. Allo stesso tempo era il segnale indiretto delle mancate risposte in termini di emancipazione femminile sottese al basket, di fronte alle sue pur grandi potenzialità. Il ritorno dal tratto androgino a quello femminile, quindi, non fu una consapevole conquista delle ragazze del basket sulla via dell’emancipazione, ma una scelta ed una concessione ponderata della classe di governo del settore per rivitalizzalo. Tuttavia, dopo il ’68, sebbene in modo inconsapevole ciò rappresentò anche una spinta verso la parità di genere, saldando insieme femminilità e tratti androgini, quasi in una sorta di ossimoro.
Forti erano le contraddizioni in Italia avviate dal miracolo economico, ed esasperate dal ’68, tra la sua identità da Italia rurale “mille anni” e quella consumistica, non prive di ambiguità, spesso dolorose e contraddittorie, in cui lo scollamento tra società , classe dirigente partitica e parte del mondo della cultura era sempre più marcato.
Il mondo della cultura, del resto, in modo emblematico non si appassionò quasi per niente al basket femminile, diversamente da quanto fatto con altre discipline sportive.
Uno dei problemi principale del basket femminile era rappresentato dalla mancanza di capitali, dalla quasi totale assenza di managerialità professionistica, per cui si era rimasti alle “ragazze di parrocchia”, diversamente dal settore maschile dove i successi della nazionale, insieme con la riapertura agli stranieri avevano segnato una nuova frontiera, secondo Luisito Trevisan, coach della Geas.29
L’arrivo delle giocatrici straniere, infatti, nel 1981, segnò una rivoluzione, voluto dalla Fip, unitamente alla riforma dei campionati. Non solo a livello sportivo, con l’inizio di una stagione di successi internazionali, come quelli di Vicenza, ma anche di costume. Poteva dirsi finita la stagione della pallacanestro femminile al cui posto subentrava il basket in rosa. L’arrivo delle giocatrici straniere riuscì ad incidere sul piano del gioco ma anche a contribuire all’introduzione di trasformazioni strutturali nell’emancipazione femminile, per il tramite dello sport. I club del settore femminile italiano, tuttavia, non si spinsero verso il modello manageriale professionistico proprio degli Usa, né per innovarlo né per replicarlo, cosa che forse, avrebbe potuto contribuire ad un rinnovata concezione delle atlete e, per il loro tramite, della donna, ma al contrario, in nome di un conservatorismo tipico della provincia proseguirono nel solco del familismo gestionale, in nome di un tradizionalismo etico e sociale proprio delle origini della pallacanestro femminile, limitando ogni altra valenza di segno contrario o anche solo diversa.
Inizialmente si poteva tesserare una giocatrice straniera in campionato e due in coppa. Di nuovo, il motore dei principali cambiamenti del movimento, ruotava intorno al ruolo di indirizzo dello Stato, per il tramite della Federazione, al cui interno forti erano gli influssi delle principali forze partitiche (Scoppola 1997).
Il vero baricentro del movimento fu e rimase, infatti, nel tempo, non solo o non tanto la Lega, quanto piuttosto la Federazione, incastonata nel Coni, conferma indiretta del ruolo e della valenza centrale dello stato, anche nel secondo dopoguerra, nella gestione dello sport in Italia, sebbene non più nella sua piena sovranità, ma per il tramite della mediazione partitica. Ciò mise, in parte, al riparo da una serie di eccessi e derive proprie del professionismo esasperato, ma dall’altro incatenò le potenzialità latenti in seno alla società civile, quale motore di una compiuta modernizzazione del paese, anche attraverso il contributo originale dello sport, specialmente al femminile, di cui il basket era espressione.
La rivoluzione del basket femminile, quindi, finì per coincidere con le trasformazioni sociali degli anni ottanta, di cui furono un portato. Emblematico che di fronte al forte impatto mediatico delle tv, l’evento tra i più significativi, in tal senso, per il basket femminile italiano, fu l’apparizione televisiva della ormai ex cestista Mabel Bocchi al fianco di Aldo Giordani nella conduzione del segmento di Domenica sportiva dedicato al basket maschile. Era il frutto della sintesi tra bravura e avvenenza che si sommavano nella Bocchi. Tuttavia, in linea con il resto della tv del tempo, la ex giocatrice non aveva un suo spazio autonomo, ma si limitava alla funzione di leggere i risultati del campionato maschile, senza alcuna menzione di quelli del femminile, in modo emblematico.
Continuarono a mancare riviste o trasmissioni o anche solo rubriche radiotelevisive dedicate appositamente al basket femminile. Unica eccezione fu l’uscita dell’album delle figurine del campionato nazionale italiano.
Di recente a partire dagli anni novanta il mondo della pallacanestro femminile ha conosciuto un nuovo rilancio, non tanto il termini di seguito e di visibilità, quanto a partire dai suoi praticanti. Persi i tratti androgini del secondo dopoguerra, senza perdere l’ormai acquisita autonomia disciplinare, faticosamente conquistata, il basket femminile sembra aver puntato molto, accanto alla professionalità, sulla bellezza delle atlete, seguendo l’esempio di altri sport, per recuperare il terreno perduto, sebbene non come supina accettazione di una impostazione sessista. La crescita tecnica delle atlete è stata sensibile, come lo sbarco di giocatrici italiane nel pianeta della Wnba, la lega professionistica americana, sta a significare.30 Accanto a questo sempre più netto emerge l’importanza riservata all’elemento estetico da parte della pallacanestro femminile, come l’elezione a Miss Italia di una cestista sta a testimoniare. Questa ambiguità di fondo del basket in rosa si presta a duplici chiavi di lettura: da un lato indiretta procrastinazione di una tendenza maschilista, in cui il lato estetico affianca e spesso supera quello tecnico agonistico; neanche troppo velata conferma di un processo di emancipazione femminile ancora da completare, di cui il basket in parte è stato motore, ed da cui, invece, in parte ne è rimasto schiacciato. Dall’altro, al contrario, passo significativo verso una originale emancipazione in cui estetica e tecnica coesistono; indiretta conferma che l’autonomia di genere, anche grazie al basket, nel suo piccolo, pur avendo ancora strada da percorrere, dopo una serie di strappi generazionali, è riuscita a consolidarsi. La scelta del basket femminile di inseguire una propria autonomia, seppur limitatamente all’aspetto tecnico, aveva avuto nella impostazione androgina, un potenziale volano originale per contribuire, attraverso lo sport, in modo originale, all’emancipazione del mondo femminile in Italia. Quest’opportunità finì per essere in parte mancata. Il recupero dei canoni estetici delle atlete, come strumento di possibile rilancio della disciplina, segnò di nuovo un’occasione solo parzialmente colta di emancipazione femminile, provenendo più dalla galassia maschile, nelle cui mai rimaneva saldamente la guida del movimento, che da quella femminile, come consapevole presa di coscienza della donna. Il basket femminile in Italia, tuttavia, pur tra queste contraddizioni, per la sua natura e per la sua connotazione, ha accompagnato e influito sulla lunga marcia verso un’emancipazione di genere e di parità dei sessi, anche in Italia.
1AA.VV., Il Novecento delle italiane, Roma, Ed.Riuniti, 2001; AA.VV., All’origine della repubblica. Donne e costituente, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1996.
2M.Candiani, Il basket e la donna, in “Lo Sport illustrato”, 1924.
3Id.
4www.museo del basket.it
5www.museo del basket.it
6Ad allenare le ragazze italiane, per consolidarne la trasformazione tecnica secondo le nuove frontiere della disciplina, nel 1948 era stato chiamato anche Van Zandt, tecnico Usa di origine afro-americane, che per l’Italia del tempo, era elemento piuttosto atipico. Infatti presto rimane in solo ambito maschile.
7“Giganti del basket”, II, n.4, aprile 1967, pp.36-38. Sempre “Giganti” menzionava anche la scelta della Ghirri, ex giocatrice della nazionale, che aveva rinunciato, in modo emblematico, al gioco per fare la maestra. Sono maestra devo lavorare, in “Giganti del basket”, II, n.5, maggio 1967, p.47. Questo significava la mancanza di professionismo in Italia, nel basket, ma mentre gli uomini si ponevano il problema del lavoro a fine carriera, per le donne il dilemma era anticipato.
8“Giganti del basket”, IV, n.4, aprile 1969, p.47.
9“Giganti del basket”, VII, n.6 giugno 1972, p.57.
10“Giganti del basket”, VIII, n.9, settembre 1973, p.39; Id., X, n.5,maggio 1975, p.34; Id., XIII, n.2, febbraio1978, p.27.
11“Giganti del basket”, III, n.3, marzo 1968, p.47.
12“Superbasket”, II, n.14, 1979, p.53; Id., IV, n.8, 1982, p.43; Id., XIII, n.3, 1991, p.56.
13B.Forte, Nella città dell’auto un incontro automobilistico, in “Giganti del basket”, III, n.8, agosto1968, pp.29-33.
14“Giganti del basket”, V, n.6, giugno 1970, p.40.
15“Superbasket”, IV, n.20, 1982, p.43.
16“Giganti del basket”, VIII, n.5, maggio1973, p.37; “Superbasket”, II, n.32, 1980, p.54.
17Azeglio Maumary: variazioni al tema, , di L.Cecchini, in “I Giganti del basket”, VI, n.12, dicembre 1971, pp.43-45. Maumary era un ingegnere milanese, imprenditore edile, pronipote dello statista D’Azeglio, che aveva risollevato con il suo intervento le sorti della Geas Sesto S.Giovanni.
18P.Valli, Sesto: costruire, in “Giganti del basket”, X, n.5, maggio 1975, pp.32-.35.
19“Giganti del basket”, VIII, n.3, marzo 1978, p.29; “Superbasket”, III, n.31, 1981, p.47; Id., VII, n.29, 1985, p.57.
20“Giganti del basket”, XV, n.2, febbraio,1980, pp.35-36; “Superbasket”, IX, n.16, 1987, pp.49-53.
21“Giganti del basket”, IV, n.6-7, giugno-luglio 1969, p.32.
22“Giganti del basket”, XI, n.1, gennaio 1976, p.49;“Superbasket”, VIII, n. 38, 1986, p.51.
23Talora il successo del basket maschile era un traino per quello femminile in alcune realtà cittadine, più difficilmente il contrario .
24“Giganti del basket”, XII, n.7, 1977; Id., XIII, n.8, agosto, 1978, p.41; “Superbasket”, IV, n.32, 1982, p.56.
25“Giganti del basket”, XI, n.9, settembre 1976, pp.53-55; “Superbasket”, II, n.23, 1979, p.49.
26“Superbasket”, III, n.19, 1981, p.53.
27Io sono molto brava, di A.Ferraris, in “Giganti del basket”, VIII, n.7, luglio 1973, pp.37-39.
28“Giganti del basket”, II, n.1, gennaio 1967, pp.29-30.
29La chiave del boom, in “Giganti del basket”, V, n.12, dicembre 1970, pp.32-34.
30“Superbasket”, XIX, n.38, 1997, pp.42-44.
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