di Quinto Antonelli
Le origini
L’Archivio della scrittura popolare nasce informalmente sul crinale degli anni Settanta del secolo scorso, per poi costituirsi nel 1987 come settore organizzato all’interno del Museo del risorgimento e della lotta per la libertà di Trento (ora Fondazione Museo storico del Trentino).
All’origine dell’Archivio c’è l’attività del gruppo di storici legati alla rivista “Materiali di lavoro” che, a partire dal 1978, rompono con una tradizione storiografica tradizionalmente erudita e politico-istituzionale e, mutando prospettiva, cercano di ricostruire una storia “dal basso”, privilegiando nuovi protagonisti, i contadini, gli operai, i soldati, le donne, gli emigranti, i militanti politici di base, i “vinti” per citare Nuto Revelli e una delle sue opere maggiori (1977) e individuando nuove fonti. Tra queste, le scritture delle personi comuni (dalle lettere ai diari, alle memorie autobiografiche) introducono una dimensione più soggettiva nell’interpretazione dei fenomeni storici (Isnenghi 1992).
La nascita dell’Archivio (la sua costituzione materiale come luogo di conservazione e di studio) è accompagnata negli anni da una costante riflessione teorica al confine tra storia, antropologia, letteratura, linguistica e paleografia. I temi fanno riferimento al carattere ricostruttivo e selettivo della memoria (luogo di costante aggiustamento rispetto alle necessità soggettive del presente e del gruppo di appartenenza), al rapporto tra testimonianze orali e scritture autobiografiche, alla sfida della storia “dal basso”: la necessità di far interagire biografie di uomini comuni e quadri d’insieme o, in altre parole, di contribuire con le loro stesse testimonianze, alla conoscenza dei processi e degli eventi di cui gli uomini comuni sono stati partecipi (Antonelli, Iuso 2000). Le scritture popolari costringono gli storici a lasciare da parte la storia un po’ astratta dell’uomo e della sua civiltà, per fare i conti con la storia di uomini realmente esistenti o esistiti che nascono e muoiono, che si legano tra loro con forti sentimenti di amore e di odio, che agiscono mossi da rappresentazioni e pulsioni soggettive, che sono immersi in una materialità fisica e biologica (Passerini 1988).
I temi trattati nei seminari periodici che hanno punteggiato in questi anni la vita dell’Archivio hanno poi riguardato il processo di alfabetizzazione e la pratica diffusa della scrittura (Antonelli 2010); il rapporto tra scrittura, lettura e modernizzazione; le relazioni tra scrittura, senso dell’intimità e sfera degli affetti privati (la formazione dell’io); la complementarietà tra crescita dello Stato moderno ed estendersi delle pratiche della scrittura (Antonelli 1999a).
Una definizione
Iniziamo con una definizione sintetica: l’Archivio della scrittura popolare recupera, conserva e studia testi autobiografici, riconosciuti come popolari, ovvero di scriventi appartenenti a una classe sociale medio-bassa (artigiani e contadini, operai e commercianti) che condividono una prossimità sociale e una pressoché simile formazione scolastica. Ma si tratta di una scelta di campo praticata con una certa larghezza, volendo accentuare soprattutto il ruolo di scriventi comuni, contrapposto a quello di scrittori (professionisti della scrittura).
Questa connotazione sociale è ciò che distingue il nostro da altri archivi autobiografici, ed esplicita una delle sue finalità non secondarie: affermare e rendere visibile l’esistenza di una pratica autobiografica popolare autonoma, contro una linea interpretativa per cui “saremmo costretti a racchiudere l’esperienza comunicativa delle classi popolari fra i due estremi dell’oralità che esclude la scrittura e della scrittura come espressione di un’emergenza sociale (nel senso di uno sradicamento e di un estraniamento dalla classe di appartenenza) che esclude l’oralità e la capacità di scrivere di se stessi” (Leoni 1987).
L’Archivio è per ora formato da 700 unità archivistiche (con un costante aumento annuale di 30 unità) composte da manoscritti che appartengono a tipologie anche assai diversificate tra di loro: diari, autobiografie, memorie, epistolari, canzonieri, libri dei conti e libri di famiglia, zibaldoni, “album amicorum”, quaderni di scuola.
Sebbene l’Archivio abbia ambizioni nazionali è, tuttavia, fortemente radicato nel territorio ed è caratterizzato da una storia e da una cultura segnate dalla situazione di confine. Vi ritroviamo una sorta di novecento autobiografico (con una significativa appendice ottocentesca), a partire da quello straordinario coro di voci (di soldati e di donne profughe) che racconta l’esperienza popolare della Grande Guerra, riportando alla luce la memoria anche di quella guerra combattuta in divisa austriaca sul fronte orientale rapidamente rimossa nell’Italia di Vittorio Veneto. Segnata, la memoria, dallo stigma della separazione, dall’esperienza della morte e della prigionia e poi da quella di un difficile rientro in una terra che da austriaca era divenuta italiana. E tanti (qui la quantità diventa qualità) e tali sono i testi che sembra impossibile prescindere da essi per ricostruire quell’evento e quel periodo storico.
Scritture di montagna
Ritorneremo sul tema della guerra, ma occorre prima sottolineare che l’Archivio è radicato altresì in un territorio alpino e che le sue scritture possono qualificarsi, in molti casi, anche come “scritture di montagna”. Il riferimento è a quelle scritture diffuse, “ordinarie”, connotate dal loro legame con il territorio. Sono scritture relative al lavoro alpino: all’agricoltura di montagna, alla pratica dell’alpeggio, al taglio e al commercio del legname (Antonelli, Iuso 2013).
a) Il libri dei conti e libri di famiglia
I “libri dei conti” degli artigiani e dei contadini presenti nell’Archivio (11 unità archivistiche), che vanno dai primi anni del Settecento fino alla prima metà del Novecento, registrano innanzitutto l’attività economica della famiglia, sia sul versante delle proprietà con acquisti e vendita di beni, passaggi di proprietà in seguito a eredità e matrimoni, sia sul versante del lavoro quotidiano. Emerge dai libri popolari l’intensa e varia attività dei contadini di montagna, che aggiungono al lavoro dei propri campi molte altre attività artigianali (fabbro, calzolaio, falegname, carrettiere) e “opere” prestate a contadini con più sostanza (Vinante 2005-2006). Nella loro sobrietà le annotazioni economiche rivelano la durezza dei rapporti sociali soprattutto là dove intravediamo la presenza dei bambini, utilizzati già a partire dai nove anni come servi alla mercé della generosità del padrone (Antonelli, Zorzi 2010).
Spesso i “libri dei conti” si trasformano, nel giro degli anni, in più complessi “libri di famiglia” (6 unità archivistiche) che attestano generazione dopo generazione la centralità e la continuità della famiglia stessa oltre che nei suoi aspetti economici, anche in quelli biologici, religiosi, culturali. Contengono l’anagrafe familiare che fissa i momenti essenziali dell’esistenza: le nascite, i matrimoni, i decessi. Nel lungo periodo che dalla metà del Settecento porta alla fine del secolo successivo, viene ribadita la tradizione onomastica: l’uso di rinnovare il nome di un ascendente a due generazioni di distanza, l’imposizione del nome dei santi locali, l’alta ripetitività dei nomi di fratelli morti. Perché la grande protagonista dei libri di famiglia è la morte, tanto che possiamo leggere questi nostri manoscritti popolari come il drammatico resoconto di una lotta biologica senza risparmio che termina spesso con la morte precoce della madre.
Ma il libro di famiglia è anche un “libro-archivio”, raccoglitore di testi diversi: ricette farmacologiche e alimentari; annotazioni sul clima, sulle piogge troppo abbondanti, sulle nevicate eccezionali, sulle stagioni; rare notizie politiche e militari che coinvolgono il territorio e la popolazione (Antonelli 2009). Anche il quaderno rilegato comperato e iniziato nel 1888 da Francesco Giovannini, contadino di Mezzocorona, è un “libro archivio”, tanto che contiene anche le minute delle lettere inviate ai parenti emigrati in Argentina, Uruguay, Brasile e le trascrizione di quelle ricevute.
Alcuni, tramandati da una generazione all’altra, coprono un arco di tempo molto esteso. È il caso del libro della famiglia Lauton usato, pur con ripetute interruzioni, dal 1713 al 1945 (Verra 2008-2009). Anche i ventuno quaderni relativi alla famiglia contadina Dalle Piatte di Pergine registrano, dal 1768 al 1947, poco meno di duecento anni di storia familiare e collettiva: dai lavori stagionali, alla cronaca familiare e locale, civile e religiosa secondo modalità non dissimili da quelle impiegate dalle famiglie medio-borghesi e nobili studiate da Angelo Cicchetti e Raul Mordenti (1985; 2001).
b) Ricettari
Entro una pratica di scrittura domestica, ai libri di famiglia si affiancano i ricettari di cucina, scritti dalle donne di casa. La partecipazione a un progetto di ricognizione sulla memoria e la storia dell’alimentazione nella valle di Primiero ha portato alla luce trentuno ricettari popolari collocabili tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento (Antonelli, Bettega 2006; Gratton 2010-2011). In sintesi possiamo notare alcune caratteristiche comuni:
– i ricettari popolari riflettono la circolazione sociale (dall’alto verso il basso) della cultura alimentare e del gusto, non solo perché le scriventi popolari spesso riprendono le ricette da manuali di cucina a stampa, ma anche perché i loro ricettari sono l’esito di esperienze lavorative come cuoche o cameriere presso famiglie apparentenenti ad una classe sociale più elevata;
– riflettono altresì una circolazione orizzontale delle diverse culture alimentari, geograficamente diverse, favorite dall’emigrazione stagionale;
– sono contenitori “aperti” al tempo e alla storia: in quelli del Novecento vi troviamo, ad esempio, le tracce dei razionamenti di guerra, della politica autarchica, l’ingresso in cucina dei nuovi alimenti e della nuova tecnologia;
– sono luoghi di apprendimento dell’economia domestica e si qualificano come ricettari didattici, frutto di precise politiche alimentari e culturali: è il caso dei ricettari compilati negli anni Trenta durante i corsi realizzati in Trentino dall’Opera Nazionale Assistenza Italia Redenta (Weber 2011-2012);
– sono luoghi di notazioni autobiografiche;
– luoghi di scambio di saperi femminili (non solo alimentari): nelle pagine dei ricettari si dipana una fitta rete di amiche, parenti, conoscenti;
– luoghi infine dell’immaginario alimentare, perché dai ricettari popolari è escluso, salvo rare eccezioni, il cibo quotidiano, il “cibo orale” che essendo praticato ogni giorno non richiede di essere registrato (Antonelli 2006).
c) Scritture dell’emigrazione.
Dopo la guerra, l’altro evento separatore che provoca il bisogno di scrittura è l’emigrazione.
Le lettere che gli emigranti si scambiavano con la famiglia o i parenti rimasti in patria costituiscono un mondo sommerso. Un numero incalcolabile, che solo di recente ha destato l’attenzione degli storici, ma che almeno qui in Trentino non ha dato vita ad una raccolta sistematica.
Nell’Archivio della scrittura popolare troviamo 37 unità archivistiche (25 epistolari e 12 memorie autobiografiche): 19 si riferiscono all’emigrazione nell’America del nord (Stati Uniti: 18; Canada: 1); 6 all’emigrazione in America Latina (Perù: 1, Uruguai: 1, Brasile: 2, Argentina: 2); 10 all’emigrazione europea (Svizzera: 2, Germania: 4, Francia: 2, Tirolo: 1, Belgio: 1); 1 all’emigrazione in Africa (Algeria); 1 all’emigrazione in Australia. Poco, pochissimo se pensiamo alle migliaia di trentini che dovettero emigrare, al fatto che esiste tutt’ora un “altro Trentino” all’estero.
L’emigrazione, come la guerra, è uno dei grandi eventi “separatori” che provoca il ricorso alla scrittura anche da parte di uomini e donne poco alfabetizzati. Solo la lettera, infatti, è in grado di mantenere in vita un tessuto di relazioni che la distanza tende ad incrinare, di rinsaldare i legami comunitari e di parentela. E con questi una cultura e una lingua. Se il percorso dell’emigrante è di grande mobilità, il percorso mentale è invece fatto tendenzialmente di persistenza, di conservazione, di conferme. Gli emigranti dello stesso paese si cercano, si danno notizie uno con l’altro. La richiesta di informazioni sui parenti o sui compaesani assume, da parte di chi è partito, un tono a volte pressante ed ansioso. Si tratta di evitare che l’emigrazione, pensata come provvisoria, produca invece risultati irreversibili, renda cioè reciprocamente irriconoscibili coloro che la vivono dall’una e dall’altra parte. Così la lettera è spesso accompagnata dalla fotografia o dalla richiesta di una fotografia (Brezzi-Iuso 2005).
Scritture di guerra
Come abbiamo anticipato il nucleo più consistente è formato dalle scritture di soldati trentini arruolati nell’esercito austro-ungarico e di civili relative alla prima guerra mondiale (400 unità archivistiche): diari, di misura e impegno diversi, scritti quasi sempre a matita (non di rado con la matita copiativa) contenuti in taccuini tascabili, a righe o a quadretti, a volte prestampati. Sono questi i Kriegsnotizen (o i Kriegstaschenkalender), agendine che facevano parte del “kit” del soldato (come il plico delle cartoline postali) e che riportavano oltre al calendario distribuito pagina per pagina, informazioni geografiche e politiche sui paesi in guerra, la formazione dell’esercito austro-ungarico, la storia succinta della casa regnante, e qualche altro testo con finalità patriottiche (una poesia, una canzone, una preghiera). Qualche volta i diari della prigionia (trascorsa in Russia o in Siberia) sono tenuti su agendine russe prestampate in caratteri cirillici, altrimenti del tutto simili a quelle austriache. Non di rado la scrittura è intervallata da qualche disegno (il paesaggio, le case dei galiziani, ritratti), dallo schizzo delle trincee (Antonelli 2003).
A questo primo nucleo appartengono anche gli epistolari, che a volte nella loro ampiezza testimoniano l’incessante flusso di lettere e cartoline postali da e per il fronte, meno molto meno da e per i luoghi della prigionia. Sono decine, centinaia di pezzi per ogni soldato nei quattro anni e mezzo di guerra: le lettere dei giovani coniugi Botteri (per segnalare almeno un caso) che si scambiano tra il 1914 ed il 1920 sono 1371, un corpus di straordinaria importanza soprattutto se letto nella prospettiva di una storia dei sentimenti (Dondeynaz 1992).
Le memorie autobiografiche dei soldati si svolgono in tempi e modi diversi. Il punto di vista è quello di chi considera conclusa l’esperienza del combattimento, la “propria” guerra (perché in prigionia, in ospedale, dislocato a servizi interni) e può quindi dedicarsi a riordinare i ricordi, a ricostruire la propria memoria, a valutare le proprie esperienze. A maggior ragione a guerra finita. Così anche la scrittura, i modelli compositivi, il supporto cartaceo sono diversi.
Le memorie, a volte rette da una scrittura assai distesa, sono contenute in quaderni di dimensioni più grandi dei Kriegsnotizen, quaderni (solo talvolta riconoscibili come scolastici) dalla copertina rigida, cartonata, nera (o marmorizzata) e dalle pagine a righe. Sono testi che intenzionalmente, dai loro scriventi, vengono considerati “libri”: e certamente la solennità della definizione ne vuole attestare l’importanza soggettiva attribuita. Ma a distanza possiamo rilevare che questi testi (le memorie di guerra) possiedono anche le caratteristiche formali di un libro, o perlomeno trovano nel libro un modello compositivo (a testimonianza della forza di penetrazione e insieme d’attrazione della lingua scritta e delle sue varie forme di mediazione diffusa).
Le memorie della guerra sono sia documenti sulla guerra che momenti e forme dell’esperienza di guerra. In esse, come ha scritto Antonio Gibelli c’è il senso di un’esperienza memorabile, “fonte innanzitutto di stupore, e tuttavia piena anche di crudeltà e di insensatezze, non sempre razionalizzata. […] Non vi si troverà ad esempio, se non raramente il consenso senza il rifiuto, l’orgoglio del coraggio e della prova superata senza l’orrore e il disgusto per l’oscenità della morte, la proclamazione del patriottismo senza il desiderio di farla finita al più presto” (2002).
E comunque sia la guerra-orrore (lo scontro tra i corpi, il parossismo della violenza, la contaminazione con i cadaveri) non è mai censurata e troviamo qui (in queste nostre scritture autobiografiche) un contributo imprescinbile per quella “storia del corpo” (“in guerra sono i corpi a scontrarsi, a patire, a infliggere la sofferenza”) auspicata da Audoin-Rouzeau e Becker (2002, 3).
I luoghi tematici della memoria di prigionia non sono né pochi, né di poco conto. Vi troviamo analizzato con grande sensibilità il passaggio dalla condizione di soldato combattente a quello di prigioniero: il processo di annichilazione che erode pesantemente l’identità non è solo una questione che interessa gli ufficiali, il mutamento è spesso colto e descritto con grande acutezza anche dai nostri semplici soldati.
La scoperta della popolazione russa si svolge nei termini dell’incontro/scontro ben conosciuto dagli antropologi: si va dall’interesse etnografico, dalla condivisione alla diffidenza e al pregiudizio.
E ancora, nei diari vi troviamo testimoniato il drammatico impatto con un evento straordinario come la Rivoluzione bolscevica e il coinvolgimento nella guerra civile. Su tutto questo le testimonianze dei soldati costituiscono una sorta di diario collettivo che richiede uno studio proprio (Antonelli 2005).
Scritture femminili
I diari e le memorie delle donne profughe (Antonelli 1999b) aprono un campo di ricerca molto complesso che sconfina dall’ambito propriamente storico (scritti all’inizio dei secolo, ma scoperti e letti solo alla fine, questi testi finiscono inevitabilmente per evocare altri abbandoni, altri viaggi, altre vite d’esilio, altri internamenti forzati). Ci raccontano come si diventa profughi, il senso di amputazione provocato dalla partenza (circola nei testi di queste donne un sentimento doloroso di degrado e di vergogna, a vedersi costrette a fuggire con i pochi e improvvisati fagotti, in un clima di allarme, sotto il controllo dei militari, così che le profughe si paragonano agli zingari e ai mendicanti). E poi ci descrivono i processi di adattamento nell’impresa di sopravvivere; una maternità che deborda dall’ambito domestico; un corpo a corpo con il mondo.
Lo sradicamento spinge le donne fuori di casa alla ricerca delle materie prime della vita: camminano, viaggiano alla caccia di un lavoro precario (tagliare il fieno o la legna, cavar patate e barbabietole), o per chiedere un vestito per i figli o il certificato per un sussidio promesso. Perfino le donne che al momento della partenza si raccontano come assai poco presenti a se stesse, qui all’estero imparano presto a prendere il treno, ad implorare lo “starosta” per un’abitazione in cui non piova, a scrivere all’Ufficio profughi, a pretendere l’aiuto dovuto. Come scrive Anna Bravo “mobilità e corpo a corpo con il mondo diventano attributi della maternità più che la cura e il dono affettivo, fare la madre entra in urto con il fare la mamma” (1991, 109).
Rinchiuse spesso nelle “città di legno” o confinate in desolati villaggi boemi, queste donne sono tagliate fuori da ogni significativa esperienza sociale e lavorativa. Ma è proprio la loro solitudine che le induce a mutare atteggiamenti, comportamenti, stili di vita, convinzioni culturali: vivere sole, uscire da sole, assumersi da sole responsabilità familiari, tutte cose che precedentemente sembravano impossibili e pericolose, ora sono invece urgenti.
La stessa decisione di tenere un diario è in molti casi frutto della nuova situazione e la pratica della scrittura induce, a sua volta, a una riflessione più autonoma, più individuale. È nel diario che troviamo la traccia di un confronto a distanza con il marito modernamente svincolato da subalternità tradizionali.
Un immaginario canoro
All’arcipelago delle scritture di guerra fanno parte anche i canzonieri di prigionia, che però si inseriscono e ci rimandano ad un genere presente anche prima del 1914 e in contesti differenti e che quindi dobbiamo identificare in termini più generali.
Sono, i canzonieri (43 unità archivistiche), repertori canori manoscritti, a volte non privi di fregi e di illustrazioni, che coprono un arco di tempo piuttosto ampio (dagli ultimi decenni dell’Ottocento agli anni Quaranta del Novecento).
Caratterizzati dalla situazione in cui vengono redatti (l’emigrazione, il servizio militare, la prigionia), e/o da un repertorio molto specifico (devozionale, patriottico): i quaderni canzonieri vanno considerati come istantanee capaci di fissare, per un attimo, il flusso multiforme dell’esperienza culturale (qui indubbiamente emozionale, letteraria, poetica, pur dentro linguaggi di consumo e di riuso) e di raccontare, di conseguenza, molte “storie” di tipo intertestuale. Sono, in altre parole, testi che rimandano ad altri testi lungo sentieri non sempre espliciti. Ci riferiamo alla circolazione dei libri e dei fogli volanti, ma anche all’ascolto del disco e della radio. E rimandano ai luoghi privilegiati dell’alfabetizzazione e dell’acculturazione popolare: la chiesa, la scuola, l’osteria, la caserma e, poi appunto, la guerra e la prigionia. Così che alla fine questi canzonieri riflettono, come in controluce, le trame di interventi educativi, frammenti di mitologie nazionali, la presenza di culture folcloriche insieme a quelle elaborate per il popolo (Antonelli 1988; 1995).
Diari sotto le bombe
L’Archivio non si esaurisce con le scritture relative alla Grande Guerra. Ma ancora di guerre dobbiamo parlare. Per ora meno numerosi sono i testi relativi alla seconda guerra: 113 unità archivistiche. Si tratta soprattutto di diari scritti da militari trentini e non trentini (il fondo è assai meno caratterizzato dalla territorialità) sui tanti e diversi fronti (da fronte francese a quello russo) e diari di prigionia redatti nei campi di concentramento in Germania dopo l’8 settembre. Poche le memorie autobiografiche e perlopiù scritte a molti anni di distanza entro un genere che si avvicina all’autobiografia d’infanzia. Si tratta complessivamente di una “memoria frantumata” e divisa, perché diverse furono le destinazioni, le esperienze e le scelte. Realtà frantumata appunto e memoria irriducibile ad unità (Isnenghi 1989).
Anche in questo caso troviamo agendine, ma di varia tipologia e provenienza e poi quaderni, che ora rivelano la destinazione scolastica, con le copertine a colori che spesso riportano le parole d’ordine del regime, o brevi fumetti d’argomento ideologico, patriottico, o coloniale. Inutilmente cercheremo in questi testi cura formale o modelli compositivi o, in altri termini, la nostalgia del libro. Tranne in alcuni casi eccezionali.
Diari e lettere di combattenti, dunque. All’inizio della guerra, nei diari e nelle lettere familiari, troviamo ripetute le parole d’ordine del regime fascista e l’ostentata sicurezza nella vittoria (“vincere! vinceremo!”). Ma subito anche lo scarto che si evidenzia tra la guerra-propaganda e la guerra-combattuta. Già la brevissima battaglia sulle Alpi occidentali contro la Francia, provoca nei soldati uno smarrimento doloroso, un brusco risveglio, dovendo constatare le deficienze e l’impreparazione dell’esercito che provocano 1258 caduti, 2631 feriti, 2151 congelati (mentre da parte francese i caduti furono 20 e 84 i feriti).
È uno smarrimento che continua anche sul fronte greco-albanese. I diari riferiscono di una guerra aspra, faticosa, sanguinosa (furono 20.000 i morti in poco più due tre mesi); combattuta su montagne sconosciute, mal collegate con la pianura da mulattiere improvvisate. Registrano il largo uso di muli, il collasso della sussistenza. Eppure, nonostante la constatazione che si sta combattendo una guerra insensata, per i “nemici” non sempre c’è spazio per la pietà.
“La propaganda [era] la nostra unica cultura”, scrive Nuto Revelli introducendo le lettere dei caduti piemontesi raccolte nell’Ultimo fronte (1971, LII). “Il nostro soldato guarda e sovente non capisce. Ignora di essere un aggressore, ignora di portare la guerra in casa d’altri. Un pochino ha l’animo del conquistatore. Albanesi abissini, primitivi, maumettani incivili, brava gente ma ignorante, morti di fame, questi i giudizi che affiorano dalle lettere”. I medesimi che leggiamo anche nelle lettere dei trentini combattenti in Albania, o nel Montenegro, lì a reprimere i partigiani, o in Libia, dove il disprezzo per gli arabi è generale e radicato.
In Russia i giudizi negativi si caricano di motivi ideologici: l’anticomunismo, la crociata di Cristo, la cristianizzazione. “I rari incontri con la popolazione – scrive ancora Nuto Revelli – non sono sconvolgenti, non lasciano segni profondi. È ancora la miseria degli altri che ci consola. La pietà umanizza non pochi discorsi. Ma traspare anche una pietà contorta, la pietà del soldato di Cristo che avanza con le armi benedette nel nome della cività, del progresso. Il bolscevismo è l’anticristo, il cappellano militare ha il lavoro facile, le chiese profanate e distrutte chiedono vendetta. Anche le squadre dei ragazzi randagi, degli orfani, sono viste con l’occhio del cappellano militare: diventano il prodotto di una società malata, marcia, da cristianizzare” (Revelli 1971, LII).
Dopo i fronti, le tante e diverse prigionie. L’Archivio restituisce quasi soltanto i diari e le lettere degli “Imi” (gli Internati militari italiani), i soldati che catturati dopo l’8 settembre dai reparti tedeschi vennero deportati nei Lager della Germania e dei territori orientali (Giovannini 2010-2011). Le lettere dei prigionieri, per quanto sottoposte a censura e ad autocensura, pure lasciano trapelare le durissime condizioni di vita cui erano sottoposti. Più espliciti i diari, scritti nonostante fosse proibito e abilmente sottratti alle frequenti perquisizioni dei sorveglianti tedeschi. Registrano la fatica e i tempi del lavoro forzato, il trattamento da schiavi; la disciplina feroce; il tormento della fame (una fame “continua” e degradante che riappare monotona e ossessiva nelle note di tutti i diari: la qualità stomachevole del cibo, le dosi insufficienti delle razioni alimentari, il rito della divisione del pane, la nostalgia dei cibi di casa); l’assillante problema della scelta, per l’arruolamento nelle SS, per il nuovo esercito di Salò, per altre forme di collaborazione.
Alle scritture dei militari e dei prigionieri si aggiungono le lettere e i diari dei civili. Delle donne soprattutto, che registrano, a partire dal bombardamento di Trento del 2 settembre del 1943, il progressivo coinvolgimento del territorio trentino nella guerra totale: la guerra in casa.
Così, troviamo la registrazione degli allarmi e dei bombardamenti: “sopra ogni cosa –si scrive – sta il pensiero dei bombardamenti” come un incubo pauroso che “attanaglia tutti nell’angoscia”. Nel novembre del 1944, dopo un anno di allarmi e di bombe sulla città di Trento, Anna Menestrina sfollata nel perginese scrive: “17 nov. Ormai il diario si può riassumere così: allarmi e allarmi. Continui, insistenti, ad ogni ora… E bombe e controaerea” (Menestrina 2005, 180). Altre annotazioni riguardano il problema della sopravvivenza: si tratta di uscire di casa per raccogliere la legna nei boschi, per fare lunghe file davanti al piccolo negozio di paese, di contrattare con i contadini il burro, il formaggio, le patate; di fare un po’ di borsa nera. Si va, si viene, ci si sposta a piedi o, le più fotunate, in bicicletta, o con qualche camion di passaggio, sempre oppresse da una folla in cerca di un rifugio più sicuro o di generi alimentari.
Spesso queste donne che scrivono si rifugiano nella devozione. Nelle note meno quotidiane il ricorso al sacro (alla Madonna) appare il solo motivo di conforto e di speranza. È una protezione (miracolosa) che va pregata, cercata, sollecitata. Così quando all’inizio dell’estate del 1944 si diffonde la notizia delle straordinarie apparazioni della Madonna, che nella campagna di Bergamo avrebbe promesso la pace, ecco che con fervore inseguono le voci, annotano gli sviluppi, scrutano il cielo per scoprire i “fenomeni luminosi e solari” che accompagnano le apparizioni.
Altre voci provengono dalla propaganda, dalla radio. Le voci amplificano eventi, alimentano speranze, indulgono ad aspetti orrifici, tramandano leggende. In attesa della pace.
Scrivere agli idoli
Un fondo eccentrico, ma che si situa con una sua coerenza dentro le caratteristiche dell’Archivio della scrittura popolare, è il deposito delle circa 140.000 lettere inviate a Gigliola Cinquetti da ammiratrici ed ammiratori tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta.
Sono lettere e cartoline che provengono in buona parte dalle diverse regioni d’Italia, ma un numero per ora non calcolabile sono state spedite dall’estero: dai paesi europei, ma anche dal Giappone, dalla Russia e dalla Jugoslavia, dall’America Latina.
Le lettere a Gigliola Cinquetti, costituiscono, da questo punto di vista, una enorme e straordinaria documentazione collettiva di un tempo storico di grandi e profondi mutamenti (economici, sociali, linguistici, di costume), di un fenomeno di massa, di una pratica di scrittura spontanea e diffusa. Le lettere si situano dentro un genere che in un convegno di 22 anni fa, chiamammo “lettere ai potenti”, indirizzate “verso l’alto”, ovvero scritte in una situazione asimmetrica, di dislivello di ruoli sociali (Zadra, Fait 1991). Proprio in quella occasione prendemmo in considerazione accanto alle lettere alle istituzioni, ai capi carismatici, ai notabili, ai benefattori anche quelle indirizzate ai personaggi resi celebri dalla televisione, il nuovo “media” che a partire dagli anni Sessanta si insedia nella comunicazione sociale con una influenza crescente: “perché avvicina le incarnazioni del successo e del potere nella immediatezza della loro effigie, come non era mai accaduto prima. E anche per questo incoraggia un dialogo intimo tra i grandi personaggi e la gente comune” (Gibelli 1991, 11).
Così scrivere una lettera a Mike Bongiorno o a Claudio Villa o a Gigliola Cinquetti significa partecipare, in qualche modo, a quel successo, a quel potere, ridurre le distanze, assumere un qualche tipo di visibilità.
Già ad un primo casuale sondaggio operato sulle centoquarantamila lettere (Iuso, Antonelli 2007), abbiamo isolato alcune caratteristiche proprie della corrispondenza con la Cinquetti. Gli scriventi sembrano provenire da un’estrazione socio-culturale bassa e da un’area di alfabetizzazione imperfetta (Morani 2005-2006; Sartor 2006-2007; Giovannini 2007-2008): sono, nei primi anni, giovani e giovanissimi (poi a partire dalla fine degli anni Sessanta, l’età degli scriventi tende a crescere in relazione all’età della cantante). In assoluta prevalenza chiedono una fotografia con l’autografo, ma attorno a questa richiesta si aggregano poi altre annotazioni, digressioni personali, storie di vita (Lorenzetti 2009-2010). Altri scrivono dal carcere lettere di supplica e di deferenza, chiedendo un aiuto in denaro. Particolarmente interessanti sono le decine di migliaia di lettere di emigranti italiani in Germania e in Svizzera che vedono nella cantante e nelle sue canzoni un legame con la patria lontana (Delmenico 2010-2011). Moltissimi gli innamorati che chiedono un incontro (Da Rugna 2006-2007); alcuni offrono testi per possibili canzoni. Ma, come ha rilevato Paolo De Simonis riferendosi alle lettere inviate a Claudio Villa, anche nel nostro caso “la richiesta reale, più generalizzata e profonda, è comunque quella di essere esauditi in senso etimologico, ascoltati cioè pienamente, sino in fondo: da cui il frequente timore che il contatto faticosamente raggiunto si interrompa” (De Simonis 1991, 261; 2007).
Bibliografia
Antonelli Q.
1988 Storie da quattro soldi. Canzonieri popolari trentini, Trento, Museo del Risorgimento e della Lotta per la Libertà.
1995 La scrittura della voce: canzonieri popolari fassani, in “Mondo ladino”, n. 19.
1999a Scritture di confine: guida all’Archivio della scrittura popolare, Trento, Museo storico in Trento.
1999b “Io sono di continuo in pensieri…” Donne che scrivono nella Grande Guerra, in Iuso.
2003 Una società che si racconta: l’Archivio della scritttura popolare di Trento, in Paolini
2005 Escrituras exstremas. Los diarios de los prisoneros de guerra, in Castillo Gómez, Sierra Blas
2006 “I nostri sogni”: ricettari popolari trentini, in “Annali di San Michele”, n. 19.
2008 I dimenticati della Grande Guerra: la memoria dei combattenti trentini (1914-1920), Trento, Il margine.
2009 Dai libri dei conti ai libri di famiglia in ambiente contadino trentino tra Sette e Ottocento, in Ciappelli
2010 “Per essere illetterati”: alfabeti e analfabeti nel Tirolo meridionale tra Sette e Ottocento. Una ricerca in corso, in “Archivio trentino”, n. 1.
Antonelli Q., Bettega G.
2006 Sapori e Saperi: un’esperienza di ricerca a Primiero, in “Annali di San Michele”, n. 19.
Antonelli Q., Iuso A. (cur.)
2000 Vite di carta, Napoli, l’ancora del mediterraneo.
2007 Scrivere agli idoli, Trento, Museo storico in Trento.
2013 La montagna scritta: alfabetizzazione alpina e scritture popolari, Trento, Fondazione Museo storico del Trentino (in corso di pubblicazione).
Antonelli Q., Zorzi C.
2010 Bambini di montagna: storie d’infanzia 1870-1960, Trento, Fondazione Museo storico del Trentino – Ente Parco Naturale Paneveggio Pale di San Martino.
Audoin-Rouzeau S., Becker A.
2002 La violenza, la crociata, il lutto: la Grande Guerra e la storia del Novecento, Torino, Einaudi (ed. or. 2000, 14-18, retrouver la Guerre, Paris, Gallimard).
Bravo A. (cur.)
1991 Donne e uomini nelle guerre mondiali, Roma-Bari, Laterza.
Brezzi C., Iuso A. (cur.)
2005 Esuli pensieri: scritture migranti, Bologna, Clueb.
Castillo Gómez A., Sierra Blas V. (ed.)
2005 Letras bajo sospecha, Gijón (Asturias), Ediciones Trea.
Ciappelli G. (cur.)
2009 Memoria, famiglia, identità tra Italia ed Europa nell’età moderna, Bologna, Il Mulino.
Cicchetti A., Mordenti R.
1985 I libri di famiglia in Italia. Filologia e storiografia letteraria, vol. I, Roma, Edizioni di storia e letteratura.
Da Rugna L.
2006-2007 Convenzione e sentimento: la prima dichiarazione d’amore in un corpus di lettere a Gigliola Cinquetti, tesi di laurea, Facoltà di lettere e filosofia, Università degli studi di Trento.
Delmenico D.
2010-2011 “Ammiratori italiani sfortunatamente all’estero”. Lettere a Gigliola Cinquetti dalla Svizzera, 1964-1976, tesi di master, Facoltà di lettere, Università di Losanna.
De Simonis P.
1991 “Una sua foto con dedica”. Lettere a Claudio Villa, in Zadra, Fait
2007 Distinti saluti. Viva Villa, Bella ciao, claudio.it, in Antonelli, Iuso
Dondeynaz R.
1992 Selma e Guerrino. Un epistolario amoroso (1914-1920), Genova, Marietti.
Gibelli A.
1991 Lettere ai potenti: un problema di storia sociale, in Zadra, Fait.
2002 Introduzione, in Audoin-Rouzeau, Becker.
Giovannini A.
2010-2011 Per un censimento degli Imi trentini (1943-1945): dai fogli matricolari alle fonti soggettive conservate in archivi pubblici e privati, tesi di laurea, Facoltà di lettere e filosofia, Università degli studi di Trento.
Giovannini M.
2007-2008 Scrittura spontanea e scrittura guidata nelle lettere di bambini a Gigliola Cinquetti, tesi di laurea, Facoltà di lettere e filosofia, Università degli studi di Trento.
Gratton F.
2010-2011 Per un catalogo dei manoscritti di cucina del Trentino (sec. XVII-XX): schede e analisi, tesi di laurea, Facoltà di lettere e filosofia, Università degli studi di Trento.
Isnenghi M.
1989 Le guerre degli italiani: parole, immagini, ricordi 1848-1945, Milano, Mondadori.
1992 Parabola dell’autobiografia: dagli archivi della “classe” agli archivi dell’ “io”, in “Rivista di storia contemporanea”, n. 2-3.
Iuso A. (cur.)
1999 Scritture di donne: uno sguardo europeo, Arezzo, Quaderni della Biblioteca Città di Arezzo.
Leoni D.
1987 Scrivere in guerra. Diari e memorie autobiografiche, in “Materiali di lavoro”, n. 1-2.
Lorenzetti B.
2009-2010 “Cara Gigliola vorrei le scarpe di lucertola”. Per una antropologia della scrittura di gente comune negli anni ’60, tesi di laurea, Facoltà di lettere e filosofia, Università La Sapienza di Roma.
Menestrina A.
2005 Sotto le bombe: diario 1943-1945, Trento, Museo storico in Trento.
Morani N.
2005-2006 L’italiano popolare nelle lettere dei fans a Gigliola Cinquetti, tesi di abilitazione all’insegnamento, Scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario, Libera Università di Bolzano.
Mordenti R. (cur.)
2001 I libri di famiglia in Italia. Geografia e storia, vol. II, Roma. Edizioni di storia e letteratura.
Paolini A.
2003 Manoscritti librari moderni e contemporanei, Trento, Provincia autonoma di Trento.
Passerini L.
1988 Storia e soggettività: le fonti orali, la memoria, Firenze, La nuova Italia.
Revelli N.
1971 L’ultimo fronte: lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale, Torino, Einaudi.
1977 Il mondo dei vinti: testimonianze di vita contadina, Torino, Einaudi.
Sartor T.
2006-2007 Italiano regionale campano in un corpus di lettere a Gigliola Cinquetti, tesi di laurea, Facoltà di lettere e filosofia, Università degli studi di Trento.
Verra R.
2008-2009 Il libro di famiglia dei Lauton (1713-1945) fra memorie domestiche e vita sociale della comunità, tesi di laurea, Facoltà di lettere e filosofia, Università degli studi di Trento.
Vinante S.
2005-2006 Un libro di conti della valle di Fiemme. Dialetto e italiano tra XVIII e XIX secolo, tesi di laurea, Facoltà di lettere e filosofia, Università degli studi di Trento.
Weber E.
2011-2012 L’immaginario alimentare fascista. I ricettari del corso di economia domestica dell’Opera nazionale di assistenza all’Italia redenta, tesi di laurea, Facoltà di lettere e filosofia, Università degli studi di Trento.
Zadra C., Fait G.
1991 Deferenza, rivendicazione, supplica: le lettere ai potenti, Paese (Tv), Pagus edizioni.