di Camillo Brezzi
1. Le origini: Saverio Tutino
Sono passati trent’anni da quando un giornalista, scrittore, “curioso” intellettuale, viaggiatore, conoscitore di diversi paesi e di popolazioni come Saverio Tutino propose agli amministratori di un paesino della Valtiberina, in provincia di Arezzo, di creare un luogo che conservasse le memorie scritte della “gente comune”. Tutte le memorie, colte e semicolte, prodotte da donne e uomini di diverse appartenenze culturali e politiche: nobiluomini o contadini, operai e industriali, partigiani e repubblicani di Salò, emigranti e viaggiatori, precari e cervelli in fuga…
Da questa originale e fantasiosa sollecitazione nasce l’Archivio Diaristico Nazionale a Pieve Santo Stefano, località fino ad allora conosciuta per aver dato nel 1908 i natali ad Amintore Fanfani (costituente, ministro, segretario della Dc, capo di governo, presidente del Senato, e presidente dell’Assemblea delle Nazioni Unite) il quale, all’indomani della sua caduta da capo del primo governo di centro-sinistra, si ritirò (momentaneamente) dai vertici della politica romana e si dedicò alla scrittura e, rievocando i suoi anni giovanili, pubblicò un libro dedicato al suo paese, Una Pieve in Italia, uscito nel 1964.
A partire, quindi, dal 1984, Saverio Tutino, coadiuvato da una robusta e motivata équipe, inizia a raccogliere diari, memorie, epistolari della “gente comune”, di coloro che abitualmente hanno una “vita normale” o comunemente considerata tale. Non solo le autobiografie dei personaggi politici sono degne di interesse – è la premessa da cui parte Tutino – tante donne e uomini possono raccontare la loro vita, che è unica e irripetibile, altrettanto ricca, pertanto capace di destare attenzione. Tra gli obiettivi iniziali di Tutino c’è quello di non disperdere un patrimonio documentario unico, di costruire un patrimonio collettivo di memorie. Una ricchezza da valorizzare attraverso la conservazione, la catalogazione e la schedatura informatizzata. Saverio aveva colto l’assenza in Italia di “una istituzione adatta a raccogliere il bisogno crescente di un riconoscimento della capacità diffusa di autenticare la propria identità attraverso la scrittura di diari, memorie e scambi epistolari” (Tutino 1989, 15), per cui con l’Archivio di Pieve intende favorire “la rivitalizzazione della memoria come una manifestazione culturale a sé, prima ancora che come fonte di utilizzazione scientifica” (Tutino, 1990, 82).
Oggi l’Archivio rappresenta una delle iniziative più interessanti a livello nazionale e costituisce un modello anche per altri centri europei. Il fondo comprende circa 7.000 storie tra diari, memorie, autobiografie, epistolari, che abbracciano un ampio arco cronologico: dai manoscritti dell’800 ai più recenti scambi epistolari via e-mail. Nel 2003 il Ministero dei Beni Culturali ha pubblicato l’Inventario, consultabile ora – aggiornato – sul sito.
Nella fantasiosa e poetica storia dell’Archivio di Mario Perrotta, che adotta quale palcoscenico il Palazzo Pretorio, luogo fisico in cui ha sede l’Archivio, Saverio Tutino contesta l’espressione riferita ai diari, “stanno chiusi qui dentro. Le storie della gente comune sono chiuse quando si trovano fuori da qui. Invece qui sono vive e, fidati, te ne accorgerai da solo” (Perrotta, 2009, 43). Ecco infatti che Saverio (che ha scritto diari per 40 anni, una pagina al giorno) preferisce fin dall’inizio della “raccolta” chiamare il suo Archivio “vivaio”, proprio per far pensare a qualcosa che germoglia, brulica, rumoreggia, cresce (Tutino, 1990). I diari parlano e interagiscono fra loro, si scambiano di posto (come rende assai efficacemente Mario Perrotta nel suo racconto). Anche il mondo esterno, possiamo aggiungere, interagisce con i diari creando un leame di relazioni, di interazioni, di condivisione. Chi invia una memoria, una raccolta di lettere, un’agenda consegna nelle mani dei volontari dell’Archivio un pezzo della sua vita o quello di una persona cara. Lo affida ad altri, affinché venga conservato, letto, divenendo in tal modo utile a qualcuno. L’autore, quindi, vuole condividere la propria esperienza. Tanto è vero che spesso, passati alcuni anni, il “diarista” si informa se “qualcuno ha letto il diario?”. Vorrebbe contattare lo studioso che lo ha utilizzato o lo studente che se ne è servito per la sua tesi di laurea. Apre un dialogo con chi incontra la sua storia, e ciò grazie all’Archivio. Gli spezzoni importanti della vita che si susseguono rispetto alla consegna del diario sono comunicati dai diaristi, come a completare i tasselli delle loro esistenze; arrivano partecipazioni di nozze dei figli, filmini delle comunioni dei nipoti, lettere che ci raccontano cosa è accaduto dopo, e anche, purtroppo, notizie di lutti. La confluenza di questi variegati materiali con le successive integrazioni fa dell’Archivio un grande contenitore in evoluzione.
2. Premio Pieve
Anche per incentivare l’invio di “materiali nascosti in fondo a cassetti privati”, Saverio Tutino dette vita al Premio Pieve. I diari giunti durante l’anno sarebbero stati esaminati da una Commissione di lettura (inizialmente fra gli abitanti di Pieve Santo Stefano) alla quale spettava la scelta di dieci finalisti (attualmente sono otto): la “commissione di lettura è attività culturale di tipo nuovo e basta forse a giustificare il prestigio che Pieve si è guadagnata” (Tutino, 1989, 21). I testi prescelti sarebbero stati letti da una Commissione nazionale che avrebbe “premiato” un diario garantendone la pubblicazione. “Un premio per inediti praticamente anonimi; ma pur sempre un premio. Il rischio evidente era di fomentare la scrittura di diari artefatti”, scrive un po’ preoccupato Tutino (1989, 15) La risposta fu decisamente positiva (“ci avviciniamo ai mille testi archiviati in cinque o sei anni”) per cui Saverio, più rasserenato, poteva considerare che “il concorso ci sembra un prezzo ragionevole da pagare al costume dei tempi, per poter accumulare il maggior numero possibile di scritti prima che l’epoca della scrittura privata svanisca almeno nelle forme attuali” (Tutino 1989, 16-17).
L’8 settembre 1985 si tiene la prima edizione del Premio Pieve. Gianni Minà (amico di Saverio) dialoga con i finalisti, alla fine viene proclamata vincitrice una bidella bolognese, Antonella Federici. Altri amici di Saverio sono coinvolti nella giuria: Natalia Ginzburg (considerata quasi una co-fondatrice), Corrado Stajano, Vittorio Dini, Roberta Marchetti, Paolo Spriano, Luigi Santucci, Pasquale Festa Campanile e padre Ugolino Vagnuzzi. Negli anni successivi faranno parte della giuria vari studiosi, scrittori, poeti, tra cui, Dacia Maraini, Miriam Mafai, Rosetta Loy, Carlo Ginzburg, Mario Isnenghi, Vivian Lamarque, Maurizio Maggiani. Col passare degli anni, l’appuntamento di settembre si va arricchendo e la manifestazione – le “memorie in piazza” – vede una più ampia articolazione. Il calendario della giornata prevede la mattina della domenica nella Piazza delle Oche, la “Lista d’onore”, ovvero l’incontro tra quei diaristi che, pur non essendo entrati tra i finalisti, sono stati particolarmente apprezzati da ogni membro della Commissione di Lettura, una specie di testo “del cuore” per quell’anno, e ciascun membro della Commissione invita un autore a Pieve. Talvolta si creano legami duraturi fra queste persone. “Lista d’onore” è tra i dibattiti più seguiti e apprezzati, un modo informale per favorire l’incontro tra i diaristi. Il pomeriggio della domenica (tempo permettendo), sul palco di piazza Plinio Pellegrini prendono posto gli otto finalisti per uno scambio con Guido Barbieri (dal 2003 questo incontro viene trasmesso da Radio 3). Il dialogo è inframmezzato dalle letture di passi di diari da parte di Paola Roscioli e Mario Perrotta. Infine si svolge la Premiazione ufficiale, da parte del Sindaco di Pieve (da molti anni l’ing. Albano Bragagni) del diario scelto dalla giuria nazionale, attualmente composta da Guido Barbieri, Camillo Brezzi, Natalia Cangi, Pietro Clemente, Gabriella D’Ina, Beppe Del Colle, Vittorio Dini, Patrizia Gabrielli, Paola Gallo, Antonio Gibelli, Lisa Ginzburg, Roberta Marchetti, Melania G. Mazzucco, Annalena Monetti, Maria Rita Parsi, Sara Ragusa, Stefano Pivato, Nicola Tranfaglia. Il premio consiste in una piccola somma e nella successiva pubblicazione del diario.
Al centro dell’attenzione della commissione di lettura, dei giurati, dei numerosi (sempre più numerosi) spettatori-partecipanti alle giornate del Premio Pieve, dei lettori, ci sono i diaristi, tutti i diaristi, anche quelli che hanno chiesto di non partecipare al premio. Bisogna ricordare la cura con cui il personale dell’Archivio, a cominciare dalla Direttrice, Natalia Cangi (nonché presidente della Commissione di lettura dal 1992, la quale è capace di citare a memoria storie incredibili di centinaia di diari), ed i volontari dedicano a questo immenso patrimonio culturale; anche a quei diari che non sono sotto i riflettori, in quanto arrivano a volte dei diari sotto forma di lasciti: “quando riceverà questo scritto la mia persona non ci sarà più”, scrive un autore prolifico nella scrittura che aveva lasciato alla moglie la disposizione di inviare i suoi quaderni a Pieve. Un’altra diarista ritiene che l’Archivio di Pieve sia un’occasione di eternità: “non avendo avuto né marito né figli sarei passata in questa vita senza lasciare nemmeno una traccia”. Ci sono infine autori (oppure i parenti che li hanno inviati) che hanno stabilito che il loro scritto sarà un “Silenzioso parziale”. Sono i diari per i quali è stato deciso che saranno consultabili a partire da una determinata data, ora ci potrebbe essere il “rischio che quei diari offendano qualcuno, o che svelino qualcosa di inopportuno: inopportuno oggi, ma non un domani” (Perrotta, 2009, 108). E quindi bisognerà attendere il 2072.
Il debito che noi tutti nutriamo verso i diaristi dovrebbe spingerci a ricordarli, ma in questa sede non si possono menzionare tutti i nomi dei quasi settemila abitanti degli scaffali dell’Archivio Diaristico (il doppio degli abitanti di Pieve Santo Stefano): mi limito a ricordare i 33 vincitori (ci sono quattro ex aequo) delle 29 edizioni del Premio Pieve e il titolo del testo inviato.
1985 Antonella Federici, Lettere ai miei
1986 Emilia, Le parole nascoste
1987 Sergio Lenci, Colpo alla nuca
1988 Raul Rossetti, Schiena di vetro
1989 Liberale Medici, Schola Cantorum
1990 – ex aequo Natalia Berla, Il gelo dentro
1990 – ex aequo Tommaso Bordonaro, La spartenza
1991 Egidio Mileo, Il Salumificio
1992 – ex aequo Claudio Foschini, Storie di una mala vita
1992 – ex aequo Giuseppe Ferri, La guerra povera
1993 Antonio De Piero, L’isola della Quarantina
1994 Francesco Marchio, Disertore a Vladivostock
1994 Luisa T., I quaderni di Luisa
1995 – ex aequo Giovanna Cavallo, Ho sognato i suoi occhi
1995 – ex aequo Vanda Ormanto, Il Signor marito
1996 Margherita Ianelli, Gli Zappaterra
1997 Mario Tagliacozzo, Metà della vita
1998 Francesco Stefanile, Davai bistré
1999 Maddalena M., Imparare paura
2000 – ex aequo Vincenzo Rabito, Terra matta
2000 – ex aequo Armando Zanchi, Il giro della Vita
2001 Concetta Ada Gravante, Il marito taciturno
2002 Andrea Moretti, Tornare a vivere
2003 Daniele Granatelli, Il sapore del pane
2004 Antonina Azoti, Ad alta voce
2005 Raffaele Favero, Rafiullah
2006 Antonio Sbirziola, Un giorno è bello e il prossimo migliore
2007 Sisto Monti Buzzetti, Scusate la callirafia
2008 Leo Ferlan, La geometria dei sentimenti
2009 Sabrina Perla, Die Katastrophe
2010 Magda Ceccarelli De Grada, Giornale del tempo di guerra
2011 Ettore Finzi e Adele Foà, Parole trasparenti
2012 Castrenze Chimento, Lasciato nudo e crudo
2013 Francesco Leo – Anna Maria Marucelli, Yol 1511
Il Premio Pieve, che dal 2012 è dedicato a Saverio Tutino (deceduto nel novembre 2011 all’età di 88 anni), è un vero “Festival della memoria” con presentazione di diari divenuti libri o di pubblicazioni curate dall’archivio; con spettacoli teatrali, film, documentari (come quelli prodotti dalla Sacher di Nanni Moretti e Angelo Barbagallo, oppure Terra matta di Costanza Quatriglio e Chiara Ottaviano), o mostre fotografiche collegate al materiale dell’Archivio; con l’esposizione dei manoscritti più originali e caratteristici (il “tesoro dell’Archivio” allestito con cura ed attenzione da Cristina Cangi). Dal 2005 è stato istituito il Premio Città del Diario che viene assegnato ad una figura della cultura distintosi nel valorizzare la memoria. I vincitori (ai quali viene consegnato un Diario con le pagine bianche) che si sono succeduti sul palco sono stati Marco Paolini, Ascanio Celestini, Rita Borsellino (l’edizione era dedicata alla Sicilia), Mario Perrotta (in seguito divenuto apprezzato “testimonial” dell’Archivio), Francesco De Gregori (in occasione della 25° edizione, titolata “la storia siamo noi”), Mario Dondero, Sergio Zavoli, Nanni Moretti, Vinicio Capossela.
La manifestazione di settembre, nelle varie piazzette di Pieve, vede gli incontri fra chi scrive e racconta di sé e chi legge e ascolta. “Tornando a casa dopo il premio mi veniva di pensare che rientravo in un altro mondo, o meglio nel mondo”. Per due giorni Stefania Bergamini si era trovata “immersa in una atmosfera particolare, di partecipazione, di rete”. La partecipazione è il tratto saliente di quelle giornate di settembre: “È successo che la situazione sia stata quella orizzontale di una comunicazione narrativa: nel cerchio chiuso della piazza, nel tempo senza tempo della narrazione, uomini e donne hanno comunicato a uomini e donne la loro vita e sono stati compresi” (Bergamini, 2000, 6-7).
3. I diari, i diaristi
L’Archivio Diaristico non è solo un luogo in cui la memoria è conservata. È il posto in cui i ricordi e le narrazioni di sé parlano agli altri; un monumento nazionale della memoria che accoglie studiosi e curiosi da tutto il mondo; dove i diari possono prendere la forma di libri, film e spettacoli teatrali. Si potrebbe quasi dire che ogni diario, memoria, epistolario, giunto in questo paesino della Toscana, oltre a raccontare “le storie” delle loro pagine, ha anche una propria “storia” che lo contraddistingue. Alcuni di questi diari sono divenuti rappresentativi del nostro Archivio, dei veri “simboli”.
Clelia Marchi
È una contadina di Poggio Rusco (nel mantovano, paese natale di Arnoldo Mondadori) la cui solitudine, in seguito alla improvvisa morte in un incidente del marito, Anteo, la spinge a scrivere. Ha già riempito diversi fogli e poi cuciti insieme. Una notte non ha più carta. Si ricorda il racconto di una sua maestra sugli Etruschi che avvolgevano i morti nelle lenzuola. Le viene l’idea che proprio il lenzuolo del letto matrimoniale che non potrà più “consumare” con l’amato Anteo, può essere utilizzato per raccontare la loro storia. (“ho scritto il tuo nome sulla neve il vento là cancellato. Ò scritto il tuo nome sul mio cuore e lì si è fermato”). Si mette sulle ginocchia un cuscino, sopra il lenzuolo, quasi nella posa classica da ricamatrice, o da “scrivano antico”, e inizia a scrivere di sé, della sua famiglia, di Anteo, ma anche della sua terra, della sua gente. “L’anziana contadina ripercorreva la gioventù, si soffermava sui primi appuntamenti con il futuro marito, ricordava i sacrifici e la tragedia della guerra, insomma lentamente costruiva “una reliquia”. Decorava il telo con nastri rosa e nella parte superiore cuciva le immagini del marito, di Gesù Cristo, la sua e le incorniciava con del pizzo. “Gesti semplici che connotano la quotidianità femminile, quale quello di intrecciare nastri di seta, scegliere un pizzo o applicarlo sulla biancheria per renderla più preziosa, ma nel caso di Clelia con questi richiami la memoria si fa monumento di una vita. Le scritture del sé sono parte di un progetto esistenziale finalizzato a produrre qualcosa di durevole, a salvare la propria vicenda dall’oblio. Sono queste finalità a caricarle di significati trasgressivi nel caso in cui le autrici sono le donne alle quali per secoli è stata negata l’individualità e la partecipazione al linguaggio” (Gabrielli, 2004). Su quel pezzo di corredo matrimoniale d’altri tempi, vi appone a mo’ di titolo la significativa scritta, “Gnanca na busia” (neppure una bugia). Un giorno dell’inverno 1986 Clelia Marchi (accompagnata dal sindaco del suo paese e da Rossana Mai sua amica e in quel momento assessore alla cultura) prende il treno fino ad Arezzo e poi in corriera giunge a Pieve e consegna a Saverio un enorme pacco, che a differenza di quelli che arrivano all’Archivio, è soffice. Dopo averlo aperto (si capisce il perché di questa consistenza) si scopre questo eccezionale Diario, scritto su un lenzuolo. Saverio Tutino nella Prefazione alla pubblicazione, sottolinea come “nella composizione materiale e letteraria di questo scritto impareggiabile circola un’aria di magia che si propaga anche fuori dalla figura di Clelia e tocca l’intero ambito civile dei luoghi dove lei e la sua vita si sono manifestate al mondo circostante”. Dal 2006 (anno della morte di Clelia), in occasione del Premio Pieve, il Lenzuolo viene esposto; dal 2011 in un locale del Palazzo del Municipio (“la stanza del lenzuolo”, la stessa dove aveva incontrato Saverio Tutino) il lenzuolo è conservato in una bacheca (opera della ditta Goppion) e per i sempre più numerosi visitatori rappresenta un forte impatto emotivo sia per materialità della scrittura, oltre che per il testo.
“Un ampio lenzuolo bianco a due piazze quasi immacolato, una robusta tela di cotone solcata da una minuta e incerta grafia che svela la fragile pratica alla scrittura dell’autrice, accoglie i visitatori dell’archivio diaristico di Pieve Santo Stefano. Su quella tela bianca parte di un corredo di campagna, Clelia Marchi, contadina della provincia di Mantova, dopo la morte del marito Anteo Benatti, in una probabile solitudine, maturò il desiderio o l’esigenza di raccontarsi, di dare ordine e senso alla propria vita. Clelia si accorge una notte di non avere carta a disposizione per scrivere, ricorda le lezioni ormai lontane della sua maestra: “che mi aveva spiegato che i truschi [gli Etruschi] avevano avvolto un morto in un pezzo di stoffa. Ho pensato se l’hanno fatto loro lo posso fare anch’io. Le lenzuola non le posso più usare col marito e allora ho pensato di adoperarle per scrivere”. Ella rielaborava la perdita facendo della custodia della memoria e della scrittura due strumenti di conforto e di riflessione” (Gabrielli, 2004).
Vincenzo Rabito
Anche il viaggio dei sette quaderni di Vincenzo Rabito, cantoniere siciliano, “ragazzo del ’99”, “inalfabeta”, che ultra sessantenne decide di raccontare la sua storia, anzi di scriverla con una macchina da scrivere del figlio Giovanni, studente universitario a Bologna, riempiendo 1.027 pagine senza margini, a spazio zero, e ogni parola divisa da una virgola o da un punto e virgola, è una storia nella storia. Nell’ottobre del 1999 Giovanni, d’accordo con i fratelli Tano e Turi, consegna personalmente all’Archivio di Pieve i sette quaderni rilegati di suo padre, che conquistano i lettori della giuria popolare prima e della giuria nazionale poi. Quest’ultima decide di assegnare a Rabito il massimo riconoscimento del Premio Pieve del 2000. Proprio Saverio Tutino scrive: “dopo sedici anni credevamo di aver visto tutto di questa originale esperienza. Finché davanti alla Commissione di Lettura è arrivato lo scritto monumentale di un siciliano che si chiamava Rabito di cognome e Vincenzo di nome. Ed è successo più e di tutto. Leggere il diario di una completa esistenza personale sembra quasi impossibile. Scrivere un libro simile significa imparare come si possa “dare una forma elementare al caos della nostra vita”.(…) Leggere Vincenzo Rabito porta ai limiti estremi la giusta fatica che deve occorrere per compiere la lettura di una vita complicata”.
Dal 1995 facevo parte della “giuria nazionale”, quindi, ricordo i lavori di quell’anno e l’entusiasmo per l’autobiografia di Vincenzo Rabito, che si riflette nella motivazione che fu stilata: “L’incontro con la scrittura del cantoniere ragusano Vincenzo Rabito rappresenta un evento senza pari nella storia dell’Archivio stesso. Vivace, irruenta, non addomesticabile, la vicenda umana di Rabito deborda dalle pagine della sua autobiografia. L’opera è scritta in una lingua orale impastata di “sicilianismi”, con il punto e virgola a dividere ogni parola dalla successiva. Rabito si arrampica sulla scrittura di sé per quasi tutto il Novecento, litigando con la storia d’Italia e con la macchina da scrivere, ma disegnando un affresco della sua Sicilia così denso da poter essere paragonato a un “Gattopardo popolare”. La giuria, però, sapeva bene le difficoltà che può incontrare la pubblicazione di un simile dattiloscritto, innanzitutto per la sua mole, per cui accolse unanime l’idea – suggerita da un giurato, Beppe Del Colle, – di aggiungere nella motivazione una specie di “provocazione”: “L’asprezza di questa scrittura – a conti fatti più di duemila pagine – toglie la speranza di veder stampato, per la delizia dei linguisti, questo documento nella sua integralità. Il capolavoro che non leggerete”.
Da quel settembre 2000 è iniziata un’altra storia nella storia: “sembrava una sfida esagerata” per dirla ancora con le parole di Saverio Tutino. La ricerca di finanziamenti (pubblici e privati); il difficile lavoro di trascrizione e la cura editoriale (Luca Ricci, Giovanni Rabito); le risposte negative da varie case editrici che, però, non scoraggiano l’Archivio dei Diari. Finalmente un editore coraggioso e prestigioso, come Einaudi, ed Evelina Santangelo (preziosa redattrice della casa editrice torinese) subiscono il fascino di Rabito. Si apre l’ultimo capitolo di questa storia che si conclude il 6 marzo 2007 con l’uscita (sia pure non integralmente) dell’affascinante Diario di Vincenzo con il titolo Terra matta, che ribalta la provocazione della giuria del 2000, consentendo a migliaia di lettori di poter leggere questo capolavoro e divenendo un “caso letterario”. Oramai Vincenzo fa parte di Pieve, e Pieve è uno dei luoghi di Rabito. L’opera di Vincenzo Rabito è un’enciclopedia autobiografica. Tutto quello che si cerca normalmente in una scrittura di sé in Terra matta è presente. Le guerre italiane del ’900, le conquiste d’Africa, l’emigrazione, il lavoro, il mondo contadino, l’arte di arrangiarsi, l’italianità, le incomprensioni famigliari, la miseria, le illusioni, le delusioni, la rabbia, la sincerità, l’ironia. Tutto e tanto di più racchiuso in una rete di parole fittissime, messe insieme con la macchina da scrivere quasi a formare un labirinto – ogni parola divisa dalla precedente da un punto e virgola – dove il lettore si perde e vaga. Ci troviamo di fronte a un testo unico, da utilizzare e far leggere ai giovani, agli studenti. Alcune pagine (penso in particolare ai tre capitoli sulla prima guerra mondiale), per esempio, sono da antologia. Sulla vita di trincea, sugli effetti che essa aveva sul morale del combattente, molto si è scritto nei più minuti dettagli, sia da parte della letteratura come della saggistica, ma le pagine di Rabito ci fanno entrare ancora di più nella tragedia che è stata la Grande guerra.
Leggere l’autobiografia di Rabito, dunque, è un’esperienza rara. Non è “solo” la storia di un secolo o di una terra o di un uomo, oggi è anche un libro costruito con involontaria sapienza narrativa da una persona che ha preso la quinta elementare in dieci giorni, studiando su un testo di matematica e forte della lettura di due libri, perché la licenza gli serviva per trovare lavoro. Per l’Archivio di Pieve un testo emblematico e fuori da ogni possibilità di classificazione: straordinario nella sua accezione più ovvia. Per il lettore un’emozione memorabile.
Orlando Orlandi Posti
Che emozione guardare e leggere i foglietti scritti, nel carcere di via Tasso, a Roma, nei primi mesi del 1944 durante l’occupazione nazista, da Orlando Orlandi Posti, un ragazzo di 18 anni che partecipa alla Resistenza, e che da quel carcere, sfidando le severe, crudeli regole della prigionia nazista, invia alla madre dei bigliettini accuratamente celati nei colletti delle camice da lavare. Questi documenti unici e preziosi sono stati consegnati all’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano e pubblicati in occasione del sessantesimo dell’eccidio delle Fosse Ardeatine (Roma ’44, 2004). È quello di Orlando un tentativo di riallacciare un legame con il mondo esterno, con gli affetti, un modo di trovare un conforto in quella tragica situazione che preannunciava la morte. Una sequenza di piccoli pezzetti di carta, probabili fogli di un quaderno, come suggeriscono i quadretti e le righe tracciate sulle pagine, che rappresentano il tentativo estremo di colmare il vuoto della solitudine, di alleviare il dolore procurato dalla rottura drastica dei vincoli affettivi, sperare, al contempo, in un futuro fuori da quella cella. Proprio in occasione del diciottesimo compleanno, il 14 marzo 1944 – dieci giorni prima di venire ucciso alle Fosse Ardeatine -, Orlando, dopo aver disegnato sui pochi fogli a disposizione una porta della cella e una finestra con sbarre, un gesto con il quale egli sembra voler trasporre sulla carta lo spazio angusto nel quale si trovava a vivere (in quello che lui definiva “tomba dei vivi” e luogo dove le giornate finivano “senza nulla”) quasi che tale trasposizione possa rendere più reale quella dimensione assurda per un giovane, scriveva: “l’alba del mio 18 anno di vita la ho passata in carcere morendo di fame. Signore iddio fa’ che presto finiscono le sofferenze umane che tutto il mondo sta attraversando, fa’ che tutti tornino alle loro case, fa’ che il lavoro ritorni in ogni dove e così torni la pace in ogni famiglia e tutto torni nello stato normale. Signore sia fatta la tua volontà”. Foglietti inviati alla madre fino al giorno in cui insieme ad altri 334 prigionieri venne ucciso il 24 marzo 1944 alle Fosse Ardeatine. Questi foglietti hanno incuriosito e affascinato una scrittrice quale Edgarda Ferri che con la sua prosa efficace, capace di ricostruire le biografie di grandi personaggi, ci ha offerto la storia di Orlando densa di impegno civile in quei terribili anni della guerra mondiale (Ferri 2009).
Ida Nencioni
Una settantenne affetta da gravi turbe psichiche, annota con sconvolgente purezza i piccoli eventi quotidiani che si svolgono nelle case popolari di Milano e nel corso delle sue degenze ad Anghiari e nel manicomio di Arezzo: una testimonianza aspra sul calvario a cui erano sottoposti i “malati di mente”. Dopo l’approvazione della 180 Ida è seguita a domicilio dal Centro Igiene Mentale di Sansepolcro e, chiusa nella sua “casa scatolino”, scrive le proprie memorie d’infanzia, continuando ad appuntare la sua vita su fogli finissimi di calendario, quelli che si staccano uno ad uno con i numeri grandi rossi al centro. Scrive dei rumori che sente di notte (lavatrici che non smettono di girare), scrive dei suoi vicini di casa che la tormentano, dei medici e infermieri che la picchiano. Scrive tutto, Ida, nel suo “diario nero”, scrive la sua verità di donna colta, informata, strana, eccentrica, additata in paese come matta.
4. Editoria
Quanti altri diari si potrebbero (e dovrebbero) ricordare. Chiunque frequenta Pieve Santo Stefano ha i suoi “preferiti”. Sui quasi 7.000 diari la tematica più “narrata” è la seconda guerra mondiale (2.508), seguita dall’Emigrazione (760 testi), mentre la prima guerra mondiale ne conta 340. Altre tematiche centrali sono la Famiglia e la Scuola.
Sin dalle origini l’Archivio ha avviato un’attività editoriale che ha coinvolto diverse case editrici. In trent’anni questo settore è stato particolarmente rigoglioso e si è dato vita a varie “collane”. La prima con Rosellina Archinto; poi con Giunti; dal 2001, un accordo con Terre di mezzo (I diari di Pieve) pubblica il diario vincitore del Premio Pieve, e altri finalisti. In coincidenza di quell’anniversario si è avviata una nuova collana Autografie (progettata da Loretta Veri ed edita da Forum di Udine) composta da brevi testi, particolarmente significativi, che aprono squarci sulla grande storia. Il primo volume pubblicato è l’autobiografia di Angelo Rebay, ricco commerciante comasco, dall’arrivo delle truppe napoleoniche all’Unità d’Italia, cui ha fatto seguito l’epistolario di Gaetano Carlucci, Patrie e domestiche cose, il diario di fine Ottocento di Giuseppina Croci, Sul bastimento per Shanghai, e le lettere alle sorelle del pittore uxoricida Giuseppe Forcignanò, Tirai su di lei per troppo amore.
L’attività editoriale rappresenta uno degli aspetti più importanti e faticosi di quel “volontariato culturale” che caratterizza l’Archivio. Al contempo l’Archivio è uno straordinario luogo di “formazione” per i “volontari”: basti pensare a chi cataloga, digitalizza, a chi si occupa di comunicazione e marketing culturale, fundraising , allestimenti, editing di libri, contenuti web, tutte professioni culturali che trovano una sempre più qualificata specializzazione a Pieve Santo Stefano. Un “cruccio”, forse, per molti “volontari” che operano nell’editoria, consiste proprio nel non poter offrire ad un pubblico più ampio la possibilità di leggere le tante storie conservate negli scaffali di Pieve che varrebbe la pena far conoscere. Oltre alle difficoltà di mercato proprie dei “diari” (stando a quanto affermano gli editori), ve ne è almeno un’altra dovuta alla natura stessa dei testi: vorremmo pubblicarli così come sono stati scritti, con l’italiano incespicante e l’immediatezza di chi scrive per sé, senza troppo preoccuparsi di rivedere la forma e il contenuto. Troppo spesso, invece, gli editori hanno l’esigenza di trasformare queste scritture, a volte difficili, a volte lente e ripetitive, in testi scorrevoli, in edizioni accattivanti e popolari.
Di questa ricca produzione mi limito a richiamare solo alcuni nomi di autori, Raul Rossetti, Tommaso Bordonaro, Antonina Azoti, Margherita Ianelli, la contessa Emilia, Antonio Sbirziola, Santuzza Lischi Coradeschi, Egidio Mileo, Sabrina Perla, Raffaele Favero, Luisa T., Sisto Monti Buzzetti, Giuseppe Manetti, Paola Oliva Bertelli. Testi che oramai sono stati letti, esaminati, studiati da storici, antropologi, letterati. Un dato quello relativo al valore di “fonte” di questi scritti, che forse all’inizio degli anni Ottanta non si prevedeva, ma che oggi è divenuto uno degli aspetti con il quale ci si misura maggiormente: confrontarsi e collegarsi con il mondo scientifico e porre i diari di Pieve sempre più in rapporto nel quadro del rinnovato dibattito storiografico e letterario.
Storie italiane
L’ultima collana, Storie italiane (edita dal Mulino, grazie all’attenzione e all’impegno di Ugo Berti e Annalena Monetti), è il tentativo di offrire degli spaccati della storia del Novecento o la ricostruzione di momenti o tematiche significative utilizzando i “nostri” Diari. Ecco quindi porre le scritture di Pieve in rapporto e nell’ambito del dibattito storiografico e letterario sulle scritture di guerra. Il volume di Patrizia Gabrielli, Scenari di guerra, parole di donne. Diari e memorie nell’Italia della seconda guerra mondiale (il Mulino, 2007), infatti, è composto di due parti che s’intersecano assai bene fra loro: un ampio e raffinato saggio storiografico che fa il punto sui temi della guerra totale, delle guerre civili, della Resistenza partigiana, della Resistenza civile, delle stragi naziste, sul “vissuto degli italiani” di uomini e donne di contadini e cittadini. Insomma, un saggio che definisce lo “stato dell’arte” circa la produzione storiografica su un periodo e un dibattito che ha visto negli ultimi anni una particolare ricchezza di partecipazione. La seconda parte è una’antologia di brani tratti dalle memorie, dai diari dell’Archivio di Pieve. Le scritture antologiche appartengono a donne che hanno vissuto l’esperienza di guerra in Toscana, sia native di questa regione, che di passaggio, in conseguenza proprio della guerra.
Da questo primo volume abbiamo proseguito allargando lo spettro dei modelli delle pubblicazioni. Innanzitutto alcune “antologie” presentate da studiosi che inquadrano l’argomento trattato: In bicicletta. Memorie sull’Italia a due ruote, curato da Stefano Pivato (autore anche di una efficace Premessa), Loretta Veri e Natalia Cangi (2009); Se potessi avere. Memorie degli italiani ai tempi della lira, a cura di Diego Pastorino e con una prefazione di Pietro Clemente (2011); Patria mia. Scritture private nell’Italia unita, a cura di Massimo Baioni (2011).
Alcuni volumi editi propongono dei significativi diari che di per sé ci narrano dei periodi della storia italiana: la quotidianità della Roma occupata dai nazisti, nelle lettere alla moglie Antonietta di Corrado Di Pompeo, Più della fame e più dei bombardamenti (2009), che rappresentano un “monologo” di “un mondo piccolo dentro una grande tragedia”, come osserva nell’analitica Prefazione Alessandro Portelli.
Il testo di Sergio Lenci, vincitore del Premio Pieve del 1987, Colpo alla nuca. Memorie di una vittima del terrorismo (2009), che ci riporta ai drammatici anni Settanta e Ottanta, all’atteggiamento delle istituzioni politiche, agli interrogativi sulla violenza ed agli “obiettivi” di quel periodo, e, soprattutto, alle vittime: nel caso di Lenci, come afferma Giovanni De Luna nel suo denso saggio introduttivo, Oltre la soglia, “Non vuole vendetta, vuole capire”.
Il minuzioso, ricco e appassionato Giornale del tempo di guerra. 12 giugno 1940 – 7 maggio 1945 di Magda Ceccarelli De Grada (2011) ci fa piombare ne I giorni della passione, per dirla con il titolo dell’ampia ed eccellente presentazione di Melania G. Mazzucco.
Il volume di Antonio Sbirziola, Povero, onesto e gentiluomo. Un emigrante in Australia 1954-1961 (2012), ci conduce su un tema – l’emigrazione – assai presente negli scaffali dell’Archivio e lo fa con “l’intensità umana dei progetti coltivati e insieme la potenza e l’efficacia della loro magmatica narrazione”, come osserva con puntualità nella prefazione Antonio Gibelli.
I Diari e le lettere che si scambiano tra il 1939 e il ’45 i giovani coniugi ebrei Ettore Finzi e Adelina Foà, Parole trasparenti (2013, a cura del figlio Daniele, vincitore del Premio Pieve 2011), ci consentono di conoscere i difficili anni, tra disagi e sacrifici, che debbono affrontare dopo aver lasciato l’Italia all’indomani delle leggi razziste, dirigendosi in Palestina (e dove per il lavoro di Ettore si dovranno separare): l’eco della guerra mondiale e dei tanti lutti giunge in maniera drammatica nel continuo sovrapporsi della dimensione pubblica e privata.
L’autobiografia di Claudio Foschini, In nome del popolo italiano. Storie di una malavita (2013), ci porta nella degradata periferia romana del dopoguerra dove si ha la “formazione” di un ladro, rapinatore, coatto, che poi si dedicherà alla scrittura nel carcere di Rebibbia e nel 1992 vincerà il Premio Pieve. La tragica fine (ucciso nel maggio 2010 da una guardia giurata) non fa parte del volume, ma – come scrive nella Prefazione Giancarlo De Cataldo – “è impossibile leggere queste pagine piene di vita senza pensare al finale”.
Nella collana Storie italiane si è voluta anche sperimentare la pubblicazione di testi inerenti momenti storici significativi. Ciò è stato possibile grazie alla disponibilità di eccellenti storici (e questo è già un aspetto positivo) che sanno “scrivere bene” (e questo non sempre è una caratteristica della storiografia italiana) ed hanno accettato di pubblicare un libro senza note a piè di pagina (e questa è una vera rarità per l’accademia). Patrizia Gabrielli con Anni di novità e di grandi cose. Il boom economico fra tradizione e cambiamento (2011) ci offre un percorso narrativo di quei “anni ruggenti” (per usare l’efficace termine di Alberto Asor Rosa, 2011) e, grazie all’“immaginario dei protagonisti” delle memorie dell’Archivio, si confronta con la fase precedente, quella dell’Italia povera e arretrata dei primi anni del dopoguerra e mette in evidenza non soltanto le luci, ma anche le ombre del nuovo che avanza e dei mutamenti della società italiana.
Con Voci dalla guerra civile. Italiani nel 1943 – 1945, Luigi Ganapini racconta quei terribili venti mesi di guerra in casa, di divisione di un paese, di una fase cruciale per un paese logorato dal ventennio fascista e che rappresentò “il momento della prova decisiva”. Le “voci” sono le più varie, e riescono ad offrirci il clima, le sensazioni, degli eventi e dei protagonisti, così come “l’attesa e la partecipazione dolente di chi rimane a casa a patire e a sperare” (2012).
Nella collana del Mulino nel 2014 è prevista la pubblicazione di un volume che fa parte di un più ampio progetto dell’Archivio sulla Grande Guerra. La ricerca di Nicola Maranesi, si propone di rappresentare le tappe del percorso emotivo tracciato dai soldati italiani che hanno combattuto in trincea durante la Grande Guerra. Alla ricerca degli stati d’animo vissuti dai combattenti, l’autore ha setacciato quasi 200 documenti autobiografici tra diari, memorie ed epistolari, documenti vivi, eloquenti, che continuano a rivelare risvolti inediti dell’esperienza bellica e che hanno ispirato un’indagine che si snoda tra le emozioni e le sensazioni dei richiamati dal momento del loro arrivo in prima linea a quello, per chi è riuscito a viverlo, del ritorno a casa.
5. Impronte digitali e Piccolo museo del diario
Da quanto detto finora risulta evidente come l’Archivio Diaristico abbia sviluppato, in questi trent’anni, un lavoro significativo e realizzato una serie di iniziative per consolidare la memoria individuale e collettiva e destare allarme rispetto ai rischi di una politica dell’oblio, o di una storia ignara – o comunque lontana – dalle vicende quotidiane vissute da uomini e donne. Sia pure in un contesto economico sempre più difficile per strutture come una “onlus”, quale è l’Archivio Diaristico, a Pieve negli ultimi tempi ci siamo posti un’ulteriore obiettivo, e non certo secondario. L’Archivio è nato nella fase pre-telematica. Noi tutti sappiamo come gli ultimi anni sul piano tecnologico abbiano comportato trasformazioni superiori a quelle avvenute negli ultimi secoli, da qui la scelta di intraprendere un’azione straordinaria di conservazione, restauro e digitalizzazione dei manoscritti appartenenti al fondo documentario, partendo da quelli più antichi o in peggiore stato di conservazione, sino ad arrivare ai documenti più recenti.
Il progetto Impronte digitali ha visto sin dall’inizio l’appoggio della Fondazione Telecom Italia e della Regione Toscana (grazie all’inesauribile impegno della fundraiser dell’Archivio, Loretta Veri, precedentemente Direttrice dell’Archivio dal 1987 al 2009) e, potremmo dire, ovviamente, ha digitalizzato quale primo documento quello più simbolico di tutto l’Archivio, il lenzuolo di Clelia Marchi. La prima parte digitalizzata è stata il fondo manoscritti autografi che (nella schedatura fino al 2011) è composto da 907 testi, di cui 33 redatti anteriormente al 1900, 243 redatti fra il 1900 e il 1950 e 631 manoscritti redatti dopo il 1950. I manoscritti sono costituiti da diari, lettere e liber amicorum dell’Ottocento, epistolari d’emigrazione, taccuini scritti in trincea nella prima guerra mondiale, agende e quaderni di scrittura più recente, memoriali, diari di viaggio, autobiografie o brevi testimonianze, ricordi della seconda guerra mondiale e di altri conflitti. In vista del centenario della grande guerra, il gruppo che lavora al progetto ha digitalizzato centinaia di documenti relative a quel grande evento sul quale l’Archivio ha intenzione di promuovere varie iniziative a partire dal 2014.
L’obiettivo finale è quello di mettere in rete i testi digitalizzati, così da creare una sorta di Archivio autobiografico digitale. I diari in formato digitale, saranno inseriti nella Digital Library dell’Archivio, potranno essere scaricati da qualunque computer con un semplice download; in questo modo, chiunque potrà avere a disposizione in biblioteca, in un circolo culturale o a casa propria la copia dei testi che si trovano nel sito, facilitando la curiosità di molti appassionati alle storie di gente comune, oppure agevolando le ricerche per tesi di laurea, o gli studi di storia o letteratura, di antropologia o psicologia in Europa come negli Stati Uniti, oppure favorire le già numerose pubblicazioni (aspetto sul quale, per ben motivi di spazio, non posso rinviare ad una specifica nota bibliografica; mi limito a ricordare l’ultimo lavoro di Christopher Duggan, 2013). Insomma con Impronte digitali si intende mettere a disposizione nel web il patrimonio documentario accumulato in questi trent’anni e rendere disponibile questo straordinario racconto della storia d’Italia. “Sia chiaro – quasi ammoniva Nicola Maranesi (2012) – chiunque abbia avuto il privilegio di trascorrere anche un solo giorno nella sede dell’Archivio a Pieve Santo Stefano vi dirà che assaporare le testimonianze autobiografiche nel loro habitat naturale rappresenta un’esperienza senza eguali: scegliere con cura il testo che il destino ha messo sul vostro cammino; chiederne timidamente la consultazione al personale paziente e qualificato; assecondare quel fremito che si presenta tutte le volte che si crea un’attesa; seguire con lo sguardo la mano che scorre la moltitudine di testi ordinatamente allineati sugli scaffali fin quando non si posa su quello che avete prescelto; accogliere tra le vostre mani il faldone che contiene la carta e l’inchiostro, aprirlo lentamente mentre la gola diventa secca per quel misto di emozione e polvere sollevata dalle pagine; infine l’odore dei fogli, il rispetto dell’autore, la brama di sapere”. È vero, si perderanno molte emozioni che solo quel luogo sa offrire. “Contestualmente però – ricordava Maranesi – non si può che gioire di fronte all’idea di poter offrire l’accesso diretto ai documenti a un pubblico potenzialmente immensamente più vasto”.
Al contempo solo chi continuerà a venire nel piccolo centro della Valtiberina sarà ricompensato in quanto potrà ammirare uno nuovo spazio, unico ed affascinante, il Piccolo museo del diario, nel Palazzo Pretorio nel cuore di Pieve Santo Stefano. Non si può raccontare tutto quello che l’Archivio ha realizzato, né tutte le storie che ospita, ma grazie al progetto dello studio di interaction design dotdotdot il Piccolo museo del diario offre il senso, la suggestione del luogo archivio e rappresenta alcune delle sue storie simbolo. Un luogo piccolo, ma ricchissimo di sorprese, scoperte, visitabile in una forma più immediata, ma anche più approfondita se si ha tempo e voglia di sostare. Dal dicembre 2013, data della inaugurazione, entrando nel museo le prime due sale sono dedicate all’Archivio, un omaggio alle sue anime, un vivaio di memorie, confessioni, segreti nascosti in scaffali e cassetti pronti per essere svelati: un grande archivio per diverse tipologie di pagine, tracce e testimonianze di vite personali. A ridosso delle pareti delle sale è stata infatti riprodotta una parete archivio di legno fatta di ante e cassetti, sulla cui superficie, videoproiezioni dinamiche riproducono i fogli dei diari. Basta avvicinarsi ad uno dei cassetti, estrarlo e ci si trova di fronte a schermi digitali e ad alcuni diari originali che permettono di leggere il contenuto delle storie, che vengono anche raccontate da uno delle voci narranti dell’Archivio (Andrea Biagiotti, Grazia Cappelletti, Paola Roscioli e Mario Perrotta).
Il Piccolo museo del diario si colloca, per quanto concerne il territorio di Pieve Santo Stefano, al centro di un altro progetto, Memory Route, un progetto di turismo culturale, che si basa sui social media e sulle comunità internazionali, ed è il naturale proseguimento di Impronte digitali.
Insomma, oltre al lavoro compiuto negli anni a cavallo fra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI, ora con il progetto Impronte digitali si darà vita ad un Archivio dei diari al passo dei tempi, che può aprire una nuova frontiera di raccolta e condivisione di memoria, pronto ad essere preziosa fonte anche per gli studiosi del 2064. Si potrà offrire all’Archivio dei diari interessanti sviluppi, si potranno coinvolgere professionalità diverse, ad esempio nell’interpretazione di grafie complesse. Ogni lavoro su un singolo testo, che sia una trascrizione, una ricerca, la metadatazione o altro ancora, potrebbe non essere più relegato all’impegno di un singolo, fatto al chiuso delle mura dell’Archivio, ma aperto ad altri esperti sul web che sicuramente destinando un po’ del loro tempo potrebbero arricchire e qualificare la nostra istituzione.
6. Conclusione (provvisoria)
Senza dimenticare l’Archivio delle origini, l’Archivio inventato e voluto da Saverio Tutino, ma pensando al rapporto dell’Archivio diaristico con le nuove tecnologie, vorrei concludere con una citazione di Ascanio Celestini, oltre che apprezzato attore anche amico di Saverio e dell’Archivio: “L’Archivio dei diari è un grande investimento nella tecnologia nel senso che ad oggi, io credo, non c’abbiamo una tecnologia all’altezza della carta scritta, insomma, della penna o della matita che scrive su un foglio di carta. Sì, abbiamo il computer, mandiamo sms, e-mail, abbiamo l’e-book e quant’altro, però in realtà sappiamo bene: quando il telefonino cade e si rompe perdiamo tutti i numeri del telefono che ci abbiamo segnati sopra, il computer ci si blocca e perdiamo dei dati, figuriamoci se ci si rompe proprio, dobbiamo continuamente fare dei back-up e quelli sono tutti dati che non soltanto perdiamo di continuo ma alla fine perdiamo anche l’idea stessa, la concezione del “lasciare tracce”. Aggiorno i miei documenti, ma aggiornando i documenti ho sempre documenti nuovi e butto sempre via quelli vecchi. Per cui prendere dei diari, e non soltanto dei diari, anche memorie e queste pagine di carta scritte a penna o a matita metterle in un posto in un archivio, significa realmente investire in una tecnologia che fino adesso è insuperata”.
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