di Marco Bizzocchi
Se iniziamo a sfogliare un buon atlante storico-geografico dall’inizio alla fine, notiamo subito che le prime pagine raffigurano solo la Mesopotamia, l’Egitto o la Grecia, o comunque aree territorialmente limitate, mentre le ultime utilizzano veri e propri planisferi.
Noterete le classiche freccette, righe tratteggiate e crocette che vengono usate tradizionalmente per spiegare avvenimenti e battaglie in aree del mondo sempre più grandi e sempre più diverse tra di loro.
E sono sicuro che questo dettaglio macroscopico vi lascerà indifferenti e quindi chiuderete l’atlante per passare ad altro o vi concentrerete su una particolare cartina tematica, magari della Seconda guerra punica.
Questa apparente indifferenza verso quella che viene generalmente chiamata “mondializzazione” è più dettata dall’abitudine che dal menefreghismo. Abitudine generata dal fatto che noi ormai viviamo in un mondo completamente interconnesso e non rimaniamo certamente a bocca aperta di fronte ad un pezzo di carta che ce ne mostra la lenta manifestazione.
Per di più, certi Paesi che di solito negli atlanti incontriamo verso le ultime pagine (Cina, Giappone, India, ecc.) ultimamente stanno sviluppando una loro via economica estremamente potente e in espansione.
Quello però che appare quasi ovvio nella vita quotidiana si complica incredibilmente quando ci spostiamo nel campo disciplinare di una materia come la storiografia, che per antonomasia dovrebbe essere una delle specializzazioni che riflettono maggiormente sulla realtà politica-sociale e culturale di un’epoca.
Andando infatti a vedere le risposte che la storiografia propone in merito, sorgono immediatamente diversi problemi. Si coglie un ritardo nell’adeguamento della metodologia storica ai tempi mondializzati attraverso il soffermarsi su impostazioni datate e sicuramente non all’altezza dei problemi che la realtà pone allo storico.
Questo è il principale argomento di world history. Diciamo pure un casus belli per i due autori, Laura Di Fiore e Marco Meriggi. Il testo infatti è molto critico nei riguardi della tradizione storiografica occidentale, denunciata per aver posto una metodologia storica per un lungo periodo di tempo (sostanzialmente coincidente con la dominazione coloniale) e che ora, anche grazie al processo di de-colonizzazione, necessita di un cambiamento radicale. La realtà che questa metodologia pretende di descrivere e capire parte da presupposti e punti di vista sostanzialmente inconciliabili con gli studi storici “tradizionali”.
Ci troviamo quindi di fronte all’irrompere di un nuovo paradigma storiografico che pretende di sostituire quello vecchio attraverso un totale ripensamento del passato con il punto di vista, questa volta, che i world historien propongono e sostengono.
Suddividendo l’opera in quattro capitoli, gli autori ci offrono uno “strumento di base per orientarsi al di là della prospettiva eurocentrica” (p. VII). Da una parte, quindi, lo sfasamento tra la realtà mondializzata e la risposta storiografica e dall’altra la descrizione sommaria delle “nuove rotte della storia” attraverso i loro principali esponenti.
Questi obiettivi vengono perseguiti in almeno tre parti dell’opera. Nella prima parte dove viene riassunta sommariamente la metodologia storica da Erodoto a Toynbee, considerato quest’ultimo, insieme a Spengler, un vero e proprio antecedente dei world historien grazie alla sua spiccata visione di una “storia ecumenica” caratterizzata da una forte interdipendenza (p. 13). Nella lunga e densa seconda parte (corrispondente grosso modo con il II capitolo), viene descritto tutto il panorama storiografico che i world historien propongono, nonché la metodologia che ritengono idonea alle nuove domande che il presente chiede allo studioso.
Temi come la globalizzazione, le migrazioni, il sistema-mondo e la nascita del mondo moderno vengono sviluppate partendo da presupposti che non pongono più l’Europa come punto focale d’analisi, ma come una delle diverse realtà della storia. Studi ormai divenuti dei classici come il lavoro svolto da Kenneth Pomeranz, La grande divergenza, dove l’autore si interroga sulle motivazioni che portarono al trionfo europeo in età moderna, diventano paradigmatici della nuova impostazione metodologica dei world historien. Il fattore innovativo del saggio di Pomeranz, secondo Meriggi e Di Fiore, consiste nel portare alla luce la teoria secondo cui, almeno fino alla metà del Settecento, non esistevano, a livello economico, vere differenze qualitative tra Asia ed Europa e che la vera domanda non è come si sviluppò il decollo capitalista (che portò alla Grande divergenza) ma perché si sviluppò nel nostro continente piuttosto che in Asia. Risposta che metterà Pomeranz in disaccordo con un altro grande autore citato nel libro, Jones, autore di un ormai altrettanto classico volume, Il miracolo europeo.
Oltre a ciò il libro ci propone una densa mappatura delle varianti storiografiche “globali” odierne, evidenziando anche delle spaccature teoriche tra le varie proposte disciplinari.
Attraverso il commento di alcuni lavori dei maggiori autori vengono analizzate scuole di pensiero alternativo come la global history, environmental history, big history, area studies, tutte con peculiarità proprie e spesso divergenti tra loro. Quello che però accomuna tutte queste realtà (compresa ovviamente la world history) è la convinzione di dover superare un paradigma storiografico tradizionale basato sul concetto di nazione e sull’impostazione euro-centrica della storia.
Dal punto di vista metodologico appare solido e ben costruito; come sostenevo poco sopra la descrizione e analisi delle diverse correnti di pensiero è accompagnata dal commento delle rispettive opere principali, e la nutrita bibliografia, composta per l’80% da testi in lingua inglese, seguiti da opere in lingua francese, italiana e tedesca, appare ben strutturata e ordinata. È inoltre presente una breve lista delle istituzioni mondiali allacciate alla world history e una serie di riviste con articoli divisa per annate.
In ultimo si può aggiungere che il libro, stilisticamente parlando, possiede una scrittura snella e veloce, piacevole alla lettura e con un linguaggio semplice e immediato adatto anche a chi non è propriamente un addetto ai lavori.
Un vademecum, in lingua italiana, su un nuovo paradigma storiografico