di Annarita Gori
Abstract
La battaglia di Curtatone e Montanara è stata, fin dalla seconda metà del XIX secolo, un cardine della pedagogia patriottica toscana e nazionale. L’evento, infatti, riassume in sé una molteplicità di significati: attorno a questa data si concentrano alcune “figure profonde”– come il lutto, l’eroismo e il martirio –, che furono rielaborate in maniera originale grazie all’intreccio con il substrato mitico e simbolico che contraddistinse la battaglia stessa. L’articolo si propone di analizzare come la memoria della battaglia ed alcuni di questi nuclei tematici sono stati rielaborati dalla classe politica fiorentina nei complessi anni dell’età giolittiana.
Abstract english
The “Tuscan Thermopylae”: the recollection of the events in Curtatone and Montanara during the time of Giovanni Giolitti.
Since the second half of the nineteenth century the battle of Curtatone and Montanara has represented a very important event for the Tuscan and national patriotic education. This is because the episode embodies a multiplicity of meanings and important topics (such as mourning, heroism and martyrdom) which were after reprocessed in an original way, thanks to the mythical and symbolic substrate that characterized the battle itself.
La “sconfitta vittoriosa”1 di Curtatone e Montanara, la cui durata fu solo di poche ore, ha avuto sin dall’inizio un forte impatto nella popolazione, diventando di fatto un cardine della pedagogia patriottica toscana2. Il 29 maggio, come ha messo in luce Costantino Cipolla, diventò una data emblematica della storia della formazione del paese, perché, in questo giorno
un esercito, potente, classico, strutturato, addestrato, solido, sempre in azione, si scontrò con un esercito composto per il 50% da volontari senza alcuna esperienza di guerra; perché un mondo di nobili si oppose o assalì un mondo già di borghesi; […] perché il divario fra i belligeranti fu enorme sul piano delle forze in campo; perché, come è facile provare, il battaglione universitario toscano, che andava a combattere con la sua spavalda gioventù e con la sua élite culturale contro lo straniero usurpatore è rimasto nella memoria collettiva della nazione; perché la battaglia, proprio forse per la presenza di tanti intellettuali, fu molto raccontata, descritta, testimoniata, interpretata; perché fu combattuta per conto terzi – i piemontesi-, pur non avendo da terzi alcun supporti; perché pur nella sconfitta, essa evitò agli austriaci di mettere in atto il loro piano di aggiramento dell’esercito sabaudo; […] perché il volontariato che qui si espresse fu puro, senza carismi trascinanti, extra-territoriale e coprì quasi tutto il centro e il sud (Cipolla 2004a, 18).
La battaglia di Curtatone e Montanara riassunse in sé una molteplicità di significati: attorno a questa data si concentrarono alcune “figure profonde”3 – come il lutto, l’eroismo e il martirio –, che furono rielaborate in maniera originale grazie all’intreccio con il substrato mitico e simbolico che contraddistinse la battaglia stessa.
Il primo di questi “aggregati tematici” ruota attorno al concetto di epicità. Lo scontro tra i volontari toscani e le truppe austriache fu presentato già dai contemporanei come una battaglia epica, che trovava i suoi naturali riferimenti nel mondo classico e nel mondo cattolico. Ancora nel periodo giolittiano i riferimenti religiosi della giornata erano molto forti: il 29 maggio era festeggiato prevalentemente con una funzione a suffragio dei caduti e, sebbene non si trovassero più frequentemente i riferimenti alla “crociata di civiltà”4, ancora si poteva leggere sul settimanale “Stella Cattolica” come il nome di Curtatone e Montanara rimandasse all’“amor di patria, alla pietà dei defunti, alla grandezza d’Italia, alla maestà del rito e alla santità di Dio”5.
Pare invece che il riferimento all’epicità del mondo classico permanesse più saldamente fino all’inizio del XX secolo. La battaglia, che provocò un forte impatto emotivo nella popolazione fiorentina, fu da subito assimilata al sacrificio di Leonida e dei suoi trecento spartani al passo delle Termopili6. Curtatone e Montanara diveniva così l’emblema dell’avanguardia del rinnovamento in atto nel paese; non solo, tramite questo processo di assimilazione il 29 maggio diventava “un modello di lotta della civiltà contro la barbarie, della libertà contro il dispotismo, dei pochi contro i molti, e ancor più del sacrificio volontario, della gioventù offerta per il bene della patria” (De Laugier 1854, 131). La familiarità del mito fece sì che la battaglia continuasse a rappresentare, nel corso degli anni, un punto fondamentale della storia del Risorgimento e un motivo d’orgoglio per i cittadini di Firenze. Il riferimento all’epicità classica, con il conseguente portato di valori etici e morali, proseguì durante i decenni successivi a ulteriore riprova di quanto esso fosse stato assimilato dalla popolazione.
Così, sul “Nuovo Giornale” del 1907 Maffio Maffi celebrava i martiri di Curtatone e Montanara ricordando come la loro gloria, al pari di quella degli Spartani, rimanesse immutata di fronte ai grandi cambiamenti dell’epoca.
Attraverso le generazioni, gli anni, i mutamenti di idee, i grandi fatti eroici della nazione e della stirpe non si dimenticano. Muore la civiltà ellenica, dileguarsi tra le ombre del passato la Gloria dello Spirito Greco, ma vivono di vita eterna, oltre che nel canto di Simonide, anche nell’immaginazione e nel cuore dei popoli, i difensori del passo delle Termopili, dell’invasione della barbarie, della ferocia, della tirannide. Non morrà in Italia il ricordo dei difensori toscani che con animo non impari a quello del leggendario manipolo lacedemone, apposero i loro petti alle orde avanzanti tra Curtatone e montanara sui campi italiani a ripristinare il dominio del giogo feroce e della tirannide austriaca. Oggi, l’Italia, la Toscana e Firenze, in quella regione ideale del tempo, della storia e della gloria che il tempio di Santa Croce, innalzano a quel ricordo i pensieri più puri e dedicano a quella gloria il fiore delle loro speranze. Ma che la speranza non sia vana. E che i cuori, nella speranza, non siano fiacchi, ma vivi. L’Italia deve trovare negli eroismi del passato, non un pretesto soltanto a cerimonie ufficiali, bensì il coraggio, la dignità e la forza di non essere indegna di quelli né per il presente, né per l’avvenire (XXIX Maggio, in “Il Nuovo Giornale”, 29 maggio 1907).
Il riferimento al mito del mondo classico fu riproposto in modo consistente anche nel 1908, anno del sessantesimo anniversario della battaglia. L’assimilazione tra Curtatone e le Termopili apparve in molti giornali e nei numeri unici editi per l’occasione, il che porterebbe a pensare ad un mito largamente condiviso e senza una particolare connotazione politica. Se “La Nazione” (Dopo sessant’anni, 29 maggio 1908), ricordando i morti in battaglia parlava di “spartano eroismo”, era ancora “Il Nuovo Giornale” a fare un largo uso della comparazione ideale. Il quotidiano, in un lungo editoriale, poneva le “Termopili toscane” come l’apice di un percorso storico in cui la saggezza, il coraggio e l’anelito alla libertà delle generazioni fiorentine precedenti trovavano finalmente piena attuazione.
Popol nostro che trai origine e rechi conforme geniale sottigliezza di spiriti della prima saggezza etrusca, feconda, durevole forza dalla solenne austera imperiosità romana, agil cortesia e santo ardore di libertà, dalla sonora, operosa primavera dell’Italico comune, della ricca e bellissima opulenza delle Repubbliche superbe – popol nostro, in alto le anime e i cuori, dalla votiva odierna cerimonia. […] Nella gioia selvaggia e deserta delle Termopili, là dove la schiera immortale condotta da Leonida si fece intera trucidare, prima di lasciar passo alle soverchianti forze straniere, alle ognor rinnovate falangi Persiane, sorse una stella effigiata da una rude figura di guerriero. E nella sua base, iscrizione degna delle gesta di chi l’aveva compiuta si leggevano sol queste poche, ma sublimi parole: O passeggero, tu di a Sparta, che noi qui siamo tutti morti per obbedire alle sue leggi”. Se una simile sorgesse sui campi di Curtatone e Montanara essa potrebbe con egual gloria, con più alto valore spirituale ammonire: “Noi qui morimmo non per altrui, e fosse pur cittadina legge; ma per adempiere il nostro proprio destino; perché più nobile e puro battesimo di sangue non potesse avere la sorte nuova della patria – la fortuna d’Italia!” (29 maggio 1948, in “Il Nuovo Giornale”, 29 maggio 1908).
Sempre nel 1908 un gruppo di studenti fiorentini pubblicò un numero unico sulla battaglia di Curtatone e Montanara che vide la collaborazione di alcuni tra i più importanti intellettuali della città, come Pietro Barbéra, Vamba, Renato Fucini, Antonio Fogazzaro, Luigi Capuana e Domenico Zanichelli7. Nell’introduzione di Giuseppe Rondoni i riferimenti all’eroismo classico erano molteplici e non si fermavano solo all’accostamento con le Termopili. Nella prefazione al volume egli recuperava un altro esempio – quello della battaglia di Maratona – che pareva testimoniare quanto il mito del piccolo esercito di cittadini liberi, che combatte contro un esercito più numeroso, al soldo di un tiranno, per difendere la libertà, fosse stato largamente utilizzato. Nello spiegare le motivazioni della pubblicazione egli scriveva che
Quest’anno una schiera di giovani, che negli studi cercano non solo la cultura della mente, ma ispirazioni ed argomento ad ogni nobile intrapresa, vollero con questo libretto alla commemorazione augurare dare più valido impulso e significato, sia come pegno di gratitudine e di conforto alla schiera superstite, ahimè sempre più scarsa, dei nostri, emuli di Maratona, sia per eccitare e far palesi ad un tempo gli ideali donde traggono gli auspici per le battaglie ella vita, dell’avvenire e del progresso (Rondoni 1908, 5).
Poche pagine oltre, Rondoni utilizzava anche il solito accostamento con il mito delle Termopili; tuttavia, nel farlo, apriva un interrogativo di fondo sulle differenze motivazionali tra i due eserciti:
La epica pugna di Curtatone e Montanara viene definita le toscane Termopili; ma il paragone solo in parte è giusto, dacché se gli Spartani caddero devoti alle patrie leggi, è pur vero che queste nel ferreo rigore dello antico stato riserbavano ai superstiti della sconfitta la schiavitù e la vergogna; una vita peggiore di mille morti. Onde il patriottismo, l’eroismo, era per quei guerrieri un dovere. Invece chi obbligava i nostri volontari ignari di milizia? […] Il desiderio della patria, che tendeva loro le braccia, l’invase coll’impeto del primo amore, e, senza calcoli di gretto utilitarismo si immolarono a lei, esultanti pel dovere compiuto fino al martirio, e perciò grandi e meritevoli quanto gli antichi eroi, che li avranno accolti riverenti ed ammirati nel fulgido coro8.
Gli eroi di cui si parla nel testo sono giovani che accanto alle virtù classiche e alle passioni romantiche hanno già delle caratteristiche moderne, come il volontarismo e l’impegno civico. Questo passaggio, oltre a mostrare un parziale cambiamento nella percezione del personaggio eroico, pare anche testimoniare il suo carattere polisemantico e sincretico (Mascilli Migliorini 1984) che lo rende “una figura eclettica e malleabile che, come un racconto, può essere sottoposto a numerosi aggiornamenti e adattamenti” (Riall 2008, 43).
Nello specifico, i patrioti che si ricordavano a Firenze nel 1908 avevano ancora alcune caratteristiche degli eroi omerici, ma erano già proiettati “nel quadro di una dimensione borghese, nella quale l’impostazione eroica si democratizza e slarga i suoi confini” (Tobia 2008, 47). Sebbene si celebrasse una battaglia corale, questa appariva composta da un coro di singole voci; non si commemorava più un generico battaglione, ma un insieme di giovani che volontariamente avevano deciso di combattere per la patria.
La libera decisione di partire per la guerra appariva quindi come una delle basi del secondo aggregato tematico collegato alla memoria storica di Curtatone e Montanara: l’esemplarità dei giovani combattenti. Il volontarismo, inteso come “una delle più significative esperienze del processo di unificazione nazionale italiano e una delle componenti del mito dell’esperienza di guerra”9, offriva un nuovo modello di impegno civico ad un’ampia parte della borghesia italiana e contribuiva a formare un nuovo modello maschile per il popolo italiano che fu poi ampiamente diffuso tramite libri, memorie e commemorazioni.
Nel caso specifico delle onoranze ai caduti del 29 maggio, il volontarismo era assunto come un valore, come un “insegnamento di idealità interessata, di moralità portata all’estremo, di un impegno vocato al disinteresse per sé” (Cipolla 2004b, 12).
La partecipazione spontanea al conflitto, tuttavia, era solo uno dei motivi dell’esemplarità dei combattenti. Un’altra caratteristica che fu spesso enfatizzata nel ricordo dei caduti era l’ambito di provenienza di parte dei volontari. Tra le formazioni impegnate nella battaglia del 29 maggio, un ruolo simbolico molto importante fu assunto da quella “élite politico-socio-culturale costituita da alcuni grandi scienziati (Mossotti, Corticelli, Pilla ecc…) e da molti dei loro ‘scolari’” (Calzolari 2004, 9). Il battaglione universitario toscano acquisì nel tempo una grande fama in ambienti politici e militari al punto di ricevere, nel 1910, la medaglia d’argento al valor militare. Gli studenti e i professori delle università di Pisa e Siena che morirono a Curtatone e Montanara acquisirono un posto privilegiato nel ricordo dei fiorentini e dei toscani e il loro sacrificio assunse un significato del tutto speciale: la loro formazione militare, raccogliendo i più influenti docenti e la più colta, erudita ed influente gioventù toscana, divenne da subito il simbolo dell’alto tributo che la Regione aveva pagato per il compimento della rinascita nazionale. A Curtatone e Montanara, infatti, come hanno scritto Mirtide Gavelli e Otello Sangiorgi, “le virtù civili si erano finalmente ricongiunte con le tradizionali virtù poetico-letterarie, e questo era così significativo dato che gli eroi di Curtatone provenivano dalla Regione che da sempre è stata considerata la culla della civiltà italiana; anzi, si trattava di professori universitari, deputati, anche da un punto di vista professionale, a custodire la cultura patria” (Gavelli, Sangiorgi 2004, 132).
La Toscana, inoltre, sentiva di aver perso in quell’occasione un’intera futura classe dirigente, formata da quei giovani che per lungo tempo avrebbe elevato a simbolo di esemplarità; essi con il loro sacrificio rimasero a lungo una presenza forte del Risorgimento, poiché con la loro morte “incarnavano il mito del giovane colto che sacrifica il suo brillante avvenire e la sua stessa vita per il bene della patria” (Gavelli, Sangiorgi 2004, 132). Il connubio tra cultura e patriottismo, rappresentato dai caduti del 29 maggio, superò agevolmente il passare del tempo e fu riproposto più volte negli articoli, nelle poesie e nelle commemorazioni. Un esempio è offerto dal discorso che Eugenio Coselschi tenne alla Pro Cultura in occasione dell’anniversario del 191110. Egli, parlando agli operai intervenuti, ricorda come
In quel giorno di maggio nei piani di Lombardia tutti rigogliosi di messi, una più ricca messe di vita si disperdeva, se voi pensate che tra i caduti in quel giorno erano le più belle speranze della scienza e della patria, che tra i volontari pugnanti in quel memorabile sforzo, erano medici, avvocati, studenti, la più eletta parte, la più nobile figliolanza della Toscana, se nobiltà non può essere che altezza di ingegno, volontà di studio, potenza di sentimento; se voi pensate che nelle schiere che il brutale imperio soffocò erano le vivente espressioni delle scolari grandezze delle città nostre, della civiltà nostra, della nostra libertà popolana, muore sul labbro la parola del perdono, e rossa infrenabile, istintiva e possente dovrebbe sorgere invece la parola della maledizione11.
Accanto al tema della cultura, l’estrema giovinezza dei patrioti, riportata anche a distanza di decenni da giornali e oratori, era un’ulteriore caratteristica che concorreva a incrementare il mito della straordinarietà dei combattenti. Con un età media inferiore ai vent’anni, gli studenti del battaglione universitario toscano erano elevati alla gloria come agnelli sacrificali (Banti 2011, 73). L’immagine più usata per ricordare i giovani patrioti toscani stroncati nel pieno della vita fu quella dei fiori, come a voler riallacciare simbolicamente la battaglia di Curtatone e Montanara alla metafora del movimento della “primavera dei popoli” del 1848. Così, nel 1908, “Il Nuovo Giornale” ricordando la “gloriosa sconfitta”, scriveva:
Che importa se fortuna di vittoria non arrise alle schiere di Curtatone e di Montanara? Ci sono sconfitte nelle quali assai più degno e memore e glorioso è il soccombere che il rimaner superiori. Le due campagne, i due fatti d’arme che la terra nostra celebra oggi di ricordevole e pietosa onoranza sono di tal numero. Ricordiamo pertanto il dilagar di alfieri entusiasmi, il lirico fiorir dei bellissimi eroismi il Maggio eterno e simbolico – il tuo Maggio, o sacra Primavera del ’48! (29 maggio 1948, in “Il Nuovo Giornale”, 29 maggio 1908).
Sembra inoltre che l’immagine della primavera fosse utilizzata per instaurare un parallelismo tra la giovane età dei caduti – i morti in battaglia erano nel fiore degli anni – e il movimento di rinascita che stava attraversando la patria. L’affinità appariva anche grazie all’utilizzo di termini come “risorgimento” e “resurrezione”. Nella poesia pubblicata dagli studenti fiorentini nel loro numero unico appariva appieno questo voluto gioco di parole:
Quando toscana bella a primavera/ La sua ghirlanda nuzial prepara,/voi risorgete al sole in balda schiera,/Morti di Curtatone e Montanara./Ma riguardando della patria cara/ogni vetta, ogni piaggia, ogni riviera,/ Di lei che a voi parea così preclara/ Ritrovate l’imagine primiera?/ Morti, non so: ben vi ricorda ancora/ Italia madre, e prega in Santa Croce/Pace e l’anime vostre e a le vostre ossa./ E come a maggio il vento dell’aurora/ Reca mesta e augural la vostra voce,/Par ch’ogni rosa sia di sangue rossa (Rossi 1908, 5).
Assunta in questo contesto, anche la simbologia floreale assumeva una doppia valenza: da un lato, essa rappresentava la vita stroncata dal fuoco nemico, dall’altro sembrava essere usata come simbolo di rinascita della nazione e delle nuove generazioni.
Nel primo caso, i combattenti del battaglione universitario toscano erano raffigurati come germogli primaverili falcidiati dal fuoco nemico, oppure come fiori dai petali rossi. L’utilizzo della simbologia delle “rose purpuree” rimanda chiaramente al colore del sangue che era più volte menzionato negli articoli celebrativi e nelle poesie12. Nel secondo caso, la metafora appariva più articolata. I fiori non erano più rappresentati come stroncati, ma nel pieno del vigore primaverile; e anche il sangue versato non raffigurava più la morte, ma il sacrificio necessario affinché su quella stessa terra potessero “germogliare” le nuove generazioni. Il messaggio affidato alle immagini floreali pareva quindi portare un messaggio di speranza associando il cordoglio alla lezione patriottica. Lungo questa direttrice, si collocava il messaggio che Aurelio Favara, Console Generale della Corda Fratres13, inviava agli studenti fiorentini. Egli, nell’evocare la “memoria dei compagni caduti per il santo ideale” scriveva che:
Aderendo alla glorificazione di cui coi siete promotori, i Corda Fratres nel 29 maggio colgono dalle zolle di Curtatone e Montanara i fiori vividi e belli, germogliati dalla terra che il sangue dei fratelli fecondava, e con l’argenteo ulivo nel intessono serti di gloria per tutti i martiri, per tutti gli eroi, nella fede che quelle vite, trasformatesi come tutte le cose e rinnovantisi nei secoli saranno bastevoli a compiere il più altro degli antichi prodigi (Favara 1908, 40).
Un simile sentimento si ritrova anche nell’articolo di Gian Battista Prunaj, intitolato Primavera Purpurea (29 maggio 1848). Ancora una volta, nel ricordare il sacrificio degli studenti toscani, si ricorreva alla metafora della primavera all’uso del colore rosso, il quale acquistava il duplice significato della morte e della rinascita:
Che importa se i 35.000 austriaci, bene armati e bene equipaggiati, sotto il comando del generale Benedek, respinsero, distrussero, sgominarono la piccola falange dei nostri, la piccola falange dei toscani e di napoletani, per la più parte volontari, che un toscano, il Generale De Laugier guidò nella resistenza dagli stessi nemici, ammirata, nel fervido gesto, degno d’epopea, e significante l’augural bellezza della nuova Primavera Italica, soffusa di, di porpora – che è il color del sangue – ma che è insieme il colore del trionfo? (Prunaj 1909).
L’esemplarità dei giovani caduti a Curtatone e Montanara, oltre ad essere motivata dalla loro giovinezza, cultura e dall’alto senso della patria, era collegata dai fiorentini anche ad un’altra caratteristica: la toscanità. Il 29 maggio, infatti, era visto come una data profondamente legata alla storia regionale. Il Prunaj, ad esempio, nell’articolo citato sopra, continuava la sua commemorazione ricordando proprio il carattere toscano della battaglia:
Non v’è nella serie delle battaglie combattute per l’indipendenza della cara patria nostra niuno scontro, niuna campagna niuna giornata, che sia così intimamente e profondamente toscana, come la giornata di Curtatone e Montanara, come quell’estroso ed eroico 29 maggio 1848, inghirlandato dalle rose vermiglie di tanto e si gentil sangue speso, con lieto animo, per il fascino di un idea. Alle quali vermiglie rose, sacre ai non manchevoli auspici dei destini ben deve rispondere nel rito odierno della riconoscenza e della celebrazione il Rosso Giglio, onde Firenze nostra fiorisce (Prunaj 1909).
Il tema della toscanità fu espresso in vari modi nel corso degli anni. Se “Il Fieramosca” nel 1908 si limitava a evidenziare come “la Toscana nostra rispose all’appello con uno slancio che ha pochi riscontri nella storia”14, Eugenio Coselschi, in un discorso pronunciato alla Pro-Cultura, dopo aver ricordato come “nella stagione dell’amore e dei fiori, in questo Maggio sereno e giocondo è opera di poesia e di giustizia celebrare la resurrezione della patria, la primavera della patria” sottolineava che “è altrettanto giusto ricordare la nostra Firenze”. La città, infatti, per Coselschi meritava la gloria eterna da parte dei cittadini, una “gloria eterna e indistruttibile, poiché quale capitale di questa nostra Toscana essa dette vita e ardimento ai guerrieri di Curtatone e Montanara, a quei giovani generosi, a quei fanciulli indomabili, agli eroi immortali che al termine di questo mese in cui sembra più bella e più serena la vita, caddero sacrificando il bene più desiato e il più caro e offrirono il petto gagliardo al piombo degli oppressori”15.
L’importanza del carattere toscano della giornata del 29 maggio trovò probabilmente la sua massima espressione nelle celebrazioni ad essa dedicate. Nonostante si trattasse di una giornata commemorativa legata ad ricordo dell’anno rivoluzionario per eccellenza – il 1848 – e quindi potenzialmente sovversiva, la classe dirigente fiorentina capì fin da subito che “rinunciare alla memoria di Curtatone e Montanara era assolutamente impossibile, visto che quella journée costituiva il simbolo vivente del ‘tributo di sangue’ pagato dai toscani all’indipendenza nazionale, e si presentava quindi come la carta da visita più convincente per quel ruolo di primo piano nella definizione e nella guida del [futuro] Stato nazionale che si pretendeva fosse loro riconosciuto”. Il 29 maggio divenne immediatamente un simbolo dell’orgoglio toscano, tanto da venire commemorato anche negli anni dell’occupazione austriaca. Già nel dicembre 1848 il gonfaloniere di Firenze Ubaldino Peruzzi deliberava di far istallare, a spese del Municipio, due tavole di bronzo con i nomi dei fiorentini caduti a Curtatone e Montanara nella chiesa di Santa Croce, inserendo così simbolicamente i giovani eroi toscani nel pantheon delle glorie della nazione. Le tavole di bronzo assunsero da subito un significato più ampio di quello commemorativo, divenendo un luogo di devozione e, contemporaneamente, un simbolo di resistenza politica per la città. Il ricordo dei caduti divenne una pietra fondante dell’identità cittadina non solo per la classe dirigente, ma per tutta la popolazione che, pur di omaggiare gli eroi di Curtatone e Montanara, sfidò in quegli anni la repressione della gendarmeria austriaca che, nel 1851, giunse a sparare sui fedeli che la mattina del 29 maggio, con il pretesto della messa per l’Ascensione, si era recata in Santa Croce a rendere un omaggio clandestino ai caduti. Proprio in seguito ai tafferugli di quella mattina, le tavole di bronzo, che prima erano state coperte, furono rimosse dalla chiesa e rinchiuse nella Fortezza da basso “per evitare che anno dopo anno esse diventassero un catalizzatore di memorie sgradite al potere” (Burzagli 2005, 283). Non stupisce quindi che nel 1859, come abbiamo ricordato, uno dei primi atti del governo provvisorio fu quello di ricollocare le tavole di bronzo in Santa Croce e di sancire ufficialmente la festa del 29 maggio. Il ricordo di Curtatone e Montanara cessava di essere un momento di resistenza e diventava il naturale trait d’union del 27 aprile nel processo risorgimentale.
Con il passare degli anni, la commemorazione dei morti di Curtatone e Montanara restò sempre un momento importante per l’orgoglio della Regione. In particolare, dopo l’unificazione del Regno e con la perdita dello status di capitale, il ricordo della giornata patriottica assunse anche una funzione anti piemontese. Con il 1861, infatti, la festa dello Statuto era divenuta ufficialmente la giornata commemorativa dell’Unità d’Italia, schiacciando di fatto le varie commemorazioni locali, tra cui quella fiorentina. La vicinanza tra le due date, infine, alimentava ulteriormente lo scontro tra la visione nazionale e quella locale sulla gestione della memoria risorgimentale.
Come ha scritto Claudia Burzagli, infatti:
in una Toscana che non amò mai molto la festa dello Statuto, mantenere viva l’attenzione su Curtatone e Montanara rifletteva, ancora una volta, la volontà della classe dirigente nobiliare toscana di intervenire sulla mitopoietica della nazione veicolando un’immagine di essa non totalmente “schiacciata” sull’egemonia piemontese, e rivendicando quindi una posizione di primo grado, se non addirittura paritaria, per la toscana e per quanti, rompendo gli induci, avevano saputo farne il perno della formazione del nuovo Stato nazionale (Burzagli 2005, 288).
Quanto evidenziato dalla Burzagli appare confermato anche per l’età giolittiana; se infatti si guardano le delibere della giunta comunale, è evidenziato il maggior peso dato dall’amministrazione di Palazzo Vecchio alla commemorazione del 29 maggio rispetto alla celebrazione della festa dello Statuto. Ad esempio, nel 1906, il Comune stanziava solo 500 lire per lo Statuto a fronte delle 1000 investite per la messa in Santa Croce e i sussidi ai reduci16. Se la commemorazione acquisì questo carattere conflittuale tra locale e nazionale, essa, soprattutto in età giolittiana, dette luogo a numerose contrapposizioni tra la stessa classe dirigente fiorentina.
Le celebrazioni in età giolittiana
Con l’avvento del nuovo secolo e l’emergere di nuovi soggetti nella scena politica e sociale, le celebrazioni del 29 maggio furono al centro di un forte scontro di gestione della memoria. La giornata, infatti, già nel periodo austriaco, e poi formalmente dal 1859, si svolgeva secondo in rituale prefissato. Nel corso degli anni, la classe dirigente toscana, e in particolare il suo nucleo fiorentino, aveva cercato di istituzionalizzare il più possibile la cerimonia e, lentamente, ne aveva epurato le parti più spontanee, come l’omaggio del corteo alle abitazioni dei sopravvissuti e dei caduti. Ad inizio secolo, dopo un percorso volto ad evitare che il 29 maggio divenisse un’occasione per evidenziare letture del processo di unificazione nazionale diverse da quelle volute dalla classe dirigente, la cerimonia ruotava quasi esclusivamente attorno alla funzione religiosa in Santa Croce. Essa era stata costretta in un rigido cerimoniale che prevedeva una netta separazione e gerarchizzazione dei posti all’interno del tempio, e che vietava l’ingresso delle bandiere dei reggimenti nella chiesa17. In età giolittiana, pur restando fissi i grandi aggregati tematici ricordati in precedenza, la commemorazione dei caduti di Curatone e Montanara fu al centro di un notevole dibattito, specchio delle polemiche e dei contrasti presenti in città. Gli scontri più aspri si ebbero nel triennio dell’amministrazione popolare.
Dal giugno 1907, infatti, Firenze era governata da una coalizione tra socialisti, demosociali e repubblicani che, in soli tre anni, dette un netto colpo all’impianto della tradizionale città conservatrice. Uno dei punti su cui l’amministrazione popolare insisté di più fu, insieme alla lotta per le “case popolari”, quello per la completa laicizzazione di Firenze. Le giunte Sangiorgi e Chiarugi operarono in più direzioni per portare a compimento tale proposito: tra l’estate e l’autunno 1907 dettero l’avvio ad un programma amministrativo che avrebbe portato all’abolizione dell’insegnamento religioso nelle scuole18; e alla laicizzazione degli ospedali. Soprattutto negli anni centrali del blocco, il 1908 e il 1909, la tensione tra l’amministrazione di sinistra e gli esponenti dell’opposizione conservatrice e liberale salì nettamente, coinvolgendo anche l’ambito della gestione della memoria. Se il 1908 fu il primo anno in cui le bandiere rosse entravano in Palazzo Vecchio, fu anche l’anno in cui per la prima volta venne cambiato il programma della commemorazione di Curtatone e Montanara.
Proprio per il 60° anniversario della battaglia, lo scontro si giocò tutto sulla contrapposizione tra laicità e religiosità della commemorazione.
Il primo passo in questo senso fu compiuto dall’amministrazione comunale che, per rispetto all’impronta laica che aveva dato al governo della città, trovò un escamotage per evitare di finanziare con i soldi del Comune una manifestazione di ordine prettamente religioso. Così, la giunta Sangiorgi, il 18 maggio, emetteva la seguente delibera:
La giunta, visto come nel bilancio preventivo sia inserita, all’art. 101, la somma di Lire Mille per la commemorazione dei morti in battaglia per l’indipendenza italiana. Vista la lettera in data 8 maggio corr. del presidente del Comitato Regionale Toscano dei Veterano 1849-1870. Ritenuto come sia alto dovere civile tenere sempre alto e vivo il ricordo dei morti per la patria e per la Libertà e venire in aiuto dei superstiti bisognosi. Su protesta dell’On. Sindaco delibera:
Che il 29 maggio corr. sia effettuata nel Salone dei Cinquecento una solenne commemorazione dei caduti per l’indipendenza nazionale.
Che siano deposte corone di fiori sulle lapidi che nel Tempio di Santa Croce ricordano i morti gloriosi per la libertà della patria.
Che la somma di lire mille inscritta in bilancio comunale all’articolo 101 sia rimessa al Benemerito Comitato Regionale Toscano dei Veterani del 1849-1870 lasciando ad esso la piena facoltà di erogazione si in onoranze ai defunti, sia in sussidi ai superstiti bisognosi19.
La giunta, in questo modo, evitava di apparire tra gli organizzatori della funzione commemorativa religiosa, ma, al contempo, non impediva che la tradizionale messa di suffragio per i caduti in Santa Croce avesse luogo. Le polemiche sui giornali, soprattutto su quelli moderati e cattolici, divamparono già all’indomani della delibera.
La prima, ad indignarsi fu “La Nazione”. La testata moderata, già all’indomani del comunicato stampa con cui Palazzo Vecchio comunicava la decisione presa dalla giunta, pubblicava un articolo di fondo dove, con ovvio riferimento alla dominazione austriaca, appellava i consiglieri popolari con il nome di “Croati d’Italia”, ed esprimeva tutta la riprovazione per la decisione presa. Nel testo si legge:
La cerimonia religiosa del XXIX maggio deve aver lungamente turbato l’antica dell’attuale Amministrazione popolare e socialista, sulla quale la Messa in Santa Croce pesava come in grave incubo: e questo turbamento lo si desume dal contesto del comunicato del sindaco, il quale sapendo di non aver dalla sua la cittadinanza fiorentina nella redazione del bilancio di una somma destinata a commemorare i prodi di Montanara e Curtatone, nonostante gli incoraggiamenti del neofita assessore e professore Giulio Banti, ha preso un provvedimento alla Ponzio Pilato e ha mandato le 1000 lire – parte delle quali sono state fino ad ora spese in Santa Croce – al comitato regionale toscano dei Veterani 1848-1870. Se la cerimonia religiosa deve essere fatta, l’iniziativa – ha detto l’on. Sindaco di Firenze – la prendano i veterani, noi popolari, noi rappresentanti l’anima del popolo, noi che, come griderebbe l’on. Pescetti in un momento di entusiasmo retorico, di questa anima grande siamo, il profumo, non vogliamo piegarci alla tradizione mai interrotta e questa tradizione che nessuno, dal 1849 ad oggi, può mai toccare, noi la spezziamo. […]La deliberazione della giunta riguardante la commemorazione del XXIX maggio è uno piccato esempio d’opportunismo che, a nostro modi di vedere, rasenta il gesuitismo20.
La polemica continuò anche nei giorni seguenti e lo stesso 29 maggio, nella prima pagina del giornale, insieme agli articoli commemorativi del giorno della battaglia, appariva, come spalla, un pezzo dal titolo Carducci e il XXIX maggio, dove si ricordava come anche Carducci fosse stato uno dei maggiori sostenitori della celebrazione per i caduti, e, grazie al suo intervento, la festa poteva essere celebrata anche nel 1867, anno in cui la giunta comunale aveva ventilato di sospendere la messa in suffragio dei caduti. Il giornalista chiudeva il pezzo scrivendo che, mentre nel 1867 la giunta tornò sui suoi passi
Oggi non sarà cosi. Quelli stessi che, pettoruti d’orgoglio e d’ignoranza gonfiavano pur ieri le vesciche del loro vero retorico. Dividendosi di onorare in tal modo la memoria del poeta nelle loro file. Oggi si fanno un piedistallo nella loro ignoranza medesima per salutare, come l’alba di una più felice età. L’abolizione della cerimonia due volte sacra e doppiamente italiana. È vero che l’ignoranza fa perdonare molte cose; ma non a coloro i quali parlano in nome della verità positiva, della santità della scienza e del libero pensiero. A meno che la prerogativa predominante del libero pensiero non sia quella di far pensare liberamente soprattutto le sciocchezze. Quanto all’ostracismo che il consiglio comunale fiorentino a dato al tempio clericale di Santa Croce è forse opportuno osservare che di fronte al cumulo enorme di storia, di gloria, di grandezza, d’eternità, di eroismo e di genio che stanno là dentro idealmente racchiusi, sessanta consiglieri non deliberano per giudicare, ma per essere giudicati21.
Aspre critiche arrivarono anche dai giornali cattolici nei quali l’indignazione per la decisione di non organizzare direttamente la cerimonia si legava alla condanna della politica laica dei nuovi “padroni” di Palazzo Vecchio.
Nella prima edizione del settimanale cattolico “Stella Cattolica” successiva alla delibera del 18 maggio, si trova un articolo di fondo scritto dal direttore dove è ricordato l’importanza della cerimonia e il suo “santo” significato. Egli prendendo come spunto i suoi ricordi di bambino ricorda “l’impressione infantile rimasta ancora nel cuore del cielo sereno, delle campane a festa, delle musiche militari, della folla multicolore invadente il tempio severo, […] dei bei soldati schierati davanti al tempo, delle campane allietanti ai martiri della patria, delle dolci fanfare che rallegravano lo spirito dei bambini vestiti a festa a Santa Croce e ricordavano come la chiesa prega e onora i morti della patria”. In contrapposizione con questi ricordi felici il direttore prosegue descrivendo il prossimo scenario “privo di senso” voluto dall’amministrazione comunale che, in offesa alla tradizione, ha optato per una funzione civile, dove, secondo l’autore, il patriottismo sarà solo un bieco pretesto per ribadire la linea anticlericale di Palazzo Vecchio. Egli infatti scrive:
Addio virtù della patria, addio!Addio bella funzione n Santa Croce! Ci voleva tutta la prosa atea e miscredente di un consiglio comunale popolare per stappare bruscamente dal mio cuore e da quello di ogni buon fiorentino la catena che ci legava ai nostri padri morti per la patria e ricordati dalla fede!ci volva tutta l’esosa d antipatica intolleranza di anticlericalismo da strapazzo per farci svegliare da un sogno tanto bello e tanto santo di ricordi giovanili, di amor patrio e di religione mirabilmente fusi in un unico ideale. […] Oggi i padroni di Firenze, i padroni di quel Palazzo che sul frontone porta la sigla di Cristo Re non ànno più lacrime né preghiere per i morti della patria. O meglio ànno le lacrime ufficiale di una commemorazione civile, priva di senso e di patriottismo. Anche Curtatone e Montanara sarà sfruttato a beneficio del sole dell’avvenire! Avremo quindi l’immancabile corteo di bandiere rosse e nere, avremo i circoli anticlericali che vi insulteranno, voi morti per la patria, con il lume della fede nel cuore! Avremo un oratore da strapazzo che vi commemorerà, un tribuno della plebe che vi insulterà, voi, povere anime dei nostri morti ribelli ad ogni tirannia anche scamiciata e popolare! E ne volete di più? Mentre gli altri anni le lacrime pie e le preci dei sacerdoti invocavano pace alle aride vostre ossa, quest’anno solo una commemorazione laica ricorderà la vostra memoria, o morti per la patria!22.
Come si legge nell’articolo di “Stella Cattolica”, l’altro motivo per cui la giunta fu molto criticata fu quello di affiancare alla cerimonia religiosa quella civile. La doppia celebrazione comportò anche un problema di rappresentanza per il Comune. Credendo di trovare un correttivo nella commemorazione civile nel Salone dei Cinquecento e nell’invio di corone di fiori in Santa Croce, il sindaco non aveva preso in considerazione quanto questa scelta potesse rivelarsi “arma a doppio taglio”, perché, come sottolineava “La Nazione”:
i veterani avendo stabilito di continuare nella tradizione municipale e far celebrare la Messa in Santa Croce, diramando gli stessi inviti che diramava il Gabinetto del Sindaco e invitando conseguentemente il Sindaco e la giunta, metteranno l’on.avv. Sangiorgi nella condizione di declinare l’invito alla cerimonia religiosa in Santa Croce dove saranno già state deposte le corone di fiori del Municipio. Un circolo vizioso: e tanto più vizioso in quanto ché i Veterani saranno invitati a loro volta dal Sindaco per la commemorazione civile del XXIX maggio nel salone dei Cinquecento e i Veterani occupati nella tradizionale cerimonia religiosa in santa Croce dovranno a loro volta, declinare l’invito del sindaco che ha girato al Comitato il buono di 1000 lire23.
L’atteggiamento del Comune fu ambiguo, perché proprio la persistenza della messa in suffragio dei caduti mise in seria difficoltà l’amministrazione Sangiorgi che si trovava così stretta tra il rispetto delle tradizioni e la coerenza con l’indirizzo laicista impresso al Comune. La situazione di impasse in cui erano caduta la giunta pare attestare proprio il complesso rapporto tra religiosità e laicità in materia di gestione delle politiche della memoria. Nelle carte conservate nell’archivio comunale, in particolare dai verbali delle sedute della giunta, si può leggere che, alla fine, il sindaco lasciò liberi i consiglieri di maggioranza e gli assessori di recarsi in forma privata alle celebrazioni, e stabilì che una rappresentanza della giunta, composta dagli assessori Lustig e Masini, dagli assessori supplenti Pieraccini, Banchi e Trinci, e dai segretari Paci, Lenzi e Romagnoli, avrebbe lasciato agli uscieri due corone di fiori da far appendere sulle targhe di bronzo all’interno del tempo. Il sindaco, inviando un telegramma ai veterani, si dichiarò indisposto e non presenziò né alla deposizione delle corone di fiori24.
I giornali moderati e cattolici sottolinearono l’accaduto e “La Nazione” scrisse apertamente che la soluzione trovata dal sindaco rivelava quanto la maggioranza fosse spaccata proprio sul tema della laicità che aveva agitato tanto in campagna elettorale. Il giornale moderato, infatti, parlò di un “gesuitismo alla Ponzio Pilato”, di una soluzione che “salvava capra e cavoli” e che permetteva a Sangiorgi “di salvare la sua popolarità e di dare una soddisfazione all’amico anticlericale e massonico prof. Banti”25. “L’Unità cattolica”, ma anche “La Nazione”, tornarono spesso sul tema, e, soprattutto negli articoli successivi alla giornata del 29 maggio, sottolinearono più volte l’imponenza della cerimonia religiosa che, “nonostante il poco tempo di preavviso alla società dei reduci e l’ostruzionismo delle autorità municipali, era riuscita migliore degli anni passati”, testimoniando come “la cittadinanza ha dimostrato di non esser del parere del Sindaco, Avv. Sangiorgi e della giunta demo-sociale e socialista e ha riempito la navata di Santa Croce, dove, in incognito, tappati in carrozza, chiusi da non essere scorti dai compagni, gli onorevoli assessori avevano, nelle prime ore dell’alba, deposto corone di fiori sulle lapidi ricordanti i caduti di Curtatone e Montanara”26.
Sull’ambiguità della giunta intervenne anche il settimanale cattolico “Il Popolo”, che era nato a Firenze solo pochi mesi prima e che faceva della sua appartenenza religiosa il proprio punto di riferimento. Il giornale, a differenza della “elitaria” “Civiltà Cattolica”, nasceva come un settimanale rivolto alle classi popolari, al fine di “di dimostrare con i fatti alla mano la speciosità apparente di certe teorie lusingatrici che con l’orpello esterno cercano di nascondere il marcio interiore; di toccar con mano la mendacità di certe promesse fatte da uomini ambiziose che della schiena dell’operaio si servono di sgabello per salire in alto; di mettere a nudo l’ipocrisia di certe dottrine e di certi programmi che la buona fede proletaria sfruttano e a individuale vantaggio”. Proprio per rispettare questo suo proposito di parlare al popolo, il settimanale fiorentino utilizzava un linguaggio semplice, ricorrendo spesso a scenette divertenti e alla trascrizione di improbabili conversazioni sentite per la strada che, il più delle volte, avevano come protagonista un socialista e un cattolico. Anche nel caso delle celebrazioni del 29 maggio, “Il Popolo” fece largo ricorso alla pungente ironia fiorentina per denunciare l’atteggiamento ambiguo. Già dall’inizio, la polemica politica era affidata a lettere immaginarie che la statua del Nettuno, posta di fronte a Palazzo Vecchio, inviava al sindaco per denunciare i comportamenti che vedeva dall’alto del suo piedistallo e che non condivideva. Il Biancone – nomignolo che i fiorentini avevano dato alla statua a causa della sua imponente mole di marmo bianco – anche per le celebrazioni di Curtatone e Montanara scrisse a Sangiorgi, questa volta per riportargli una lettera scritta da un altro guardiano di una piazza fiorentina: la statua di Dante in Santa Maria Novella. Il giornalista de “Il Popolo”, fingendo di parlare a nome della statua annotava cosa aveva visto quella mattina presto:
Eravamo adunque raccolti nella quiete e nella solennità del francescano tempio, io altissimo poeta, vicino a me Michel più che mortale angelo divino, di fronte stavami il gran Galileo e da un altro lato il Machiavelli, l’Alfieri, il Rossini e Gino Capponi ed altri, senza contare i cavalieri antichi e i cittadini che illustrarono e fecero grande la bella Fiorenza. Quand’ecco quasi usciti dal regno delle tenebre, penetrare nel tempio e passarci avanti alcuni uomini, che tali erano per natura, vestiti di nero, coi fiori in mano, e questi frettolosamente depositati, fuggire quasi ombre che si dileguano saettate da’ fulgori del sole. Seppi che erano ed il perché di que’ fiori deposti furtivamente. Seppi il perché parea che loro scottasse quel fuoco il sacro pavimento e non ardirono nel passarci davanti affissare i loro occhi sul nostro sembiante. […]
Mio desiderio sarebbe che nel palazzo degli antichi priori, il quale sulla porta maggiore, ha scolpito il nome di Cristo Dio, proclamato un di da’ miei concittadini re di Fiorenza, fossero quete mia parole di seria meditazione.
Da Santa Croce, il 29 maggio del 1908
Dante Alighieri
Nel congedarsi dal sindaco, anche “il Biancone” commentava così l’accaduto:
IL CORAGGIO DI NON AVERE OPINIONE: quello del Municipio, che presta omaggio in chiesta alle 8, e lo rifiuta alle 10! che manda un Segretario ad aspettare presso l’avello di Machiavelli…con quel che segue: vero che il segretario non si levò l’impermeabile; forse per mancanza di iniezioni. Il giornale Fieramosca, che si scandalizza della bandiera in Chiesa, col sarcasmo che “ le bandiere austriache vi furono accolte”; è vero: gli austriaci tiraron le fucilate a quelli che commemoravano in Santa Croce il 29 maggio: ma lo spregio era da parte di austriaci. E quello da parte del Comune? Come lo spiega il Fieramosca? La nostra opinione: che non bisogni pigliar sul serio tutta questa roba:
MASSONI di coraggio
Hanno alzato la voce
In odio a Santa Croce
Tanto perché era Maggio!
Suo aff.mo Nettuno
detto i’ Biancone27.
Il proposito dei giornali moderati e clericali appariva abbastanza chiaro: comparare le due cerimonie in modo da far risaltare quella “vera”, sentita dal popolo e appartenente alla tradizione, rispetto a quella “inventata” e celebrata non per reale spirito di patriottismo, ma per esigenze di partito. L’insistente ricorso alle descrizioni della piazza gremita di gente, al calore popolare, ai momenti di commozione durante la funzione erano strumenti appositi per mettere in risalto questo contrasto28.
La compresenza della doppia celebrazione, invece, fu ritenuta dai quotidiani vicini a Palazzo Vecchio come un’opportunità per celebrare al meglio i martiri per l’indipendenza, restituendo loro anche quella dimensione di patriottismo civile che era stata limitata dalla commemorazione religiosa. “Il Fieramosca”, ad esempio, all’indomani della celebrazione nel salone dei Cinquecento scriveva:
certe tradizioni fatte di sacrificio per il bene della patria non si estinguono col volgere degli anni, né per mutate condizioni di tempi e di volontà di uomini: ma si fortificano anzi col volgere degli anni ed ingigantiscono se è possibile quanto più gli avvenimenti si allontanano dall’epoca presente. […]e cos’ di anno in anno senza che un anelo della nobile tradizione sia stato infranto, siamo giunti fino al presente, nel quale la solenne funzione verrà celebrata a cura del benemerito Comitato dei Veterani ’48-49, al quale il Comune – come è noto ha inviata la somma di lire mille inscritta in bilancio, perché la eroghi come meglio crederà nella sua saggezza e nel suo patriottismo29.
Il Comune, nei suoi anni di amministrazione popolare, puntò molto sulla valorizzazione della cerimonia civile in Palazzo Vecchio. Essa, nelle intenzioni degli organizzatori, era volta a ricostruire una memoria civile intorno ad una data fondativa della identità nazionale e, soprattutto, toscana. Le manifestazioni organizzate per gli anni 1908, 1909, 1910, furono cerimonie essenziali: il sindaco, con alcuni assessori e consiglieri, si recava a pranzo presso la Pia Casa del Lavoro e, poi, nel primo pomeriggio, officiava la distribuzione dei diplomi di merito alle alunne e agli alunni delle scuole comunali, e ai fiorentini distintisi nel corso dell’anno per atti di valor civile. Seppur apparentemente semplici nel loro svolgimento, le celebrazioni rimandavano ad una serie di significati ben precisi.
Il primo di questi era rappresentato dalla volontà di istituire un legame simbolico tra i giovani allievi delle scuole comunali e i reduci e i mutilati delle guerre patrie. Leggendo le minute dei discorsi conservate nell’archivio comunale e le descrizioni delle manifestazioni nelle cronache dei giornali, si nota come il legame tra le due generazione fosse costantemente rievocato. Così, nel 1908, sappiamo che i bambini delle elementari consegnarono al sindaco e ai veterani intervenuti dei mazzi di garofani rossi, fiore simbolo della nuova amministrazione, e che, l’anno successivo, i bambini allietarono la cerimonia con i cori dell’Inno di Garibaldi e dell’Italia risorta ((Cfr. La cerimonia nel Salone dei Cinquecento, in “La Nazione”, 30 maggio 1908, e La cerimonia d’oggi in Palazzo Vecchio, in “La Nazione”, 30 maggio 1909.)). L’esempio che però meglio illustra questo collegamento tra le due generazioni è dato dal discorso del sindaco Giulio Chiarugi in occasione della cerimonia del 1910. Egli, infatti, di fronte ad un salone dei Cinquecento gremito di bambini e di reduci, ricordava agli allievi delle scuole elementari:
Sia forte in voi il sentimento del dovere, lo spirito di sacrificio, amate il vostro paese e siate pronti fino da ora a difenderlo contro ogni sopraffazione e contro ogni offesa. L’Unità e la libertà della patria vi siano sacre. Quanti dolori, quanti sacrifici costarono ai nostri padri, quante eroiche vite si spensero per darci una patria. Ho voluto oh bambini che la vostra festa avesse luogo in questo giorno che ricorda una data gloriosa nella storia del nostro Risorgimento nazionale, ed io desiderato che in cerimonia fosse resa più solenne dalla presenza dei veterani delle nostre guerre di indipendenza. Essi hanno accolto l’invito e noi dobbiamo insieme ringraziarli. Plaudite a loro o bambini! Essi nel fiore degli anni hanno messo a repentaglio la vita per questa Italia che stava in cima ai loro pensieri: molti di loro subirono persecuzioni, molti tornarono dalla guerra ammalati o feriti, ma in tutti si mantenne viva la fede nei destini della patria. Sia ugualmente salda ed operosa in voi la fede dell’avvento dell’avvenire del nostro paese al cui progresso dedicherete le vostre maggiori attività30.
L’insistenza sul legame tra i vecchi patrioti e i giovani, se da un lato pare strumentale alla funzione di propaganda per l’operato dell’amministrazione popolare in materia di scuole pubbliche31, sembrerebbe anche voler veicolare un altro messaggio: quello dell’importanza del civismo. L’idea del coraggio e dello slancio volontaristico sembra essere accentuata dal nesso che si veniva a creare tra i premiati per il valor civile e i reduci presenti in sala.
Con la creazione della cerimonia civile in Palazzo Vecchio, pare che l’amministrazione popolare tentasse una trasposizione a livello istituzionale di quei valori del Risorgimento democratico che fino ad allora erano stati schiacciati dalla funzione religiosa che aveva come motivo prevalente quello del cordoglio dei caduti. Temi come il civismo, il volontarismo, lo spontaneismo, la libertà di partecipazione, che erano stati limati ed emarginati dalla classe dirigente liberale negli ultimi decenni dell’800, erano ora ripresi e amplificati dalla pubblicistica e dalle scelte dei partiti popolari. La scissione del modello dell’eroe, sottolineata, tra gli altri, da Maurizio Ridolfi e da Lucy Riall, per l’Italia degli anni immediatamente post unitari, parve riproporsi, e riprendere slancio, negli anni dell’età giolittiana. Questa rinegoziazione, compiuta in anni densi di celebrazioni risorgimentali, sembrò essere un indice della complessità e dell’incompletezza del processo di creazione di una memoria pubblica unitaria e condivisa attorno alla mitologia della liberazione della patria. Inoltre, in un periodo in cui i partiti popolari erano al potere in alcune delle città più importanti d’Italia, questo processo di ripensamento e di contrasto attorno alla figura dell’eroe assunse forme insolite e nuovi canali di espressione, portando a nuove declinazioni della frattura tra la visione democratica e quella monarchica-liberale.
Biografia
AnnaRita Gori, dottoressa di ricerca e doctor europeus presso l’Università di Siena con una tesi sull’uso pubblico del Risorgimento a Firenze in età giolittiana. Studia i processi di Nation Building attraverso l’analisi delle feste laiche e delle esposizioni nazionali. Ha tenuto conferenze all’Università di Bratislava, Bielefeld, Aarhus, Istanbul e Lisbona e alla fondazione Lelio e Lisli Basso di Roma. Nel 2009 è stata Marie Curie Fellow presso l’Istituto da Ciencias Sociais dell’Università di Lisbona; dal 2010 è membro della segreteria di redazione di “Memoria e Ricerca”. Il suo ultimo articolo tratta del primo centenario Cavouriano (Cavour. Il rivoluzionario pragmatico, in “Rassegna Storica Toscana”, a. LVII, n. 2, luglio-dicembre 2011 pp. 201-219). Attualmente è in servizio presso l’Istituto Gramsci Toscano.
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Contenuti correlati
- Il termine è mutuato dalla “gloriosa sventura” di Atto Vannucci (1848). Sul tema delle “gloriose disfatte” cfr. Isnenghi 1997. [↩]
- “Una memoria collettiva – sia nazionale che di partito, o di chiesa, comunque di un grande gruppo sociale – nasce da eventi che hanno la forza di coinvolgere e rendersi memorabili; ma poi anche dalla capacità di dare forma organizzata e quindi durata temporale ai contenuti di una memoria che va aureolandosi di mito e intrecciando alla realtà documentabile le libertà della favola” (Isnenghi 2010, 12). [↩]
- Per una trattazione più ampia del concetto di “figura profonda” cfr. Banti 2011, VII.; 2000, 3-56; 2005. [↩]
- Il colonnello Cesare de Laugier, ricordando lo spirito religioso della battaglia, ordinò “ad ogni milite toscano, di qualunque corpo, di apporre dal lato sinistro del petto e segnatamente sul cuore, una croce dei colori nazionali, a distintivo della Santa Crociata, benedetta dal Sommo Pio IX, destinata alla difesa della Patria comune” (Nerucci 47, citato in. Burzagli 2005, 270). [↩]
- Curtatone e Montanara, in “Stella Cattolica”, 23 maggio 1908. [↩]
- A contribuire al successo dell’identificazione tra la battaglia di Curtatone e Montanara e lo scontro del Passo delle Termopili sono stati gli stessi volontari. Nelle memorie del colonnello De Laugier si legge come egli nelle fasi iniziali della battaglia gridi ai soldati “Toscani!Son queste le vostre Termopili: o vincere o morire!” (De Laugier 1854, 28). Una citazione simile la si trova anche altre memorie e articoli di giornale a testimonianza della forza che ebbe il mito classico sulla ricostruzione degli avvenimenti storici. Cfr. Gavelli, Sangiorgi 2004. [↩]
- I curatori del numero erano: Augusto Hermet, Giancarlo Batachi, Luigi Baccarini, Ugo Ottolenghi, Giovanni Ravagli, Enrico Poggi, Ferruccio Silvestri, Piperno e Vagaggini. Sulla composizione dell’opuscolo cfr. L’iniziativa degli studenti, in “La Nazione”, 29 maggio 1908. [↩]
- Rondoni 1908, 7. Poco più oltre, nell’articolo di Jack La Bolina, per spiegare la gloriosità della battaglia di Curtatone e Montanara è ripreso un altro mito greco, quello della Gloria e della Vittoria: “Gli antichi scultori greci che raffigurarono alata la vittoria si apposero al vero. La dea spietata non si posa a vicenda ora in un campo ora in quello avversario? Non si libra incerta talora tra i due contendenti? Quando, alfine, muove i vanni vermigli verso la parte cui ha decretato la palma, manda alla contrada una minor sorella: la Gloria. Questa visitò la sera del 29 maggio i campi contrastati di Curtatone e Montanara e si assise compassionevole tra le salme dei difensori di quelle due umili borgate che per valore di toscani e di napoletani sono entrate nella storia” (La Bolina 1908, 14.) [↩]
- Isastia 2008, 172. Sul punto cfr. tra gli altri Isastia 1990; Asor Rosa 2002. Per un approccio comparato cfr. Pécout 2008, 188-196. [↩]
- La commemorazione appare interessante perché fu tenuta una prima volta ai soci fondatori e alle autorità intervenute e, pochi giorni dopo, fu riproposta ai soli operai, come a voler sottolineare loro lo stretto rapporto tra cultura e patriottismo, inserendosi in quel filone di manifestazioni di stampo pedagogico-paternalistico fortemente volute dalla classe dirigente moderata durante le celebrazioni del giubileo della Patria. [↩]
- In memoria del 29 maggio 1948. Dal recente discorso di Eugenio Coselschi alla Pro-Cultura per la celebrazione degli Eroi Toscani, in “Il Nuovo Giornale”, 29 maggio 1911. [↩]
- “Quando fioriscono le rose la pia e gentile consuetudine fiorentina e toscana commemora i caduti di Curtatone e Montanara, rose purpuree di sangue dell’italico giardino” (Rondoni 1908, 5). [↩]
- Il rapporto tra l’associazione studentesca Corda Fratres e la celebrazione delle battaglie risorgimentali del 1848 è molto stretto. L’associazione, infatti, fu fondata nel 1898, anno delle celebrazioni cinquantenarie di tali eventi patriottici, inoltre per dare avvio alla Corda Fratres, Efisio Giglio Tosi chiamò a raccolta i pochi sopravvissuti tra gli studenti universitari che nel 1848 avevano preso parte alle “patrie battaglie”. Sulla Corda Fratres cfr. tra gli altri Mola 1999. [↩]
- Firenze d’ora e di allora: Sessant’anni fa! Curtatone e Montanara, in “Il Fieramosca”, 29-30 maggio 1908. [↩]
- In memoria del 29 maggio 1948. Dal recente discorso di Eugenio Coselschi allla Pro-Cultura per la celebrazione degli Eroi Toscani, in “Il Nuovo Giornale”, 29 maggio 1911. [↩]
- ACF, CF 5020, Festa dello Statuto. [↩]
- “Il Fieramosca” pubblica questa lettera il 28 maggio 1908: “All’On. Pres. Del Com. Reg. Toscano dei Veterani 1848-1870. Ringrazio sentitamente per l’invito fattomi da SV per intervenire alla Messa in Santa Croce e la prego di partecipare ai nostri veterani le considerazioni seguenti. È molto lodevole il proposito di commemorare con canonizzazioni solenni i caduti di Curtatone e Montanara, e a me sembra che sia giusto di commemorare degnamente gli eroi di quella giornata mediante una messa in suffragio per le anime dei morti nelle guerre di indipendenza. E il luogo della commemorazione, sia pure il Pantheon d’Italia non è adatto ai veterani italiani in quanto essi vi sono obbligati a lasciare fuori dalla porta la bandiera d’Italia in ossequio alle prescrizioni dell’autorità ecclesiastica; la quale dal 1849 al 1859 non fece impedimento alla bandiera d’Austria che portata dai soldati entrava in Santa Croce, e io lo vidi. Né le milizie austriache si ritenevano autorizzate a chiedere permesso alcuno. Perciò da molti anni io non vengo a tali onoranze. Con ossequio il veterano Tenente Generale Giovanni Cecconi”. La lettera di un veterano, in “Il Fieramosca”, 28 maggio 1908. [↩]
- ACF, CF 4872, Affari Generali, f.18, Abolizione insegnamento Religioso nelle scuole. [↩]
- Per il XXIX maggio. La deliberazione del consiglio comunale, “La Nazione” 19 maggio 1908. [↩]
- Il Municipio e il XXIX maggio, in “La Nazione”, 20 maggio 1908. [↩]
- Carducci e il XXIX maggio, in “La Nazione”, 29 maggio 1908. [↩]
- Curtatone e Montanara!, in “Stella Cattolica”, 23 maggio 1908. [↩]
- Il Municipio e il XXIX maggio, in “La Nazione”, 20 maggio 1908. [↩]
- Cfr. Pel XXIX maggio, in “L’Unità Cattolica”, 30 maggio 1908. [↩]
- XXIX maggio. Il gesuitismo di Ponzio Pilato,in “La Nazione”, 26 maggio 1908. [↩]
- La cerimonia di ieri mattina in Santa Croce, in “La Nazione”, 30 maggio 1908. [↩]
- Lettere del Biancone, in “Il Popolo”, 7 giugno 1908. L’articolo de “Il Fieramosca” a cui si riferisce “Il Popolo”, è la già citata La lettera di un veterano, riportata il 28 maggio 1908. Il giornale vicino all’amministrazione popolare commentava la successiva decisione delle autorità ecclesiastiche di far entrare la bandiera dei veterani solo dopo Sessant’anni dalla battaglia come un riconoscimento tardivo e sottolineava come, tra il 1849 e il 1855, le bandiere austriache erano sempre state beneaccette nel tempio (cfr. anche La commemorazione del XXIX maggio in Santa Croce, in “Il Fieramosca”, 29-30 maggio 1908). [↩]
- Commenti analoghi si leggono anche nel 1909 e nel 1910, gli altri due anni in cui la giunta popolare deciderà di sdoppiare le commemorazioni in laiche e civili. Cfr. “Il Fieramosca” 29-30 maggio 1909, “La Nazione”, 30 maggio 1909 “La Nazione”, 29 maggio 1910. [↩]
- Firenze d’ora e di allora: Sessant’anni fa! Curtatone e Montanara, in “Il Fieramosca”, 29-30 maggio 1908. [↩]
- La solenne cerimonia di Palazzo Vecchio, in “L’Opinione democratica”, 30 maggio 1910. [↩]
- Il giornale moderato “La Nazione” si fece portatrice di una polemica circa la strumentalizzazione dei giovani da parte del Comune. Il 30 maggio 1910, si può leggere in un commento alle celebrazioni per i martiri di Curtatone e Montanara: “Ho potuto vedere nella Chiesa parecchia gioventù – più di quanta io ne prevedessi – e questo mi ha confortato l’animo. Se nelle scuole comunali, per ordine superiore, s’insegna soltanto a leggere, a scrivere, a bestemmiare Iddio e a cantare l’Inno dei lavoratori, nelle scuole governative si mantengono vivi i sentimenti patriottici, l’affetto, la venerazione per i non indegni padri che ci hanno preparato il benessere civile e morale e ce lo hanno lasciato in sacro retaggio con l’obbligo di mantenerlo e difenderlo da qualsiasi spregio, da qualsiasi attentato esterno e interno. E questo dovere sente la vera gioventù che studia, che pensa, che non si lascia traviare dal dottrinismo sovversivo, e che ama addestrarsi alle armi, raggruppandosi in battaglioni, ai comandi dei benemeriti ufficiali dell’esercito nazionale”. (La solenne cerimonia del XXIX maggio nel tempio di Santa Croce, in “La Nazione”, 29 maggio 1910). [↩]