di Alberto Di Maria
Il volume curato da Learco Andalò raccoglie le dense relazioni svolte nell’omonimo convengo tenutosi il 30 settembre e il 1° ottobre del 2011 a Bologna, proponendo in appendice anche alcuni documenti esposti nella mostra storico-documentaria allestita in quella occasione presso la Biblioteca comunale dell’Archiginnasio.
Ma chi erano i “magnacucchi”? Nei primi anni Cinquanta Valdo Magnani e Aldo Cucchi – due noti esponenti del Pci emiliano, entrambi parlamentari – decisero di esprimere all’interno del proprio partito una posizione di dissenso rispetto al rapporto di stretta dipendenza che esso aveva nei confronti del Cominform, dell’Urss e di Mosca. Una scelta travagliata e dolorosa che ebbe, come immediata conseguenza, la fuoriuscita da un partito che mal sopportava le voci fuori dal coro e che li avrebbe condotti verso la fondazione di una propria creatura politica. Nacque così il Movimento lavoratori italiani (Mli), poi Unione socialista indipendente (Usi). Il sogno era quello di creare un terzo polo che avrebbe raccolto intorno a sé coloro che, rifiutando la politica dei “blocchi contrapposti”, aspiravano ad un socialismo indipendente, veramente internazionalista, fondato sull’uguaglianza di diritti tra le nazioni e non subordinato agli interessi dello stato-guida sovietico. Il partito di allora – il “buon Pci di un tempo” che, in maniera molto semplicistica, viene da alcuni rievocato come modello tradito dai partiti di sinistra attuali – come da prassi interna, respinse le dimissioni dei due dissidenti per poi procedere all’espulsione. Iniziò da quel momento un’opera di completa delegittimazione dei due fuoriusciti che si servì di qualunque mezzo necessario allo scopo, dalle accuse false infamanti alle minacce di ritorsione nei confronti dei familiari. Metodi che ci mostrano come il Pci degli anni Cinquanta non fosse tanto diverso dai partiti fratelli che operavano oltrecortina. Significativo a tal proposito è il pensiero della moglie di Magnani, Franca Schiavetti, che ricordando quegli anni non esitò a definire quanto subito “stalinismo in un paese democratico, stalinismo senza Stalin”. In anni recenti poi, sono stati ritrovati, negli archivi bolognesi dello stesso partito, documenti che comprovano come i due “magnacucchi” – sprezzante quanto efficace crasi dei cognomi Magnani e Cucchi – e i loro sostenitori fossero stati pesantemente messi sotto osservazione.
Come si spiega tanto livore? L’Italia del 1951, quando si compie lo strappo di Magnani e Cucchi, pur appartenendo al Patto atlantico da cui riceveva sostegno militare ed economico, era il paese che ospitava il maggiore Partito comunista filosovietico del mondo occidentale. Per questo motivo e per la sua collocazione geopolitica, proprio al confine con i paesi del blocco comunista, era considerata come uno dei principali scenari della guerra fredda, insieme alla Corea, dove era in atto il secondo anno di combattimenti tra le forze comuniste e anticomuniste, la Germania appena divisa in due parti e la Jugoslavia socialista deviazionista del maresciallo Tito. In questo contesto storico era impensabile per il Pci lasciare margini di manovra a posizioni che mettessero in dubbio la sua condotta politica: non era quello che i finanziatori sovietici si aspettavano. Margini che neanche il Partito socialista, all’epoca ancora legato a doppio filo a quello comunista, poteva offrire.
Lo strappo era inaccettabile da parte del partito perché proveniva da due esponenti che godevano di forte stima e credibilità a sinistra. Valdo Magnani era stato eletto parlamentare nel 1948 ed era segretario provinciale del Pci di Reggio Emilia, una delle roccaforti “rosse” d’Italia. Aldo Cucchi, anch’egli eletto parlamentare nel 1946 e nel 1948, era stato un eroe della resistenza le cui gesta sono narrate in alcuni dei romanzi del suo amico Mario Tobino. Medaglia d’oro al valore civile, comandante con lo pseudonimo di “Jacopo” della celeberrima 7a Gap che operava a Bologna, era protagonista degli episodi più significativi della guerra di liberazione, tra cui la “battaglia di Porta Lame” del settembre 1944.
Il maggiore successo politico dei “magnacucchi” si registrò nelle elezioni politiche del giugno 1953 quando contribuirono, con lo 0,82% delle preferenze, ad impedire il conseguimento dell’esagerato premio di maggioranza – previsto dalla famigerata “legge truffa” varata nel marzo dello stesso anno – da parte della coalizione guidata dalla Democrazia cristiana. Tuttavia con tali percentuali non si potevano certamente coltivare forti ambizioni ed è fuori dalle istituzioni che va ricercata l’eredità politica di Magnani e Cucchi, tra le pagine del settimanale “Risorgimento Socialista”, organo ufficiale del movimento.
Fondato nel giugno del 1951, ospitava al suo interno prestigiose firme nazionali e internazionali. Infatti, oltre che occuparsi delle vicende italiane – su tutte la “questione meridionale” – il giornale si caratterizzava per la profonda attenzione alle vicende estere, alle quali dedicava cronache, commenti, e traduzioni di articoli pubblicati su giornali e riviste straniere. Principale preoccupazione dei redattori era quella di mostrare come gli ideali del socialismo indipendente fossero condivisi nel resto del mondo e in questo senso rompere l’isolamento dei pochi italiani che vi aderivano. Sotto la lente di “Risorgimento Socialista” era in particolare la Jugoslavia di Tito, per il ruolo che andava assumendo, ponendosi come modello di socialismo alternativo e anti-imperialista. Destava interesse anche il tema della decolonizzazione, negli stessi anni in cui i francesi venivano sconfitti a Dien Bien Phu – definita sulle colonne del giornale la “Waterloo del colonialismo” – e gli algerini si battevano per la propria emancipazione nazionale.
“Risorgimento Socialista” chiuse i battenti nel marzo 1957 dopo avere attraversato buona parte di un decennio denso di avvenimenti epocali. Salutato con entusiasmo l’ipotesi di un nuovo corso per il comunismo mondiale, dopo il rapporto di Chruscev al XX Congresso del Pcus del febbraio 1956, pochi mesi dopo il giornale non mostrò incertezze nel condannare l’intervento sovietico in Ungheria, definendo quella vicenda “una delle più grandi tragedie della storia […], una lotta aperta e giunta a mezzi estremi tra gli apparati burocratici stalinisti, appoggiati dall’Unione Sovietica, e lo schieramento spontaneo, genuino, dei lavoratori che volevano il socialismo”. Vale la pena riportare la citazione proprio per il carattere di verità che avevano le parole di quello sparuto e controcorrente gruppo di uomini, quando il conformismo a sinistra significava sostenere la versione di Mosca che bollava la rivolta ungherese come una controrivoluzione di stampo reazionario e fascista.
Una lezione di integrità morale è dunque ciò che ci lasciano in consegna i “magnacucchi”. Le loro scelte anticiparono di quasi trent’anni quella che sarà poi definita come la svolta “eurocomunista” di – Enrico Berlinguer, che avrebbe portato il Pci verso una progressiva presa di distanza dal “socialismo reale” fino all’epilogo della “Bolognina”. E non è un caso che proprio durante la segreteria Berlinguer, Valdo Magnani, ormai da tempo reintegrato nelle file del partito, ricoprì la carica di presidente nazionale della Lega delle cooperative. In quel ruolo fu chiamato per ridare credibilità ad un organismo che usciva da una vicenda poco chiara, il cosiddetto “affare Duina”. Gli altri “magnacucchi”, dopo la chiusura dell’esperienza dell’Usi nel 1957, si erano nel frattempo sparpagliati nelle varie formazioni dell’universo socialista italiano: Cucchi aderì al Psdi, la maggior parte entrò nel Psi, altri ancora parteciparono nel 1964 alla fondazione dello Psiup.
Questa e altre storie sono raccontate nel volume a cura di Andalò, anch’egli tra i protagonisti del movimento, che ha il merito di portare alla nostra attenzione i dettagli di una vicenda per troppo tempo dimenticata. La prima parte del libro, dedicata alle vicende politiche del movimento, raccoglie diversi contributi. Quelli di Lucio Caracciolo e Nadia Caiti analizzano la vicenda nel suo complesso e il contesto storico in cui si svolse. Luciano Casali rilegge nelle pagine di “Risorgimento Socialista” la particolare attenzione che il settimanale dedicò alla politica internazionale. Gli interventi di Roberto Balzani, Roberto Marcuccio e Oreste Andalò studiano alcuni dei contesti regionali – Romagna, Puglia e Abruzzo-Molise – in cui l’Mli-Usi cercò di penetrare, mentre Michele Zappella racconta di Aldo Cucchi, visto attraverso la penna dello scrittore Mario Tobino. La seconda parte del libro è dedicata alle fonti storiografiche sul movimento. Sono presenti i saggi di Siriana Suprani sul “fondo Valdo Magnani” e di Linda Giuva sulle carte di Vera Lombardi e Clara Bovero, donne e militanti dell’Mli-Usi; un ricordo di Giuseppe Cucchi sull’Aldo Cucchi comandante partigiano; infine, un saggio di Tito Menzani sulla carriera di Valdo Magnani nell’universo cooperativo.
“L’eresia è il vero momento creativo della religione” scriveva lo storico del Cristianesimo Alfred Loisy. Questa citazione è stata ripresa da Walter Maturi a proposito dell’interesse di Piero Gobetti per gli eretici, i rivoluzionari, i ribelli dell’epopea risorgimentale, che tanto contribuirono alla causa con la loro abnegazione, scevra da ogni compromesso1. A noi pare perfetta per sottolineare quanto sia importante, per la storiografia, non trascurare quelle che, all’apparenza, possono sembrare piccole vicende ininfluenti al fine della definizione dell’affresco storico – come la pionieristica avventura dei “magnacucchi” – ma che spesso risultano fondamentali per comprendere le origini di certe svolte epocali che segnano il percorso della Storia.
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- Walter Maturi, 1962, Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Torino, p. 649. [↩]