Andrea Ragusa
É una storia antica che sa di polvere e di sudore, di fatica dolorosa che sfianca i muscoli e ti dà il vomito, quella del ciclismo e del Giro d’Italia, sua italica, secolare, espressione. Cento anni sono passati da quando il 13 maggio 1909, alle 2.53 del mattino, prese il via il primo Giro, in una Milano ancora avvolta nel buio appena scalfito dai timidi conati dell’alba. Otto tappe percorse in diciassette giorni, circa 300 km per tappa per un totale di 2.408 km: 127 corridori partiti, appena 49 tornati a Milano, dove il Giro si concluse il 30 dello stesso mese con lo spontaneo quanto irrituale “sospiro” di Luigi Ganna, primo vincitore, che – richiesto a caldo di un commento da Armando Cougnet – lasciò andare tutta l’umanità plebea e la disarmante ingenuità di uno che di mestiere faceva il muratore e la bicicletta aveva conosciuto sin lì come mezzo di trasporto per andare a lavorare da Induno Olona a Milano e ritorno (100 km al giorno!), in un fulminante: “Me brusa tanto ‘l cu”.
Cento anni di strade bianche e di sterrati, di paesi minuscoli conosciuti dal Giro e che attraverso il Giro si sono presentati ad un’Italia che ha fatto loro da splendido affaccio: riaprendo ogni anno le finestre e le loggette delle dolci colline toscane e dei terrazzamenti costieri, le vetrate abbaglianti del proprio Sud mediterraneo, i bastioni eterni dell’Appennino, i portoni maestosi delle Alpi, i passi scoscesi delle balze dolomitiche; ogni anno avvolgendosi dell’aria tersa e carica di profumata attesa della primavera. Perché il Giro è stato ed è ancora innanzitutto l’attesa del Giro, la sua preparazione e la sua presentazione: promessa dei mesi invernali di una primavera nuova che impone e pretende i suoi riti, li codifica in regole senza mai svuotarli, però, della loro primigenia spontaneità. Il Giro è uno di questi: ed è tanto significativa la forza con cui esso si è imposto come elemento ormai imprescindibile nel senso comune degli italiani, nel loro essere comunità, e come grande fatto sociale nella storia del nostro paese, che una naturale attenzione ha accompagnato nel 2009 non solo il particolare percorso della gara, per la prima volta conclusosi a Roma e non, come da tradizione, a Milano, ma anche le numerose ed importanti iniziative espositive e convegnistiche approdate alla giornata di studi su Il Giro d’Italia e la società italiana,promossa dalla sinergica collaborazione tra la fondazione di Studi storici “Filippo Turati”, la fondazione “Corriere della Sera”, la “Gazzetta dello Sport” ed il Comitato nazionale per il centenario del Giro d’Italia, ed ospitata il 2 ottobre 2009 – sotto il patrocinio del ministero per i Beni e le attività culturali, della giunta regionale Toscana e del Comune di Firenze, e l’adesione del consiglio regionale Toscano – nella suggestiva cornice del Salone de’ Dugento in Palazzo Vecchio, a Firenze. Occasione importante non solo per il fatto di celebrare un evento che è stato ed è, storicamente, dei comuni d’Italia e dell’Italia attraverso i comuni, come hanno evidenziato il sottosegretario agli Interni Michele Davico, ed il presidente della fondazione Turati Maurizio Degl’Innocenti insediando la prima sessione dei lavori; ma anche per il fatto di aver saputo coniugare, in uno scambio effettivo e reciproco, sport e cultura, come ha sottolineato, portando il saluto della “Gazzetta dello Sport”, il vicedirettore Angelo Zomegnan.
Se un merito, tra gli altri, questo convegno fiorentino ha avuto, esso è stato senza dubbio, innanzitutto, proprio quello di aver ribadito con forza, alla comunità scientifica, l’opportunità di sgombrare il campo da un pregiudizio che ancora avvolge lo sport come tema di ricerca, e di farne al contrario l’oggetto di un interesse che certo sta crescendo, per merito di studiosi di valore alcuni dei quali presenti a Firenze, ma ancora, forse, senza la necessaria sistematicità, quasi legandosi alla sensibilità personale assai più che ad una effettiva programmazione metodologica, ben più presente, ad esempio, in un paese come la Francia, la cui capacità di aggiornamento ed evoluzione delle traiettorie di analisi, soprattutto storiografiche, non ha certo bisogno di essere ricordata in questa sede.
Più di ogni altro sport, al pari, forse, del solo calcio, con il quale condivide la forza evocativa e possibilità narrative di straordinaria potenza, a tratti persino di struggente romanticismo, il ciclismo incarna del resto davvero tutti gli elementi simbolici della vita: della vita del singolo – il corridore solitario in fuga – di quella del gruppo – la squadra, con gli oscuri ed infaticabili gregari, ed il gruppo, cuore pulsante della tappa, con il circo variopinto dei colori, delle maglie, dei berretti e dei caschi – di quella della comunità, che tutta accompagna i “girini” accogliendo in festa la carovana e facendoli ogni volta sentire a casa. In fondo è davvero una sorta di grande “Odissea” quella di chi corre il Giro, o come il Giro il Tour, o anche la meno antica (istituita nel 1935) Vuelta spagnola: sono davvero eroi omerici – come ebbe a scrivere Roland Barthes – i ciclisti che percorrono le 22 tappe di cui, in maniera esattamente speculare, si compongono la corsa italiana e quella francese; e prima di lui Ivanoe Bonomi, richiamando il movimento socialista all’opportunità di superare lo scetticismo per guardare al fenomeno sportivo come grande fatto sociale, li aveva paragonati proprio agli atleti del circo dell’antica Grecia. Al pari del calcio, il ciclismo è storicamente uno sport “di tutti e per tutti”: e perché praticato all’aria aperta, e perché alla portata di tutti dati i prezzi del mezzo, fattisi, nel giro dei primi trent’anni del nuovo secolo, accessibili ad un pubblico relativamente vasto, dopo i primissimi esperimenti, compiuti nel 1791 al Palais Royal di Parigi con la presentazione del celerifero, e la creazione nel 1861 del velocipede da parte dei francesi Pierre ed Ernest Michaux. É significativo, come ha sottolineato Stefano Maggi raccogliendo nella relazione i frutti dei suoi ampi e documentati studi sui trasporti, che soprattutto dopo il 1886, anno nel quale venne introdotta la trasmissione alla ruota posteriore per mezzo della catena, la bicicletta avesse una diffusione enorme, divenendo letteralmente “la regina della strada”, con circa 10 milioni di esemplari circolanti in Francia nel 1900, e con la crescita di un associazionismo turistico-ricreativo che ebbe ad esempio, in Italia, nella nascita dell’Unione Velocipedistica Italiana a Torino (1885) e del Touring Club Italiano (1894), alcune tappe fondamentali.
Proprio la singolare commistione, sempre sospesa in una contraddittorietà dal delicatissimo equilibrio, di elementi di modernità e di tradizione, è forse in fondo il segreto, ineffabile elemento di successo delle corse ciclistiche; ed in questo senso il Giro d’Italia come il Tour de France, nato appena sei anni prima, nel 1903, paiono davvero, ancora oggi, due eleganti signori della borghesia belle epoque: l’uno compreso nella grandeur di una Francia che aveva curato la ferita sanguinante di Sedan innalzando al cielo il sogno razionalista della torre Eiffel, e rovesciando sull’Europa l’ottimismo della rivoluzione tecnologica, della crescita economica, del rafforzamento delle istituzioni democratiche e dell’opinione pubblica sempre meglio rappresentata da partiti e sindacati, e dal megafono della stampa quotidiana; l’altro coi baffoni giolittiani e la “padella” al taschino, la bombetta o la paglietta da finto aristocratico, ma le ghette ancora sporche di terra o di calcina: memoria di contadini e manovali, di disperazione e miseria da cui tanti italiani, in quegli anni di inizio secolo, cercavano di fuggire rincorrendo il sogno dell’America.
In questo il ciclismo – e soprattutto il Giro ed il Tour – divennero immediatamente mitologia: mitologia dello sforzo fisico e della lotta dell’uomo contro gli elementi naturali; mitologia, anche, di nuove mete e nuove possibilità di riscatto sociale. Quello che con la loro intuizione riuscirono a fare Henri Degranges – direttore de “L’Auto”, il periodico giallo da cui prese il colore la maglia del Tour – ed i tre inventori del Giro – Eugenio Camillo Costamagna, fondatore nel 1896 e direttore delle “rosea”, da cui nel 1931 si scelse il colore della maglia del Giro, Tullio Morgagni, redattore capo, ed Armando Cougnet, amministratore del giornale, che del Giro divenne il patron e l’anima fino al 1940 – fu in fondo, si potrebbe dire, il dare corpo ad un sogno che apparteneva a strati di popolazione schiacciati nella miseria oscura, che nell’identificazione con gli eroi della bicicletta – “le amazzoni dell’acciaio”, come li definì Mallarmé – trovavano l’occasione per entrare nel palcoscenico della storia. La bicicletta, simbolo della velocità e del moderno, legata in maniera indissolubile alla fatica antica dell’artigiano: in questa simbiosi uomo-macchina risiede la metafora del moderno che avanza e dell’uomo che lo piega a sé e lo domina; conquista dell’ambiente e del territorio, poderoso sforzo di controllo della natura e dell’energia. Ben più dell’automobile e della locomotiva – ha evidenziato Georges Vigarello, individuando in questo uno dei motivi principali del diffondersi della cultura ciclistica a cavallo tra Otto e Novecento – la bicicletta aiutò tutti ad entrare e “pensarsi” nel nuovo secolo, e a farlo anche dai vertici più bassi della società, salendone le pareti con le proprie forze ed il proprio talento, proprio come i campioni del ciclismo ascendevano le pareti rocciose dei tapponi di montagna, in una solitudine tanto grande da divenire quasi una vertigine di angoscia.
Perché il campione è poi in fondo un uomo normale, uno tra i tanti che “ce l’ha fatta”: chi sono storicamente i miti del ciclismo se non eroi emersi dal variopinto e promiscuo mondo del popolo, degli umili, dei vinti persino? Si guardi ai soprannomi con cui l’immaginario prese da subito ad additarli, ha raccomandato nel suo intervento Stefano Pivato: Costante Girardengo, “l’omino di Novi”; Vasco Bergamaschi, “il fornaio volante”; Ezio Cecchi, “lo scopino di Monsummano”: allusioni e riferimenti alle loro origini umili, come quelle di Alfredo Binda, stuccatore in Costa Azzurra, nella ditta di uno zio, prima di diventare, per molti, il più forte, il più elegante, il più grande. Più grande, s’intende, anche di quei grandissimi cui la mitologia popolare riconobbe l’immortalità: il “diavolo rosso” Giovanni Gerbi, Learco Guerra, la “locomotiva umana”, con quella sorta di “ampliamento tecnico” che fu “il treno di Forlì” Ercole Baldini; o somiglianze con le immagini di un bestiario onirico in cui prevaleva la forza – “il leone del Mugello” Gastone Nencini o quello delle Fiandre, Fiorenzo Magni – o l’eleganza: l’“airone”, Angelo Fausto Coppi. Ma si guardi anche al fatto che il ciclismo – ed in questo il Tour forse più del Giro – celebri storicamente anche il perdente, lo sconfitto, l’eterno secondo, talvolta ben più del vincitore: assai più “poupoù” Poulidor che non Bobet o Anquetil; o, come nella fantasia nostrana, la storia leggendaria di Luigi Malabrocca, la “maglia nera”, sempre pronto ad imboscarsi in qualche casolare o in un’osteria per una minestra calda e qualche bicchiere, quando ritenesse di essere “troppo in anticipo” sul ruolo di marcia del “chiudipista”. O, ancora, il gregario, incarnazione del sacrificio per la squadra in cui la società di inizio secolo si riconosceva: “corridore proletario/che ai campioni di mestiere/deve far da cameriere/e sul piatto, senza gloria, serve loro la vittoria”, come lo descriveva Gianni Rodari rendendolo familiare ai bambini; l’“acquaiolo specializzato”, portatore delle borracce nelle tasche capaci della maglia: “una sul petto, larga come una busta da avvocato, altre due sulle reni, profonde come la bisaccia di un frate cercatore”, nelle parole di Orio Vergani.
Perché in fondo il Giro è anche e soprattutto narrazione, scritta e parlata o anche visiva: sono parole e storie di uomini e di luoghi, cartoline da scegliere e conservare, sempre più ingiallite, sempre più lontane, eppure sempre reali, concrete, quasi da poterle toccare, quasi che la potessi sentire la rabbia arcigna di Binda che stacca con la bocca un tubolare – bestemmie tra i denti e mascella da leone – per sostituirlo; il sorriso beffardo di “Ginettaccio” Bartali ai “francesi che s’incazzano”; o il respiro profondo del torace carenato di Coppi: pedalata lunga come un colpo d’ala, eleganza d’altri tempi da brillantina nei capelli, compostezza quasi triste nello sguardo di chi affronta la solitudine dello Stelvio col coraggio di chi ha rotto i pregiudizi di un’Italia ancora troppo bigotta e conformista, avvolto in un foulard bianco e protetto da occhiali scuri, e sente la vita, per lui passista e scalatore, gigante delle pareti alpestri, sproporzionatamente breve come una crono.
É una collezione di frammenti della memoria: sono le strade bianche e la polvere, “corridori che pedalano per giorni e giorni con la fronte bassa e la schiena oppressa in un atteggiamento di perpetua penitenza”, “un’avventura fantastica, eppure tanto reale, nella quale essi concepiscono forse ogni senso”; sono le foto di un racconto mitico che appartiene alla nostra storia di italiani, nelle quali vediamo crescere e trasformarsi il nostro paese; forse più frammentato e debole della Francia che nel Tour celebra la propria grandezza – Parigi o cara! – ma non meno coraggioso e duro; è la storia di noi italiani: straccioni e sconfitti e sempre a un passo dai vincitori, ma capaci di rialzarci quando la fatica ti consuma e ti inchioda a terra, poesia tragica di ladri in bicicletta, nostalgia di biglie e tappini sulle spiagge del benessere ancora sporco di fango. A guardarle una dopo l’altra, nella bellissima antologia presentata da Luigi Tomassini, questa storia la vediamo scorrere tutta intera: la conquista del territorio che le biciclette perimetrano, i volti scavati di terra di uomini distrutti dai kilometri, le maglie ed i simboli di un paese che cambia vestendo di pubblicità industriale la propria arcaica miseria contadina.
Il ciclismo ed il Giro cambiano come cambia l’Italia, proprio perché il Giro è l’Italia, ne è espressione profonda, formidabile, avvincente. Solo il fascismo non lo comprese: di tutte le artificiose proiezioni che il regime volle disegnare sull’Italia – fatta veloce ma rimasta contadina, aeronautica ma poeticamente marinara, maschia e conquistatrice con una rozzezza da coltello ed osteria – il ciclismo non subì la forza invasiva, ma rimase ai margini, anche perché sarebbe stato difficile accostare all’Italia bersagliera in bicicletta, la memoria resistente dei “ciclisti rossi”. E tuttavia neanche il regime poté rimanere completamente indifferente al fascino esercitato su tanta parte della popolazione dal Giro, e tanti sono gli episodi che segnano l’ennesimo tentativo di “fascistizzazione”, se nel 1929 il segretario del Pnf Augusto Turati, presidente del Coni, andò ad abbassare la bandierina del via, e nel 1933, all’Arena di Milano, i corridori furono accolti da Achille Starace; per non dire poi del traguardo del Terminillo, la “montagna del Duce”, inserito nel percorso e presto divenuto un classico. Ma, certo, l’Italia fascista non cessò di riconoscersi assai più nelle gesta epiche dei trasvolatori di Balbo e nell’incarnazione della velocità motorizzata: Tazio Nuvolari, occhialoni da astronauta, guida spericolata, fari spenti nella notte per nascondersi agli avversari. Fu la potenza esuberante e l’audacia da attaccante di Learco Guerra a convincere il regime a guardare con più attenzione al ciclismo: Guerra, più forte e più italiano degli stessi aviatori, degli stessi calciatori; la cui classe trovò posto accanto a quella del “Balilla” Peppino Meazza, nella galleria delle glorie sportive fasciste; la cui forza parve simile a quella di un “pugno Carnera”; mentre intanto i francesi applaudivano il cattolico Bartali sotto l’Arco di Trionfo, assai più dei fascisti azzurri di Vittorio Pozzo, campioni del mondo nel 1938.
La televisione e la pubblicità avrebbero tolto a questo ciclismo la polvere fascinosa del racconto, rendendolo sempre più “marchio” ed etichetta nelle sue maglie, sempre più tecnologia nei suoi strumenti, sempre più analisi ravvicinata nelle sue immagini. Sulle ruote della bicicletta avanzò la nuova Italia dei beni di consumo e tanti furono i ciclisti ingaggiati come sponsor ed addirittura titolari essi stessi di ditte di costruzione o di nuove squadre. E la Bianchi, la Legnano, come gli annunci degli artisti di grido, divennero il simbolo di una ricchezza ormai tangibile, concreta, vicina, mentre l’antica rivalità tra Coppi e Bartali si scioglieva nella simpatica comparsata televisiva al “Musichiere” di Mario Riva: anni felici dopo le fatiche della guerra.
Eppure, si vuol dire, nonostante questa evoluzione profonda che l’economia ha introdotto nello sport (non solo nel ciclismo evidentemente: o forse la storia del Milan di Rocco o della “grande Inter” di Herrera e Moratti non è la storia della Milano che si faceva grande e diventava una moderna capitale europea? E quella della Juve di Charles e Sivori, o ancor prima di Parola, squadra del padrone tifata dagli operai, una delle poche passioni pubbliche cui persino la riservatezza sovietica di Togliatti cedette, non è forse la storia di tanta parte della nostra emigrazione e della politica che ne veniva sorpresa?); e nonostante i gravissimi problemi che lo sport si trova ad affrontare negli ultimi anni in relazione ad un uso sempre più diffuso, cinico e spesso addirittura criminoso, del sostegno farmacologico, di cui a Firenze ha parlato il professor Giovanni Tredici, responsabile del Servizio di assistenza Medica del Giro d’Italia, non ci rassegniamo a pensare che quello che lega gli italiani al Giro, e che per un mese li tiene “incollati” alla Tv, non sia, ancora e più di prima, quell’elemento di poesia che si nasconde nel volto del corridore stravolto dalla fatica, in fuga solitaria contro le montagne del Tourmalet, del Pordoi, del Mortirolo. É in fondo quella contraddizione lacerante che spiega, almeno in parte, la fortuna crescente di quello che si può considerare l’ultimo vero mito del ciclismo italiano: quel Marco Pantani – il “Pirata” di Cesenatico – capace di riaccendere l’entusiasmo degli appassionati con fughe spericolate e trascinanti, ed infine piegato dalla propria fragilità che lo rendeva incapace di resistere a quella stessa macchina che ne aveva costruito ed alimentato il successo, e che a Madonna di Campiglio stava per spingerlo in una spirale di disperazione e di morte. Pare ancora di vederlo inarcarsi e salire sui pedali per staccare il gruppo con quel tipico rituale di guerra della bandana gettata al vento. Pare ancora di sentirli i “girini” che lo inseguono accompagnati dal canto festoso e popolare che sa di antico e di fatica: “Ciao Mama…”.