di Fabio Casini
Sigle
NA: National Archives
FO: Foreign Office
CAB: Cabinet
CC: Churchill Centre and Museum at the Churchill War Rooms, London
DBFP: Documents on British Foreign Policy 1919-39
DGFP: Documents on German Foreign Policy
Le rassicurazioni e gli avvertimenti britannici non dissuasero Mussolini dal compiere la sua impresa: il 3 ottobre 1935 ebbe inizio l’attacco all’Etiopia. Le operazioni durarono sino al maggio 1936, quando il Negus Hailé-Selassié abbandonò il paese e gli italiani entrarono ad Addis Abeba.
Due giorni dopo l’apertura delle ostilità, Baldwin aveva inviato all’ambasciatore francese, Corbin, un messaggio che conteneva toni ostili nei confronti di Mussolini e della sua impresa. Il premier affermava che l’Inghilterra, di fronte all’impulso delle dittature di superare le proprie frontiere mettendo in pericolo la pace, sarebbe dovuta intervenire per sventare tale minaccia (Colvin 1965, 72). Tuttavia “il fermo atteggiamento verso Mussolini che l’opinione pubblica era stata indotta ad aspettarsi non venne mai” (Lambert 1966, 161). Vansittart tranquillizzò Mussolini, tramite l’ambasciatore in Italia, Drummond (in seguito lord Perth), che tale discorso del Primo Ministro non doveva essere preso alla lettera, che la Gran Bretagna non sarebbe andata oltre le sanzioni economiche e che non intendeva certamente mettere un blocco all’Italia fascista. Infatti, quando il 5 ottobre il governo etiopico si appellò alla Sdn, ottenne solo l’adozione di limitate sanzioni economiche all’aggressore. Fu proibita la fornitura di armi all’Italia, ma al tempo stesso anche all’Etiopia. Furono esclusi dall’embargo merci strategiche utili alla guerra, come ferro, acciaio, rame, zinco, piombo cotone, lana e soprattutto petrolio. Le sanzioni produssero dunque il risultato di irritare Mussolini, senza però impedire al dittatore di continuare la sua prova di forza. L’articolo 16 del Covenant era stato applicato solo parzialmente ed il proposito di frenare l’aggressione italiana sviluppato dalla Sdn col patrocinio inglese, risultava veramente poco credibile. Tali nobili propositi divennero ancor meno attendibili se si considera il lavorio sotterraneo che da mesi (Eden 1962, 311-381) gli anglo-francesi stavano attuando per giungere ad un compromesso con Mussolini al fine di farlo desistere dal completare la sua impresa, recuperarlo al “fronte di Stresa” (Di Nolfo 1994, 197) e salvare la faccia di fronte alla Sdn. L’accordo Hoare-Laval, cui si giunse l’8 dicembre 1935, prevedeva la cessione all’Italia della maggior parte dei territori del Tigré e dell’Ogaden e la possibilità di sviluppare la sua influenza economica sull’Etiopia meridionale. In cambio l’Etiopia di Hailé Selassié avrebbe avuto la concessione di uno sbocco al mare fino al porto di Assab.
Dopo la firma dell’accordo, Vansittart e l’ambasciatore britannico a Parigi, Clerk, si congratularono con Hoare per aver ristabilito il fronte anglo-francese. Peterson, capo del Dipartimento per l’Etiopia al Foreign Office, ritornò a Londra con i documenti relativi all’incontro. Prima che partisse, Vansittart lo esortò ad enfatizzare, nei confronti del governo, la necessità, ora, di “serrare i ranghi contro l’impeto tedesco” (Goldman 1974, 122). Egli non perdeva mai di vista il pericolo hitleriano ed aveva in tal senso le stesse convinzioni di Churchill. Vansittart desiderava vedere Francia ed Inghilterra pronte a fronteggiare con tutte le loro forze quel pericolo più grave con alle spalle un‘Italia non ostile ma amica (Churchill 1953, 209).
Il testo dell’accordo suscitò alla Camera un acceso dibattito politico. Si aprirono discussioni sulla opportunità o meno di comunicare il piano contemporaneamente a Mussolini ed al Negus e sulla possibilità di mitigare l’asprezza dell’accordo facendo ulteriori concessioni all’Etiopia: tuttavia il risultato ottenuto da Hoare era il frutto di un’azione voluta dal Gabinetto conservatore britannico e portata avanti da settimane. Vansittart si trattenne a Parigi allo scopo di lavorare con Laval per l’attuazione della proposta. Il ministro degli Esteri francese temeva che l’Etiopia rifiutasse il piano e che un embargo petrolifero fosse imposto all’Italia, causando un conflitto con Roma. Per placare i timori francesi, Vansittart chiese al governo britannico di rassicurare Laval sul fatto che, nel caso in cui l’Etiopia avesse rifiutato l’accordo, non sarebbe stata attuata alcuna sanzione petrolifera. La risposta di Baldwin fu quella di sostenere la necessità di pari trattamento fra Etiopia ed Italia, non accettando di impegnarsi in opposizione ad eventuali sanzioni1. Era principalmente a causa dell’azione francese, se un embargo petrolifero nei confronti dell’Italia era stato rimandato e posposto. Ma nonostante i rinvii, un simile embargo si sarebbe rivelato inutile: Usa e Venezuela, infatti, inviavano grosse quantità di petrolio nell’Africa orientale italiana.
Mussolini tardò nel comunicare la sua posizione: lo fece soltanto alcuni giorni dopo. Nel frattempo, il 13 dicembre 1935, mentre il testo del patto Hoare-Laval giungeva nei tavoli della Lega, veniva pure pubblicato dalla stampa francese (forse in seguito ad informazioni di diplomatici ostili alle concessioni a Mussolini), provocando un’ondata di indignazione in Inghilterra. L’opinione pubblica ne rimase profondamente colpita, anche perché ignara che certi negoziati fossero stati intrapresi. Il “Times” del 14 dicembre riportava la notizia che l’Inghilterra aveva appena deciso di consegnare all’Italia fascista la titolarità ed il controllo di una buona parte del territorio abissino (Lamb, 1998, 208). Quando Vansittart tornò a Londra si trovò circondato da quel clima di disappunto, ma cercò di spingere un incerto Baldwin a dichiarare pubblicamente il buon lavoro fatto da Hoare a Parigi e che le trattative giunte alla conclusione del patto erano ben conosciute dal governo. Tuttavia il Gabinetto britannico, costernato dalle critiche dell’opinione pubblica a coloro che avevano recitato la parte dei tutori del diritto internazionale e che si accingevano adesso a premiare l’aggressore (Di Nolfo 1994, 199), non seguì le indicazioni di Vansittart. Mentre una pioggia di lettere sdegnate si abbatteva sui membri del Parlamento (Eden 1962, 390), Baldwin fu costretto ad annunciare (Churchill 1953, 212) la precoce morte del patto Hoare-Laval. Il ministro degli esteri inglese dovette dimettersi ed Eden gli succedette al Foreign Office.
Nell’entourage governativo cominciò a circolare un certo risentimento nei confronti di Vansittart accusato, da alcuni (in particolar modo Neville Chamberlain) di aver indotto Hoare all’errore e ci furono pressanti richieste di dimissioni del sottosegretario permanente. Anche la stampa lo attaccava definendolo “l’uomo dietro tutto” (Colvin 1965, 92). “Van” rifiutò, sostenendo che le dimissioni sarebbero state prese come un’ammissione di colpevolezza e si mostrò determinato a mettere la questione da parte e continuare la sua personale resistenza alla Germania (Vansittart 1958, 542). Nonostante non ci fosse armonia di vedute con il nuovo ministro degli Esteri, Eden, Vansittart proseguì la sua personale battaglia, sostenuto al Foreign Office da Sargent, assistente sottosegretario e da Wigram, capo del dipartimento centrale degli Esteri. Tutto però, adesso era più difficile. Il fallimento del piano Hoare-Laval aveva ora affievolito le speranze di Vansittart di mantenere buone relazioni con l’Italia: l’uso di questa in funzione anti-tedesca si sarebbe fatto sempre più arduo e le possibilità di un accerchiamento della Germania divenivano adesso più difficili2. La Sdn aveva dimostrato di non avere alcuna autorità, il presunto “fronte di Stresa” era crollato definitivamente creando un clima di discordia fra Gran Bretagna e Francia; ma soprattutto si stava aprendo la strada verso l’avvicinamento fra Italia e Germania, che le Democrazie tanto avevano osteggiato: ciò confermava le predizioni e gli avvertimenti che il sottosegretario permanente al Foreign Office aveva annunciato già nel 1933 (Goldman 1974, 130).
Nel gennaio 1936, Mussolini dimostrava di aver dimenticato le sue passate premure per l’Austria, comunicando all’ambasciatore tedesco in Italia, Von Hassell, che nulla avrebbe obiettato se Berlino e Vienna avessero firmato un accordo per mantenere formalmente l’indipendenza austriaca ma, di fatto, reso l’Austria un satellite tedesco3. È quello che Hitler fece, siglando l’accordo austro-tedesco dell’11 luglio 1936, che avrebbe poi creato i presupposti per una futura presa legale del potere da parte dei nazionalsocialisti.
Nei primi mesi del 1936 erano proseguiti, intanto, i contatti anglo-francesi basati sulla opportunità o meno di comminare sanzioni petrolifere all’Italia per farla desistere dalla definitiva occupazione dell’Etiopia. Vansittart era invece favorevole alla rimozione delle sanzioni ed alla riapertura di negoziati, dato che questa era la stessa politica che il governo britannico avrebbe adottato per le successive violazioni della Germania. Dal collasso italiano, infatti, la Gran Bretagna avrebbe sì guadagnato nell’assenza di pressioni nel Mediteranno e in Nord Africa, ma avrebbe perso un importante contrappeso alla Germania in Europa centrale. Per lui il pericolo principale restava Hitler, il quale adesso poteva avvicinarsi pericolosamente a Mussolini: secondo Vansittart la Gran Bretagna poteva ancora evitare quell’avvicinamento (citato da Colvin 1965, 105). Anche Flandin, Primo Ministro francese, si oppose ad un’intensificazione delle sanzioni, poiché esse avrebbero causato l’uscita dell’Italia dalla Sdn, il disimpegno dagli obblighi di Locarno e il riavvicinamento alla Germania. Quest’ultima, che aveva considerato il patto franco-sovietico del 1935 non compatibile con il trattato di Locarno, in quanto chiaramente diretto contro di essa, si stava creando il giusto alibi per portare avanti le sue rivendicazioni nella zona smilitarizzata della Renania: questa fu occupata il 7 marzo 1936 e fu ristabilita in quell’area la sovranità tedesca.4. Era, da parte di Hitler, un’ulteriore violazione del trattato di Versailles e del patto di Locarno. Alcun paese garante dell’assetto renano si mosse: nessuna fra le potenze europee si rese conto della fragilità delle forze in campo messe da Hitler in quell’occasione ed il dittatore ebbe gioco facile.
Il 9 maggio 1936 Mussolini dichiarava compiuta l’annessione dell’Etiopia. Con quel colpo di forza annunciato, Mussolini coronava le sue ambizioni sancendo l’inconsistenza della Sdn e ponendo altresì le basi per un avvicinamento alla Germania nazista. La guerra di Spagna, scoppiata nel luglio di quel mese, avrebbe ulteriormente avvicinato i due dittatori. Gli incontri del ministro degli Esteri, Ciano e di Mussolini con Hitler (nell’ottobre), sancirono la formazione dell’Asse Roma-Berlino.
Nonostante tutto Vansittart a Londra e Drummond in Italia5, continuavano a sperare in un riavvicinamento con quel paese. Mussolini desiderava una pacificazione: l’indebolimento economico e militare successivo alla campagna etiopica, spingeva il Duce a cercare aiuti esterni. Dunque, anche se in ritardo, l’Inghilterra poteva ancora avere qualche speranza di esercitare una certa influenza su Roma. Quando il Duce avanzò la questione di un sistema di credito, Vansittart era convinto che si trattasse di un tentativo di riavvicinamento e che bisognasse elaborare un accordo basato sul vasto ambito economico e politico in Europa. L’argomentazione di Vansittart si basava sul fatto che l’Italia si sarebbe venduta al miglior offerente e dunque restava una via aperta verso la Germania. L’atteggiamento che il governo di Londra doveva tenere nei confronti di entrambi i dittatori era quello di concedere aiuti economici e finanziari nel caso avessero cambiato i loro propositi politici (Colvin 1965, 90). Vansittart sosteneva che la Gran Bretagna doveva cominciare a guardare avanti nella possibilità di un riaccostamento italiano nel 1937. Tale apertura avrebbe potuto portare all’allontanamento dell’Italia da una complicità estrema con la Germania. Se Mussolini avesse continuato a perorare l’idea di un sistema di credito, la Gran Bretagna avrebbe dovuto approfittarne a proprio vantaggio, cercando di ottenere ciò che voleva e rendere la possibilità di un accostamento alla Germania meno probabile. Vansittart si dichiarò inamovibile dalle sue posizioni, anche se separare i due dittatori era cosa sempre più delicata: i due avrebbero avuto sempre l’impulso a collaborare, non tanto per la vicinanza dei loro sistemi, ma per la somiglianza dei loro appetiti (Vansittart 1946, 46).
A fine novembre la Germania siglò il patto Anticomintern, con il Giappone6. Hitler creava dunque la base di collaborazione con la dittatura militare nipponica contro l’Urss e l’Internazionale Comunista creatasi a Mosca nel 1919.
In un memorandum segreto della fine del 1936 Vansittart riconosceva che Hitler e Mussolini erano ormai vicini all’unione delle loro forze, ma insisteva sul fatto che la Gran Bretagna dovesse prodigarsi a tenerli separati. Esistevano ancora delle differenze tra i due leader sull’Austria, Ungheria e sull’Europa sud-orientale e la sete di egemonia hitleriana avrebbe potuto spingere Mussolini verso una collaborazione con gli inglesi. Occorreva che la Gran Bretagna non disprezzasse il dittatore italiano, ma pregasse affinché egli potesse resistere, dal momento che rappresentava la migliore speranza inglese in un mondo di imperfezioni7. Le opportunità indicate da Vansittart rispecchiavano la sua cristallizzata mentalità anti-tedesca, poiché l’auspicata intesa anglo-italiana era e restava soltanto uno strumento contro la Germania8. Eden, invece, dopo il suo deludente viaggio a Roma, manteneva un malcelato rancore nei confronti di Mussolini, ritenendolo ancor meno fidato di Hitler in un’eventuale possibilità di intesa.
Baldwin, non potendo ancora fare affidamento su di un rinnovato potenziale bellico, proseguiva nella classica linea del lasciar fare, pur di tenere la Gran Bretagna fuori dalla guerra. “Vansittart definiva quella linea, “cunctabonda”, a indicare in sostanza un modo di fare segnato da inerzia, indugio e dilazione” (Middlemas 1972, 41). Si conservava dunque una tendenza all’accomodamento, sia nei confronti dell’Italia che della Germania.
Prevalse, seppur con scetticismo, l’idea di normalizzare, anzitutto, i rapporti con l’Italia nell’ottica di salvaguardare gli interessi britannici in tutta l’area del Mediterraneo. Il 2 gennaio 1937 Ciano e Drummond sottoscrissero un gentlement’s agreement che, “movendo dal presupposto della cessazione dell’intervento italiano in Spagna” (Di Nolfo 1994, 228), vincolava i due paesi a non modificare – mantenendo dunque lo status quo – i loro reciproci interessi in quell’area9. Presso il Gabinetto britannico, così come al Foreign Office, continuava il dibattito sull’opportunità di riconoscere o meno l’Impero etiopico e, al tempo stesso, l’esigenza di monitorare la politica tedesca e venire a patti con Hitler, pur di frenare la minaccia militare nel cuore dell’Europa.
Lord Lothian si incontrò con Hitler, Goering (ministro dell’Aviazione) e Schacht (ex presidente della Reichsbank e poi ministro dell’Economia) il 4 e 5 maggio 193710: egli informò il dittatore che il governo britannico desiderava giungere ad un accordo con la Germania. Lothian suggeriva una restituzione nel campo coloniale alla Germania ed una sfera di influenza in Europa. Nonostante il regime nazista avesse da poco rafforzato la sua posizione geostrategica con l’asse Roma-Berlino-Tokio, era necessario per la Gran Bretagna tenersi fuori da qualsiasi alleanza anti-tedesca: anzi occorreva dimostrare la volontà di non essere coinvolta in difesa delle frontiere orientali. Ciò suonava come una concessione alla Germania di poter assorbire l’Austria, la Cecoslovacchia e riconquistare Danzica e Memel. Ovviamente Vansittart si oppose a questa linea che, secondo lui, il Foreign Office non avrebbe mai accettato.
Il 28 maggio 1937 fu eletto Primo Ministro Neville Chamberlain, e Eden conservò per un po’ la carica di ministro degli Esteri. Nacquero subito attriti fra i due sulla doppia politica di normalizzazione da tenere nei confronti dei dittatori. Come ricorda Di Nolfo, “l’azione britannica moveva con crescente linearità verso l’appeasement nei confronti della Germania e moveva, con riluttanza legata alla personalità di Mussolini e al tema degli equilibri navali nel Mediterraneo, anche verso una normalizzazione nei confronti dell’Italia”(1994, 229).
Chamberlain “desiderava concedere a Mussolini il riconoscimento della conquista dell’Abissinia, come preludio a un generale accordo su tutte le esistenti divergenze ed era pronto a offrire a Hitler concessioni nel campo coloniale” (Churchill 1953, 272; Lamb 1998, 292). Non erano dello stesso avviso Eden e Vansittart, poiché, secondo loro, anche la concessione di alcune colonie non avrebbe mai saziato la fame di Hitler (Kershaw 2005, 213). Chamberlain, inoltre, a differenza del suo predecessore, considerava finalmente la necessità di prendere in esame un miglioramento degli armamenti britannici (226) ed anche una più stretta collaborazione con la Francia, sia nell’ambito politico che militare. Eden era ancora scettico11 sul riavvicinamento all’Italia, ma se questo andava per forza perseguito, occorreva che un eventuale accordo rientrasse in una sistemazione generale del Mediterraneo, tenesse conto della Spagna e potesse svilupparsi d’intento con la Francia. Tali divergenze si fecero più acute nell’autunno del 1937: ormai il feeling fra Chamberlain e l’Italia era ben evidente ed i continui rapporti con l’ambasciatore a Londra, Grandi, ne erano una conferma (Grandi 1985, 425-432). Il Primo Ministro iniziò a pensare che Eden e le sue ritrosie nei confronti degli approcci britannici con l’Italia, costituissero un freno alla politica di appeasement che il nuovo leader ormai aveva abbracciato. Eden criticava il Primo Ministro per l’eccessiva premura che stava dimostrando nell’avvicinarsi ai dittatori, in un momento in cui gli armamenti britannici non erano ancora stati potenziati (Churchill 1953, 273). Tuttavia, nell’ottica degli appeasers, proprio per il fatto che la Gran Bretagna doveva ancora completare l’opera di riarmo, occorreva migliorare i rapporti con la Germania e quindi sviluppare una serie di iniziative volte a pacificarla ed a definire i reciproci interessi e le distinte sfere di influenza (Kershaw 2005, 226). Giova ricordare, sempre sul tema degli armamenti, che nel maggio di quell’anno, gli Usa avevano varato il Neutrality Act, con il quale rinunciavano al loro diritto di commerciare con i paesi belligeranti. Ciò ovviamente rappresentava un duro colpo per Gran Bretagna e Francia, che non potevano contare sull’arrivo di rifornimenti adeguati in caso di conflitto in Europa. Le ansie di Eden erano ben comprese al Foreign Office, da Vansittart, tuttavia il ministro degli Esteri avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni (20 marzo 1938), quando ormai i rapporti con Chamberlain erano degenerati: non tanto per la linea di appeasement che il premier stava perpetuando, ma per le tensioni sui modi ed i tempi con cui stavano proseguendo le trattative con l’Italia. Egli fu sostituito da lord Halifax strenuo sostenitore della politica dell’appeasement ed il flirt con le dittature nazi-fasciste sarebbe proseguito ad oltranza. Un altro personaggio chiave in questa politica di ricerca a tutti costi del compromesso, era Henderson, nuovo ambasciatore12 a Berlino dall’11 maggio 1937. Acceso filo-tedesco, cominciò ad eludere i canali del Foreign Office, comunicando direttamente con il Gabinetto al fine di perseguire una politica di accordo con la Germania. Le indicazioni che Chamberlain gli dette furono ben chiare: battere possibilmente la strada della cooperazione con la Germania. Allo stesso tempo, anche Fisher e Wilson, personali consiglieri di Chamberlain, premevano per migliorare le relazioni amichevoli sia con l’Italia, che con la Germania.
Prima ancora della dipartita di Eden e l’arrivo di Halifax agli Esteri, la pedina, al Foreign Office, che poteva ancora infastidire l’operato del Gabinetto, era rappresentata da Vansittart (Eden 1962, 564). Egli era accusato di essere allarmista, di impedire qualsiasi tentativo di stringere rapporti amichevoli con i dittatori (questo era vero solo in parte, se si ricorda la sua attitudine, più volte dichiarata, ad attirare Mussolini verso Londra). Ricorda a proposito, Churchill: “Nessuno più di lui valutava o prevedeva l’espandersi del pericolo germanico e nessuno più di lui era pronto a subordinare ogni altra considerazione allo scopo di fronteggiarlo” (Churchill 1953, 271). Chamberlain non aveva mai avuto troppa fiducia in lui ed anche l’amicizia di Vansittart con Churchill era stato motivo di irritazione per il Primo Ministro: egli definiva Vansittart troppo anti-tedesco (Lamb 1985, 54). Alla fine del 1937 Vansittart fu chiamato da Eden che gli comunicò un previsto cambio di incarico: “il vecchio uomo vuole vederti al numero 10. Ha una proposta da farti. Non so se ti piacerà o meno” (citato da Colvin,1965, 169). Il primo gennaio 1938 il posto di Vansittart come sottosegretario permanente al Foreign Office, fu preso da Cadogan, ex Consigliere alla Sdn e persona sicuramente più vicina alla linea governativa. A “Van” fu proposta la carica di ambasciatore a Parigi, ma egli rifiutò e dunque gli fu affidata una carica di secondo piano, come Consigliere diplomatico in capo del governo di sua Maestà. Era ovviamente un declassamento di Vansittart, il quale comunque accettò questa posizione di isolamento che avrebbe ricoperto fino al 1941.
Nel frattempo, mentre la Gran Bretagna si barcamenava nella sua politica di normalizzazione nei rapporti con i dittatori e la Francia manteneva a tal proposito una evidente inerzia, Hitler progettava con ambizione e determinazione (dettata proprio dalle vacillanti politiche delle Democrazie) i suoi propositi di espansionismo in Europa. Nella conferenza segreta del 5 novembre 1937, il dittatore spiegò per la prima volta ad una stretta cerchia di collaboratori i suoi piani di politica estera tesi a provocare una guerra d’aggressione ad est. Dal “protocollo Hossbach”13 emerse con chiarezza l’obiettivo principale di Hitler: la ricerca di uno spazio vitale (lebensraum) con l’annessione dell’Austria, la conquista della Cecoslovacchia, della Polonia per poi spingersi verso l’odiata Urss. Tale programma avrebbe garantito il vero scopo finale dell’allucinante programma hitleriano: la salvaguardia e moltiplicazione della razza ariana. Le Democrazie avevano ottenuto tramite i loro ambasciatori, varie informazioni sulle ambizioni di conquista hitleriane, ma non certamente conoscevano il contenuto complessivo del piano esposto dal Führer in quella conferenza segreta.
Tuttavia, alcuni personaggi del movimento di resistenza antinazista che si stava organizzando in Germania, con Goerdeler14 ed uno sparuto gruppo di ufficiali, vennero in contatto proprio con Vansittart, esponendo al sottosegretario permanente i propositi bellicosi del dittatore. Von Kleist, membro del partito conservatore tedesco, da sempre un oppositore di Hitler, fu incaricato dal colonnello Oster, di sondare i circoli di Londra, affinché dessero ascolto alle voci dell’opposizione antihitleriana che covava, fra mille difficoltà logistiche, all’interno della Germania. Il 18 agosto 1938, Von Kleist riferì15 con chiarezza la decisione di Hitler di occupare la Cecoslovacchia e dunque l’esistenza dell’imminente pericolo di una guerra europea. Un deciso atteggiamento britannico (ed anche francese) avrebbe messo in guardia la Germania circa le conseguenze di una sua aggressione, dato impulso all’opposizione interna e permesso di realizzare i piani per il sovvertimento del regime hitleriano. Vansittart prese coscienza delle parole del suo interlocutore: erano la conferma delle sue ansie sulla pericolosità tedesca che da tempo aveva comunicato all’establishment governativo britannico. Anche Churchill “che era ancora un profeta nel deserto politico della Gran Bretagna” (Shirer 1984, 416) ebbe l’opportunità di incontrare Von Kleist il giorno successivo. Il futuro Primo Ministro gli consegnò una lettera da far recapitare ai congiurati per rincuorarli nella loro azione (Wheeler-Bennett 1967, 379). Vansittart riferì a Chamberlain ed Halifax. Questi ultimi erano già al corrente delle intenzioni bellicose di Hitler: era stato Henderson a comunicarle16 ad Halifax in quello stesso mese, ma, vista la politica che il governo stava perseguendo, non avevano suscitato forti preoccupazioni. Chamberlain dette istruzioni all’ambasciatore su due punti: “primo, doveva trasmettere un serio monito a Hitler e, secondo, doveva preparare segretamente un contatto personale fra lui stesso, Chamberlain, e il Führer. Secondo la sua versione, Henderson persuase il primo ministro a lasciar cadere il primo punto. Quanto al secondo, Henderson era fin troppo contento di cercare di combinare la cosa” (Shirer 1984, 417; Henderson 1940, 147-150). Altri emissari vollero, in seguito, incontrare Vansittart ed egli fu sempre disponibile. Tuttavia essi si facevano portatori di ambiziose richieste nazionali, dopo l’eventuale uscita di scena di Hitler. E dunque il Foreign Office non prese in seria considerazione quegli appelli perché non avrebbe mai permesso, anche ad una Germania non più hitleriana, la realizzazione di geometrie territoriali che avessero inficiato i propri interessi (Casini 2002, 126). Vansittart era certamente la chiara dimostrazione che in Inghilterra c’erano personalità anti-appeasement che volevano eliminare lo spauracchio tedesco non solo come fattore politico e militare, ma anche economico (Rauschning 1951, 37). Tuttavia la sua avversione al nazismo ed ai tedeschi, non presupponeva che egli sarebbe divenuto amico della fronda resistenziale. Anche se appariva il personaggio più accessibile per gli oppositori, egli divenne il peggior interlocutore di questi ultimi, poiché il suo atteggiamento aspramente anti-tedesco (Lukacs 2001,159) lo avrebbe spinto ad intraprendere, in seguito, una linea d’azione rigorosa nei confronti di tutti i tedeschi, senza giungere a compromessi e badando alla sola distruzione della Germania.
Ma torniamo al 1937. Prima ancora che Vansittart cedesse il proprio posto di sottosegretario permanente del Foreign Office a Cadogan, Chamberlain dette prova della premura di venire a patti con Hitler: “non vedo – egli diceva – perché non dovremmo dire alla Germania: dacci una soddisfacente assicurazione che non userai la forza nei confronti degli austriaci e dei cecoslovacchi e noi ti daremo un’assicurazione simile sul fatto che non useremo la forza per impedire i cambiamenti che richiedi, se li raggiungerai in maniera pacifica” (citato da Colvin 1965, 156). Anche i francesi, con il presidente del Consiglio Chautemps e con il ministro delle Finanze Bonnet, riferivano di orientare la loro politica verso la discussione: sembravano non aver alcunché da obiettare su di un’influenza tedesca in Austria e Cecoslovacchia seppur, in quest’ultimo caso, sulla base di una riorganizzazione del paese in una nazione di nazionalità. Nello stesso mese, il 19 novembre, l’allora lord del Sigillo Privato, lord Halifax, incontrò Hitler a Berchtsgaden, elogiò la Germania nazista in quanto baluardo contro il comunismo e mostrò simpatia per le rivendicazioni territoriali tedesche, fino ad accennare a specifiche questioni come quella di Danzica, dell’Austria e dei Sudeti che potevano essere risolte a favore della Germania attraverso una pacifica evoluzione e con metodi che non causassero perturbazioni di larga portata17. Le parole di Halifax erano evidentemente un “invito rivolto ad Hitler perché promuovesse agitazioni nazionalistiche a Danzica, in Cecolsovacchia ed in Austria, nonché un’assicurazione che tali agitazioni non sarebbero state contrastate all’esterno” (Taylor 1965, 189).
Infatti, il 12 marzo 1938 le truppe tedesche entravano in Austria senza colpo ferire e senza trovare alcun tipo di resistenza. L’appeasement britannico sarebbe proseguito anche dinanzi alle successive rivendicazioni hitleriane rivolte ora verso la Cecoslovacchia e, nello specifico, al territorio dei Sudeti. Al contempo, Chamberlain ed Halifax (ora capo del Foreign Office) continuavano a perseguire parallelamente, la linea di normalizzazione nei rapporti con l’Italia (accordi di Pasqua, 16 aprile 1938). Nei confronti delle mire espansionistiche tedesche il governo britannico non poteva imporre all’Impero l’onere di una qualsiasi garanzia per la conservazione della Cecoslovacchia. Anzi, la missione di lord Runcinam a Praga (3 agosto 1938), per incontrare il ministro degli Esteri Benes, servì non tanto a dare rassicurazioni ai cecoslovacchi, ma a spianare la strada fra il governo ceco e Berlino affinché il territorio dei Sudeti (abitato da popolazione tedesca) fosse pacificamente ricondotto al Terzo Reich. Nei successivi incontri di Chamberlain con Hitler, a Berchtesgaden e a Bad Godesberg (settembre 1938), il Primo Ministro inglese si adeguò alle richieste del dittatore: la Cecoslovacchia veniva così lasciata al suo destino. Tuttavia era necessario passare attraverso un riconoscimento formale di quella ennesima concessione fatta ad Hitler, in modo che la soluzione della vicenda dei Sudeti apparisse come l’unico modo per salvare la pace in Europa. L’incontro di Monaco (30 settembre 1938) autorizzò la cessione di quel territorio ad Hitler, fu il prezzo da pagare per cedere al ricatto e segnò pure l’inizio di un progressivo sgretolamento dell’intera Cecoslovacchia. Quella conferenza segnò l’atto più clamoroso della politica di appeasement (Taylor 1966; Wheeler-Bennett 1948). Vansittart seguiva adesso, dalla sua posizione defilata, l’evolversi degli eventi da lui già profetizzati anni prima. Ed era umiliante per “Van” verificare quanto la politica dell’appeasement, da lui osteggiata, stesse portando alla deriva la politica britannica. Al di là delle considerazioni personali dell’ex sottosegretario permanente, le Democrazie dovettero necessariamente porre un correttivo all’inerzia che aveva caratterizzato le loro scelte e procedere alla revisione delle precedenti posizioni (Di Nolfo 1994, 268). I governi di Londra e Parigi erano ben informati, fin dai giorni successivi al patto di Monaco, sui preparativi hitleriani per la quarta spartizione della Polonia; così come erano già stati allertati su di una probabile trattativa fra Mosca e Berlino (tramite i servizi segreti ed anche grazie alle informazioni dell’ambasciatore britannico a Mosca, Seeds e del corrispondente da Berlino del “News Chronicle”,Colvin).
Il 31 marzo 1939 Chamberlain rese pubblica la decisione di offrire alla Polonia una garanzia unilaterale in caso di aggressione nazista: il 13 aprile tale garanzia fu estesa a Grecia e Romania. Bonnet, ministro degli Esteri francese e fautore dell’appeasement, si associò al nuovo corso inglese. Chamberlain, in cuor suo, dubitava ancora che Gran Bretagna e Francia potessero salvare l’est europeo dal predominio tedesco e sperava ancora di poter frenare Hitler. Al tempo stesso non poteva ignorare il mutato umore della opinione pubblica e si trovò costretto ad annunciare una politica di resistenza. Non significava prepararsi ad una guerra, ma evitare che la Polonia passasse dalla parte dei tedeschi e minacciare Hitler con la costruzione di un secondo fronte anglo-francese, come del resto, era accaduto nel primo conflitto mondiale. Se le Democrazie non fossero riuscite in questo intento, restava l’opzione di stabilire contatti con l’Urss. Era una pista di riserva, tenuta in second’ordine anche per la malcelata avversione di Chamberlain al comunismo, ma pur perseguibile (Duce 2009, 200-201). Ecco allora che “per tutto l’inizio dell’estate 1939 Chamberlain continuò a giocare con l’Urss, abbastanza, a parer suo, per dissuadere Hitler dal fare la guerra, ma non tanto da impegnare l’Inghilterra in un’alleanza con i russi” (Taylor 1966, 73). Questi ultimi, tramite il commissario agli Esteri Litvinov, facevano intravedere la buona predisposizione a flirtare: ma era soltanto un metodo per guadagnare tempo e portare avanti medesime trattative con la Germania, aspettando poi che una delle parti facesse l’offerta più vantaggiosa.
Dopo alcune conversazioni preliminari fra le delegazioni russa e tedesca si giunse alla definitiva firma del patto Ribbentrop-Molotov, il 23 agosto 1939. Hitler superava così i leader occidentali nella lotta per accaparrarsi l’adesione di Mosca: sotto l’ombrello di un trattato di non aggressione, si parlava di risoluzione pacifica delle controversie; in caso di aggressione da parte di potenza terza sia l’Urss che la Germania dovevano mantenersi neutrali. Ma la cosa più importante è che Hitler offriva metà del territorio polacco a Stalin, assicurandosi che l’Urss rimanesse neutrale in caso di conflitto fra tedeschi e occidentali.
Il patto fu un umiliante schiaffo in faccia alla Gran Bretagna e alla Francia. Quella repentina svolta nelle relazioni politiche internazionali provocò indubbie ripercussioni in Europa: negli ultimi giorni di pace il lavorio diplomatico non produsse alcun risultato. Vani e disperati apparvero i tentativi di colloquio con Hitler intrapresi da Henderson (Henderson 1940) e dell’ambasciatore francese, Coulondre, a Berlino.
La mattina del 1 settembre 1939, come Hitler aveva ordinato, le truppe tedesche varcarono il confine polacco mentre le divisioni sovietiche invadevano il paese da est: il patto Ribbentrop-Molotov era entrato in funzione. Le Democrazie, dopo essere state paralizzate da quell’accordo, furono costrette ad accettare l’apertura delle ostilità: infatti il 3 settembre Gran Bretagna e Francia dichiararono guerra alla Germania. L’Italia, non ancora pronta militarmente ad intervenire a fianco della Germania, osservò la cosiddetta ”non-belligeranza”. La guerra preparata a lungo da Hitler ed iniziata nel territorio polacco, segnò la prima fase del secondo conflitto mondiale. Si apriva un periodo drammatico nel quale ben poco spazio ci sarebbe stato per la diplomazia, la quale inevitabilmente cedeva il passo al fuoco delle armi ed alle strategie belliche.
Quando il 10 maggio 1940 Churchill divenne Primo Ministro (Lukacs 2001) le truppe tedesche erano già entrate in Danimarca e Norvegia e la blitzkrieg sarebbe continuata a spese del Belgio, Olanda e Lussemburgo. Poi, nel giugno anche la Francia soccombeva. Un diluvio di eventi stava colpendo l’Europa e la Gran Bretagna si trovava da sola a combattere contro la spietata macchina da guerra tedesca. Hitler era certo che il governo inglese si stesse preparando ad un negoziato. Si vantava di conoscere abbastanza bene gli inglesi: si era incontrato nel recente passato con Chamberlain ed Halifax ed aveva colto l’attitudine di gran parte dell’establishment britannico a non abbandonare del tutto la politica dell’appeasement che aveva, di fatto, propiziato i suoi successi. Uomini come Vansittart, avevano ben poco influito sulla politica ufficiale britannica ed erano stati accantonati in posizioni di secondo piano (in realtà le idee di Vansittart avrebbero ben presto indirizzato il governo verso una netta opposizione al nazismo). Tuttavia il dittatore non aveva fatto i conti con le attitudini del nuovo Primo Ministro inglese. I vari contatti con Londra avevano prodotto ed avrebbero continuato a produrre risultati negativi: gli inglesi del nuovo corso churchilliano non avevano alcuna intenzione di mollare e tutto ciò smontava lo scenario che Hitler si era costruito. Già il 28 maggio, dopo quattro giorni di estenuanti discussioni (47) al Gabinetto di Guerra, il Primo Ministro riuscì ad imporre la sua posizione (Churchill 1949, 95; Dilks 2012), dichiarando che la Gran Bretagna avrebbe continuato a lottare qualsiasi cosa fosse accaduta e che nessuna trattativa sarebbe stata aperta con la Germania. Il nuovo premier, sostenuto da pochi altri uomini politici, sapeva di poter contare sull’ottima forza navale e sulla flotta aerea che si sarebbe potenziata proprio in quegli anni. Furono il coraggio e la determinazione di Churchill ad ispirare quel pugno di uomini che nella Battaglia di Inghilterra (estate-autunno 1940) avrebbero fronteggiato gli aerei della Lutwaffe e salvato la supremazia inglese nei cieli. Lo stesso coraggio si sarebbe poi diffuso dai microfoni della Bbc toccando il cuore della gente e compattandola intorno al governo come mai era accaduto in passato.
L’attacco tedesco all’Urss (operazione Barbarossa, giugno 1941) costituì un elemento di svolta nella guerra europea e portò ad un ribaltamento delle alleanze. In Inghilterra fece sorgere sentimenti nuovi e non certo magnanimi nei confronti della Germania. Quel mutamento di pensiero fu in parte provocato dalla pubblicazione, nei primi mesi del 1941, del saggio di Vansittart “Black Record”18 (Vansittart 1941). Esso enunciava in maniera netta ed inequivocabile le nuove linee che la politica britannica doveva seguire nei confronti della Germania: “il tedesco è stato ed è e lo sarà anche per l’avvenire, l’aggressore, l’incubo che pesa sulle nazioni amanti della pace e deve essere tolto di mezzo se si vuole che il mondo abbia pace e tranquillità” (citato da Rauschning 1951, 36). Era una posizione con indubbie venature razzistiche che traeva spunto dalla diffusa concezione (tipica dei paesi anglosassoni) che il popolo tedesco fosse afflitto da una preoccupante malattia spirituale (Richter 1945, 141). Questa concezione poggiava sull’assunto che un popolo che aveva accettato i principi dell’autorità e della guerra non poteva che essere pazzo. Si trattava di una teorizzazione estremista, quella relativa ad un germanesimo eterno che poteva e doveva essere debellato solo con la forza: da qui lo slogan”il miglior tedesco è il tedesco morto”. Vansittart continuò a sostenere le proprie idee in maniera sistematica. Nel successivo volume, “Lessons of my Life” (tradotto in italiano nel 1946, “Insegnamenti della mia vita”) espose con chiarezza il concetto di vansittartismo (come fu di moda chiamarlo in quegli anni, dai suoi delatori), evidenziando sempre più la necessità di disarmare la Germania e rieducare la nazione tedesca (Vansittart 1946, 23).
Le pubblicazioni di Vansittart dettero vita ad un intenso dibattito in Inghilterra19, fra i fautori di una “pace dura o di una pace morbida” (Jaeger 1957, 5). La sua propaganda, ora diventata più esplicita proprio per il ruolo defilato che stava ricoprendo al Foreign Office, era in evidente polemica con quanti perpetuavano ad oltranza le idee di Chamberlain ed Halifax. Ancora c’era chi pensava ad una riconciliazione con la Germania, contando sull’impegno dei democratici e delle forze socialiste, dei buoni tedeschi insomma. Da questi nostalgici appeasers, Vansittart veniva accusato di vero e proprio razzismo capovolto (Rendi 1974, 73-74). Singolare, invece, fu l’atteggiamento degli esiliati tedeschi in Inghilterra, che nella clandestinità stavano lottando contro il regime hitleriano ed erano in vario modo collegati con le frange dell’opposizione anti-nazsita in Germania. Molti di essi mostrarono disprezzo per Vansittart; altri sostennero le tesi del consigliere diplomatico, negando che esistesse una vera resistenza nella loro madrepatria. Con questi esuli (ad esempio i socialdemocratici Loeb e Seyer) Vansittart mantenne rapporti di amicizia, ma la sua linea generale fu quella di non abbracciare la loro causa, così come quella dei vari emissari della resistenza che di volta in volta lo contattavano. Ecco perché Vansittart non riconobbe mai il Free German Movement, la filiale estera della resistenza tedesca e questo fu anche la posizione ufficiale del Foreign Office in quegli anni. La politica britannica nei confronti dei gruppi di opposizione al nazismo fu quella dell’absolute silence (Casini 2002, 174). Prima Roberts (funzionario del FO ed ex press-attaché alla legazione di Stoccolma) e poi Eden lo ribadirono20, a dimostrazione che, almeno fino alla sconfitta della Germania, ben pochi distinguo di responsabilità si potevano fare fra i tedeschi ed i tiranni che stavano sopra di loro: insomma non c’erano tedeschi buoni. Adesso Churchill ed anche Eden (che negli anni precedenti aveva talvolta criticato Vansittart per il suo esagerato odio verso la Germania), seguivano l’enfasi vansittartiana, divenendo assieme ad altre autorevoli personalità (soprattutto nell’ambito della propaganda psicologica e di guerra) i principali sostenitori della teorizzazione estremista partorita da “Van”. Ci furono, però, alcune personalità della sinistra che deprecarono il vansittartismo, poiché nel viscerale odio per la Germania, colpiva anche quelle classi lavoratrici tedesche che nulla avevano a che fare con le crudeltà ed i crimini del nazismo. Inoltre l’organizzazione anti-tedesca “Never again” (divenuta successivamente “Face the Facts”) operante a Londra e che riuniva personalità di vario orientamento politico, criticò l’operato di Vansittart escludendolo dal partecipare ai propri incontri. L’organizzazione perseguiva lo scopo dell’abbattimento e del disarmo di quel paese e lottava contro ogni tipo di infiltrazione tedesca in Gran Bretagna. In una lettera del maggio 194421 indirizzata al primo Ministro, la presidente, Eleonora Tennant, accusava Vansittart di svolgere non tanto, come egli dichiarava, un’azione anti-tedesca, quanto di collaborare pericolosamente con alcuni esuli tedeschi a Londra, in primo luogo col socialdemocratico Loeb.
Tuttavia dal 1941 le direttrici del vansittartismo divennero le linee guida della politica britannica nei confronti della Germania. Con il prosieguo della guerra gli Alleati seguirono il principio dell’unconditional surrender stabilito a Casablanca: essi non potevano abbandonare lo scopo più volte dichiarato di abbattere il militarismo tedesco: nessun ostacolo doveva frapporsi al raggiungimento di quell’obiettivo. La realizzazione di una pace separata con un incognito governo di rivoltosi (che di fatto fallirono, il 20 luglio 1944, la loro congiura contro Hitler) avrebbe costituito invece un vero e proprio ostacolo. Se i governi alleati avessero ceduto alle pressioni degli antinazisti ed avessero stipulato una pace negoziata con una nuova Germania, non ci sarebbe stata la resa incondizionata e la Wehrmacht non avrebbe formalmente ammesso la propria incondizionata sconfitta. Gli Alleati furono dunque determinati nel perseguire la vittoria e nell’imporre quella umiliazione che doveva colpire i resistenti come tutta la popolazione tedesca, abbietta e irragionevolmente devota ad Hitler (Casini 2002, 352). Fu insomma la politica di chi ragionava in termini di guerra totale, ma anche sotto l’influsso di un’immagine oramai consacrata, quella dell’eterno tedesco, del bacillo da estirpare. Nel 1944 Vansittart realizzò un programma per l’annientamento della Germania. Nei punti del suo programma dichiarava che la Germania doveva essere disarmata per sempre, i tedeschi sottoposti ad un lungo periodo di prova e di rieducazione. Dopo la sconfitta doveva essere imposto un armistizio con relativa occupazione militare alleata per un periodo di venti o trenta anni: la Germania doveva essere tenuta sotto un pugno di ferro finché la nuova generazione fosse pronta ad agire da sola.Tale programma avrebbe ispirato quello successivo del ministro del Tesoro americano, Morgenthau (agosto 1944), per l’annientamento degli impianti industriali tedeschi ed un ritorno dell’economia ad uno stadio di predominio dell’attività agricola. Tale programma fu saggiamente respinto dal Dipartimento di Stato americano e fu sostituito da una direttiva del Joint Chiefs of Staff, rigida ma costruttiva rispetto alla rinascita di una Germania democratica: Roosevelt non voleva certamente ripercorrere l’infelice strada imboccata nel 1919 con il trattato di Versailles. Tuttavia, negli anni a seguire, le idee di Vansittart e Morgenthau avrebbero perpetuato il loro appeal: basti pensare alle parole del generale Eisenhower, quando nel 1947 identificò la popolazione tedesca come synthetic paranoid.
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- Cfr DBFP, serie 2, Vol.XV, doc. 355, pp.449-450. [↩]
- Cfr NA, CAB 24/260, 11 february 1936. [↩]
- Cfr DGFP, serie C. Vol. IV, doc. 485, p. 975. [↩]
- Cfr DBFP, serie 2, Vol.XVI, allegato al doc. 42, pp. 51-55. [↩]
- Cfr NA FO 954/13 Drummond to Vansittart 2 July 1937. [↩]
- Al quale avrebbero poi aderito l’Italia nel 1937 e la Spagna nel 1939. [↩]
- Cfr. NA, FO 371/20467, Memorandum, Sir Vansittart, “The World Situation and British Rearmament”, 16 december 1936. [↩]
- Si veda Documenti Diplomatici Italiani (Ddi) ottava serie 1935-39, vol. VII, n. 57, Grandi a Ciano (2 luglio 1937). [↩]
- Il governo britannico temeva soprattutto che Franco avesse ceduto agli italiani che lo stavano aiutando nella guerra civile in corso, alcune basi nelle isole Baleari. [↩]
- Cfr. DBFP, serie 2, Vol. XVIII, doc. 480, pp. 727-731. [↩]
- Cfr NA FO 954/13 Eden to Chamberlain 24 July 1937. [↩]
- Ironia della sorte, fu proprio Vansittart a raccomandare Henderson a Eden, come nuovo ambasciatore a Berlino. Se ne sarebbe poi pentito amaramente (Vansittart 1958, 360). [↩]
- Il resoconto della seduta fu steso dal colonnello Hossbach (da qui il nome della riunione segreta) cinque giorni dopo la conferenza in base ai suoi appunti. Venne poi utilizzato, in sede di processo, a Norimberga (24 novembre 1945), dall’Accusa americana per dimostrare la preterintenzionalità della politica aggressiva e razziale hitleriana. [↩]
- L’ex borgomastro di Lipsia, che Vansittart aveva incontrato nell’estate 1937, era considerato dal sottosegretario permanente il solo autentico cospiratore tedesco contro Hitler (Vansittart 1958, 512). [↩]
- Cfr DBFP, serie 3, Vol.II, Appendice IV, Note of a conversation between Sir R.Vansittart and Herr Von Kleist (18 august 1938) pp. 683-686. [↩]
- Cfr Ibidem, Vol.II, n.631, Sir Henderson to Viscount Halifax (17 august 1938), p. 101; n. 658, Sir Henderson to Viscount Halifax (21 august 1938), p. 125. [↩]
- Cfr DBFP, serie 2, vol. XIX, n.336, Account by lord Halifax on his visit on Germany (17-21 november 1937), pp.540-555; n.337, Sir H.Henderson (Berlin) to Mr. Eden (22 november 1937), pp. 553-556. [↩]
- Il pamphlet riassumeva il contenuto di alcune trasmissioni radiofoniche condotte dallo stesso Vansittart, che la BBC (programmi per la Germania) aveva trasmesso fra il novembre e il dicembre 1940. [↩]
- Soprattutto in relazione alla pubblicazione di “Black Record”, Vansittart trovò ancora delle resistenze all’interno del Foreign Office. Cfr. NA, FO 954/7B, Difficulties caused by the FO in respect of the publication of his memoirs (1941). [↩]
- Cfr NA FO 371/26559, Minute from Mr. Roberts (24 march 1941). [↩]
- Cfr. NA FO 371/39158 (1944). [↩]