Un vecchio adagio, cristallizzato dall’arguta penna di Giuseppe Prezzolini, ci rammenta che “in Italia nulla è stabile fuorché il provvisorio”. Il prezioso volume di Martone – docente di storia del diritto presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” – restituisce in modo vivido il sentimento di questa intrinseca precarietà dei sistemi e delle istituzioni nostrane trattando dell’esperienza coloniale italiana.
Nel tracciare una ricostruzione del quadro giuridico che caratterizza le iniziative italiane nei territori d’oltremare, l’Autore ricorda come il sistema coloniale – inteso nella sua storicità – fosse il frutto imperfetto della ricerca di un equilibrio precario tra l’esigenza sistematica di porre, attraverso l’emanazione di un corpus normativo unitario, un insieme di regole rispondente ai principi del diritto italiano e, d’altro canto, la necessità di restituire – sul piano pratico e applicativo – tutta la specificità del sostrato sociale, culturale e giuridico dei popoli sottoposti.
Si trattava, dunque, di introdurre nei Paesi assoggettati un’impalcatura giuridica che, nell’affermare la supremazia italica sulle genti colonizzate, potesse dotare l’ordinamento coloniale di strumenti tali da consentire, da parte dell’amministrazione coloniale italiana, un durevole controllo dei territori occupati.
La ricostruzione svolta – che non si esaurisce nell’enunciazione di istituti giuridici, ma ricomprende opportunamente elementi delle correnti ideologiche e gius-filosofiche allora dominanti – si dipana intorno a figure storiche di rilievo nell’ambito degli studi giuridici, incentrandosi in particolare sull’apporto di Ferdinando Martini (1841-1928), Mariano D’Amelio (1871-1943) e Giuseppe Salvago Raggi (1866-1946), nonché sul ruolo fondamentale ricoperto dalla vasta e disordinata congerie di funzionari amministrativi e giudici togati trovatisi, sovente in condizioni di dubbio ordine normativo, ad amministrare la giustizia nei territori d’oltremare.
Il testo di Martone offre una lucida e disincantata analisi dell’oscillazione sistematica che caratterizza l’esperienza coloniale italiana nella scelta tra una generale e più o meno indiscriminata estensione dei codici vigenti nella madrepatria e la necessità di attribuire l’attitudine di vera e propria fonte del diritto alla prassi giurisprudenziale cristallizzatasi negli anni nell’ambito degli uffici amministrativo-giudiziari delle colonie.
L’Autore mostra come il dilemma giuridico sia stato sciolto in diversi modi, con una buona dose di asistematico pragmatismo, a seconda del grado di “assimilabilità” dei diritti locali rispetto al modello codicistico vigente nel territorio metropolitano, sulla scorta delle caratteristiche di specialità del diritto coloniale italiano rispetto all’ordinamento della madrepatria.
Se nel caso dell’Eritrea – la “colonia primogenita” – l’esigenza sistematica fu limitata dalla parcellizzazione delle consuetudini e dei costumi della popolazione, conducendosi la progressiva affermazione dei principi del diritto italiano attraverso l’opera “uniformatrice” della giurisprudenza, in altri e più congeniali contesti – come quello libico – l’adattamento della normativa italiana poté impiantarsi sulla base di precedenti esperienze giuridiche di rilievo, avendo tale territorio conosciuto, sotto la dominazione ottomana, un grado di coesione sociale e di “civiltà giuridica” tale da consentire – in forza di una non semplice opera di modellazione dell’ordinamento patrio – una più capillare trasmigrazione nei territori della colonia della sistemazione giuridica nazionale.
Nell’implementazione dell’assetto giuridico d’oltremare, particolare importanza è assunta dal diritto penale, quale strumento principe volto al mantenimento della sicurezza e dell’ordine pubblico nelle colonie. La concezione duale del diritto, consistente nell’imporre distinte discipline sostanziali e processuali a seconda del soggetto (italiano o indigeno) da giudicare, rende ragione dell’asimmetria del sistema giuridico coloniale nel suo complesso.
Oltre al quadro giuridico di riferimento, che si dimostra, nei confronti dei sudditi coloniali, iniquo e in genere privo delle garanzie che caratterizzano il sistema penale costruito dagli italiani e per gli italiani (seppur con non trascurabili differenziazioni tra le esperienze del Corno d’Africa e il caso libico), il volume affronta il tema della scarsa preparazione culturale dei residenti italiani e degli stessi magistrati togati; a tale riguardo, l’Autore ricorda come la questione dell’adeguata formazione giuridica e linguistica, correlata alla necessità di una corretta percezione del rapporto tra disciplina giuridica e religione, sia stata ampiamente dibattuta tra gli operatori del diritto nei primi decenni del XX Secolo.
Muovendo da questi presupposti, il testo procede offrendo un vasto e tragicomico campionario della “cultura della disuguaglianza”, attraverso un’analisi del sistema sanzionatorio penale e processualistico in uso nel diritto coloniale, evidenziandone i tratti di discontinuità con il diritto penale e processuale penale della madrepatria e la commistione – molto spesso fraintesa dagli stessi operatori del diritto – tra fonti coloniali e fonti “indigene”, consuetudinarie o scritte (queste ultime essenzialmente concentrate nel diritto penale musulmano). Attraverso una rassegna casistica, l’Autore dimostra come l’assenza di un sistema giuridico certo e di un ceto di giuristi adeguatamente informato delle caratteristiche giuridiche e culturali dei territori d’oltremare abbia comportato un ampliamento del margine di discrezionalità affidato al giudice e, quindi, abbia condotto all’emersione di un sistema giuridico ed ermeneutico che – nel suo complesso – è “altro” dal diritto della madrepatria.
Lo scarso interesse scientifico dimostrato nella madrepatria per la sistematizzazione del diritto coloniale, unito all’endemico disordine delle fonti e alla carenza di repertori giurisprudenziali concernenti le decisioni emanate dai giudici d’oltremare, testimoniano il latente senso d’inferiorità della giustizia coloniale rispetto al modello italiano. Paradossalmente, nonostante fossero passati decenni dalle prime conquiste territoriali africane, è soltanto con la proclamazione dell’Impero, nel 1936, che s’impone nell’agenda politico-amministrativa del Regno d’Italia la necessità di esplicitare – accentuandone il carattere razziale – una struttura ordinamentale che rechi il segno della superiorità della dominazione italiana di là del mare.
Il volume si conclude, dando conto degli ultimi fuochi sistematici prebellici, con la ricostruzione del ruolo consultivo svolto dalla VI Sezione del Consiglio di Stato tra il 1939 e il 1948 per la composizione degli affari coloniali.
La pregevole e leggibilissima opera di Martone interviene su una pagina della nostra storia che per troppo tempo – complici il pudore, la nostalgia o l’ignoranza – è passata sotto silenzio nell’ambito del dibattito politico e dell’opinione pubblica. Questo lavoro, che attraverso una lucida analisi degli istituti giuridici come instrumentum imperii pone il lettore italiano di fronte alla necessità di interrogarsi sull’eredità del proprio passato, contribuendo così a ricostruire una storia scomoda e complicata che, tuttavia, è anche la nostra.