L’Ucraina e la “nuova spartizione” dell’Europa nel ventunesimo secolo

di Patrizia Fazzi

Abstract

Il saggio prende in esame la crisi ucraina contemporanea, ripercorrendo del passato solo le tappe che risultano fondamentali per comprendere la sua complessità. Da sempre spazio di frontiera tra l’Europa e la Russia, condizionato dalla sua composizione multietnica e plurilingui, l’Ucraina ha radicalizzato lo scontro interno tra schieramenti contrapposti. Questa frattura tuttavia non può essere considerata l’unica chiave di lettura dei principali avvenimenti interni del periodo post-sovietico: dalla rivoluzione arancione alle guerre del gas, dall’Euromaidan ai conflitti nel Donbass, in considerazione delle diverse storie che si sono incontrate, scontrate, intrecciate. Il contesto regionale è il primo passo per valutare le posizioni assunte da vecchie e nuove potenze emergenti nello scacchiere internazionale, in una prospettiva in cui prevalgono le élite economiche e l’accentuata personalizzazione politica. E sciogliere i nodi di questioni tuttora irrisolte nella cristallizzazione della crisi vuol dire, per l’Ucraina, salvaguardare la sua unità nazionale, trovando la giusta sintesi nelle diversità che formano il suo tessuto, oppure aprire la strada alla balcanizzazione del paese con conseguenze difficilmente controllabili.

Abstract english

The paper studies the contemporary Ukrainian crisis, retracing only the steps of the past that are fundamental to understand its complexity. Always border area between Europe and Russia, conditioned by its multiethnic and multilingual components, Ukraine has radicalized the internal clash between opposing sides. However this split can not be considered the only key to understanding the main internal events of the post-Soviet period: from the Orange Revolution to the gas wars, from the Euromaidan to the conflicts in Donbass, given the different stories encountered, clashed, intertwined. The regional context is the first step to evaluate the positions taken by old and new emerging powers in the international arena, in perspective which is dominated by economic elites and pronounced customization policy. Untie the knots of issues still unresolved in the crystallization of the crisis means, for Ukraine, safeguarding its national unity, finding the right synthesis in diversity that make up its fabric, or open the way for the balkanization of the country with consequences difficult to control.

Introduzione

L’Ucraina occupa un vasto spazio di frontiera, un territorio plurinazionale tra i più estesi d’Europa, che si colloca tra l’Occidente e la Federazione russa. La sua estensione geografica, dalla Galizia alla Rutenia subcarpatica, territori legati all’antica tradizione dell’impero austriaco, sino al Donbass e alla Crimea, regioni di tradizione russa, fa sì che l’area si contraddistingua più per le profonde fratture che per le affinità. Nell’Est russofono, la maggioranza della popolazione è vicina alle antiche tradizioni storiche, religiose e culturali moscovite; viceversa, le regioni occidentali del paese sono tendenzialmente più nazionaliste, ucrainofone e vicine alla Chiesa greco-cattolica.

Una nazione ricca di risorse naturali: le regioni più orientali abbondano di giacimenti di carbone e di ferro, attorno ai quali da oltre un secolo si è sviluppato il Donbass1, l’area più industrializzata, mentre l’agricoltura si avvantaggia dei vasti spazi pianeggianti e della fertilità delle “terre nere”. Vi sono poi giacimenti di uranio, di manganese, di lignite, di zolfo, a cui si aggiungono riserve non ancora sfruttate di shale gas e shale oil, ma che potrebbero costituire nuove fonti energetiche non convenzionali.

Nel corso del tempo, le diverse dominazioni hanno comportato continue variazioni dei confini e hanno trasformato l’Ucraina in uno Stato di attraversamento tra l’Europa e la Russia, composto da un mosaico di nazionalità2. Ai due gruppi maggioritari, gli ucraini che rappresentano quasi il 78 per cento degli abitanti, mentre i russi poco più del 17 per cento, si aggiungono quelli minoritari: bielorussi, moldavi, bulgari, romeni, polacchi, ma anche armeni, georgiani, azeri, greci, tatari, la cui frammentazione riflette altrettante varietà linguistiche minoritarie a livello regionale e in molti casi locale.

L’ucraino e il russo rimangono tuttavia le lingue dominanti, che si sono imposte l’una nella parte occidentale, l’altra in quella orientale del paese, diviso dapprima tra granducato polacco-lituano e Moscovia, poi tra impero asburgico e impero russo. La distribuzione geografica delle lingue è altrettanto articolata perché multinazionale è la storia dell’Ucraina: nell’area più vicina alla Polonia, all’Ungheria e alla Slovacchia, la popolazione parla l’ucraino; in quella sud-orientale, Crimea compresa, e sud-occidentale, la popolazione è prevalentemente russofona; nella vasta regione centrale, dove forse è più presente una sorta di ucrainità, seppur molto sfilacciata, è diffuso il bilinguismo3.

È altresì marcato il pluralismo religioso, anch’esso condizionato dalle differenziazioni regionali, che non si esauriscono nella rappresentazione bicefala delle due civiltà contrapposte: civiltà occidentale e civiltà ortodossa, lungo la linea di faglia che ha attraversato il cuore del paese per secoli, secondo il paradigma proposto da Samuel Huntington4. Sono diffuse minoranze ebraiche, cattoliche e musulmane, insieme alla confessione greco-cattolica e a tre Chiese ortodosse, di cui due nazionali e una legata al patriarcato di Mosca, che rendono lo scenario alquanto stratificato.

E se il corso del Dnepr segna la zona di trapasso anche degli orientamenti politici, oltre che idiomatici, questo spartiacque non è tuttavia sufficiente a rappresentare una delle più complesse realtà del panorama europeo orientale. Essa va inquadrata in definitiva non tanto nella polarizzazione etnica, quanto piuttosto nella stratificazione della storia di diverse culture che hanno per secoli coabitato in uno stesso territorio, dove si sono incrociati, incontrati e scontrati popoli che hanno contribuito a forgiare la sintesi attuale.

Alle origini del nazionalismo ucraino

Non è possibile comprendere appieno la crisi ucraina senza un breve excursus sulle origini storiche del movimento nazionalista, sui contenuti e sui processi storici di lungo periodo. Della tortuosa storia che conduce alla nascita dello Stato indipendente, alcune tappe risultano decisive per la formazione dell’Ucraina, così come la conosciamo oggi: un vero e proprio composto geopolitico5.

La prima risale all’Unione di Lublino del 1569, che sancì la nascita della Confederazione polacco-lituano, in seguito alla quale il Regno di Polonia estese i suoi possedimenti inglobando i territori meridionali della Lituania ormai indebolita, che si congiunsero alla Galizia e alla Volinia formando un ampio territorio abitato dagli slavi orientali ortodossi. La Lituania mantenne una semi-indipendenza, ma nell’unica dieta i polacchi detenevano la maggioranza assoluta.

L’infiltrazione polacca divenne capillare e modificò la geografia etnica, linguistica e religiosa di quella parte dell’Ucraina che si ritrovò sotto il giogo polacco, mentre il blocco orientale rientrava nell’orbita russa. La Polonia tentò di imporre la propria cultura nonché il proprio credo cattolico romano; furono così assimilate buona parte dell’aristocrazia e dei ceti medi autoctoni, mentre i contadini rappresentarono l’unica forza di resistenza al processo di polonizzazione. Essi fecero sopravvivere la lingua ucraina, mentre la Chiesa ortodossa, che aveva a Kiev il suo centro storico e il suo metropolita, frenò il processo di cattolicizzazione imperante.

La seconda tappa coincise con l’Unione di Brest del 1596, da cui prese avvio la Chiesa cattolica uniate: un nuovo soggetto confessionale che rappresentò un elemento di rottura nel panorama religioso, costituito dall’alleanza tra la Chiesa bizantina e la sede romana. Nata dall’unione tra la quasi totalità della gerarchia ortodossa ucraina e la Chiesa cattolica, si propose di contrastare la Chiesa di Costantinopoli, che aveva da poco elevato al rango di patriarca il metropolita di Mosca, una presenza scomoda per i vicini polacchi.

La nuova Chiesa greco-cattolica fu tuttavia respinta dalla maggioranza dei fedeli ortodossi e duramente osteggiata come scismatica da tutti di patriarcati della Chiesa d’Oriente e non soltanto da quella di Mosca. I rapporti non furono facili neanche tra i nuovi adepti e i cattolici romani, soprattutto in Galizia e Volinia occidentale, dove agli uniati si contrapposero i cattolici romani e non solo per motivi religiosi: ucraini contro polacchi e polonizzati, pur nella comune fedeltà a Roma. Lungo questa profonda faglia si consumò la secessione delle terre più orientali, dove i cosacchi, rimasti fedeli alla Chiesa ortodossa, furono assorbiti nello Stato russo, che ampliò nel corso del tempo i suoi possedimenti fino a giungere a Kiev.

Negli ultimi decenni del XVIII secolo, la Russia vincitrice contro l’impero ottomano trasformò il khanato di Crimea da signoria vassalla della Sublime Porta a Stato formalmente indipendente, ma di fatto nella sfera di influenza russa. Nasceva così la Nuova Russia nell’area settentrionale del Mar Nero con capitale Odessa, corrispondente all’attuale Ucraina meridionale. E in seguito alle partizioni della Polonia di fine secolo, l’impero zarista acquisì anche la parte orientale delle terre polacche, ovvero quelle che si stendevano sulla sponda destra del fiume Dnepr (regione di Kiev, Volinia e Podolia), entrando così in diretto contatto con le regioni dell’Europa centrale, mentre la Galizia orientale entrò a far parte dell’impero austriaco e ne seguì le sorti sino alla fine della prima guerra mondiale.

La nobiltà polacca, ormai da tempo insediatasi nella riva destra del Dnepr, continuò tuttavia fino alla seconda metà dell’Ottocento a esercitare il suo ruolo egemone a livello culturale e sociale, ma con l’introduzione di nuove politiche di russificazione iniziarono ad emergere i primi movimenti nazionali ucraini. Timothy Snyder ha affrontato il rapporto ambivalente polacco-ucraino nella regione della Galizia e ha sottolineato come, dalla fine del XIX secolo, gli ucraini di Galizia abbiano organizzato il loro movimento nazionale ispirandosi al modello polacco6. Da ciò nacque un’embrionale idea di nazione, che necessariamente entrava in rotta di collisione con l’idea ottocentesca di nazione russa nella sua concezione tripartita: i grandi russi (i russi della nazionalità dominante) e le ramificazioni secondarie costituite dalle comunità dei piccoli russi (gli ucraini) e dei russi bianchi (i bielorussi).

Nella Galizia orientale, territorio attribuito all’impero austriaco, ma dove era ancora presente l’egemonia culturale polacca, pur costituendo una minoranza, si diffuse una più moderna coscienza nazionale ucraina che palesò la profonda divergenza sociale tra i nobili polacchi e i contadini ucraini, un antagonismo nei confronti del quale ebbe un ruolo decisivo la Chiesa greco-cattolica.

Maturò così l’idea di una nazione ucraina tra Russia e Austria, seguendo un paradigma populista che risale allo storico Mychajlo Hruševs’kyj (1866-1934), i cui ideali libertari risiedevano nell’idea di un continuum tra la Rus’ di Kiev e l’Ucraina moderna, in contrapposizione alla concezione di translatio del centro di potere degli slavi orientali da Kiev alla Moscovia, sostenuta dalla storiografia di matrice russa. A lui si fa risalire il termine “Ucraina”, utilizzato quando gli ucraini orientali erano definiti “gente rutena”. La narrazione nazionale ucraina prendeva progressivamente forma dall’esigenza di riappropriarsi del proprio passato, in un percorso di emancipazione dalle oppressioni imperiali: una sfida alla vulgata pan-russa e alle ambizioni egemoniche di una nobiltà polacca più occidentalizzata7.

Nel vasto territorio sotto il dominio russo, si consolidò il senso forte di una specificità ucraina nella città di Kiev, divenuta la fucina di idee patriottiche promosse da intellettuali votati alla causa nazionale, da Mykola Kostomarov a Volodymyr Antonovič, che avevano nella Confraternita dei santi Cirillo e Metodio la loro sede. Fondata nel 1846 sul modello delle società segrete, l’associazione rappresentava la sintesi di posizioni differenti, talvolta in apparente contrasto le une con le altre: dall’idea romantica di nazione, alla slavofilia, dal cristianesimo mistico al federalismo panslavo, in ogni caso posizioni troppo rivoluzionarie per essere tollerate dallo zar Nicola I.

Sulla scorta dell’eredità della Confraternita cirillo-metodiana, l’idea di nazione fu successivamente ripresa da protagonisti di diversa formazione, da Mychailo Petrovyč Drahomanov a Ivan Yakovych Franko, che fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento coniugarono l’affrancamento nazionale a quello di matrice sociale.

La breve parentesi indipendentista ucraina al termine della prima guerra mondiale fu interrotta dall’intervento dell’Armata Rossa che ricondusse l’Ucraina all’Unione Sovietica in qualità di repubblica federata, in uno Stato plurinazionale, mentre la Galizia orientale e gran parte della Volinia, assurte a culla del nazionalismo ucraino, erano già entrate a far parte del rinato Stato polacco. Sempre nell’area occidentale, la Transcarpazia ucraina era stata annessa alla Cecoslovacchia, uno Stato di nuovo conio, e la Bucovina transitava dall’Austria alla Romania.

È da questo periodo che l’Ucraina russa, divenuta sovietica, condivise e subì la storia dell’Unione nelle fasi che la contraddistinsero. Dapprima, negli anni venti, attraverso l’“indigenizzazione” promossa da Lenin si favorì la salvaguardia delle nazionalità dell’Unione, dunque anche l’ucrainizzazione, grazie al sostegno del gruppo etnico titolare delle varie repubbliche e alla diffusione della lingua nazionale in tutte le sue forme: dalla fondazione di associazioni culturali all’inserimento dell’ucraino quale lingua di insegnamento nella scuola pubblica. In seguito, negli anni trenta, il passaggio all’omogeneizzazione culturale forzata insieme alla collettivizzazione dell’agricoltura, introdotte da Stalin, provocarono la cacciata dalla terra di migliaia di famiglie e dei loro componenti, mentre la resistenza da parte di kulaki e contadini poveri che rifiutarono di essere irreggimentati nelle fattorie collettive veniva duramente soffocata. Alle epurazioni, deportazioni e politiche repressive si aggiunsero le terribili conseguenze provocate dalla grande carestia del 1932-1933, che causò la morte di milioni di ucraini, molti dei quali respinti alle frontiere con le baionette dei reparti militari, mentre in Galizia la guerriglia partigiana dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini (Oun), destinata a essere contrastata dallo Stato polacco, si trasformava in una capillare mobilitazione segreta, in attesa di tempi migliori per rafforzare la propria azione rivoluzionaria8. E i collaboratori con i nazisti, i cui rapporti furono tanto complessi quanto contraddittori, sarebbero da ricercare proprio in queste sacche di malcontento, che alimentarono le forze di opposizione al regime staliniano non solo nelle fila dell’Esercito insurrezionale ucraino (Upa)9.

Kiev tra Mosca, Bruxelles e Washington

Repubblica federata nell’ambito dell’Unione Sovietica, l’Ucraina si è resa indipendente nel 1991, insieme ad altri Stati che hanno portato alla destrutturazione della federazione stessa10. L’allentamento delle giunture, che la saldavano al centro del potere e contribuivano a tenere unito il mosaico territoriale, non poteva non generare contraccolpi e allargare le fessure dell’eterogenea ricomposizione voluta da Stalin11.

Le divisioni etniche, culturali e linguistiche rinviano necessariamente alla peculiare caratteristica geopolitica del paese, che non si presenta, come ha osservato Peter W. Rodgers, nella veste di «uno Stato nazionale nella comprensione classica del termine», poiché la sua specificità è data non tanto dalla presenza di minoranze al suo interno, prodotto di stratificazioni secolari, quanto dal fatto che «la maggioranza etnica titolare ucraina non costituisce una nazione unificata, omogenea e coerente»12. In definitiva, l’Ucraina può essere considerata uno spazio plurale dalle molteplici fessure, più o meno profonde, che si intersecano e si sovrappongono in un territorio segnato da diversità culturali, sociali ed etnico-linguistiche13.

La prima significativa frizione nella continuità post-sovietica, dopo il nazionalismo di Kravčuk14, il primo presidente che ha gestito la transizione all’indipendenza, e il presidenzialismo di Kučma15, noto per l’accentramento del potere e lo strisciante autoritarismo, risale al 2004, anno che ha segnato l’inizio della stagione arancione. La strategia sino ad allora seguita era stata quella di soddisfare le aspettative sia dell’Occidente sia della Russia e ricavare dalla politica di bilanciamento, con camaleontico opportunismo, il maggior vantaggio possibile per il paese. E non è difficile trovarne conferma nei fatti. Il presidente Kučma, ad esempio, nel corso del suo primo mandato aveva puntato ad avere un rapporto privilegiato con gli Usa, poiché l’Ucraina costituiva una chiave di volta nell’emergente area di sicurezza dell’Europa centrale e orientale16. Da questa diretta collaborazione erano derivati i benefici sia sul piano tecnologico sia economico, con l’accesso ai prestiti del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, e il memorandum di intesa sulla cooperazione tra i due paesi ne aveva rappresentato la contropartita17. Nel contempo, tuttavia, erano sempre più evidenti le interazioni diplomatiche di Kučma con la Federazione russa, con la quale aveva mantenuto stretti rapporti di buon vicinato su questioni di strategica importanza: dalla flotta sul Mar Nero agli approvvigionamenti energetici, dalla definizione dei confini alle relazioni interetniche. Da non tralasciare, nel prosieguo degli eventi, la richiesta di adesione alla Nato, presentata nel 2002 da Yevhen Marchuk, Segretario del Consiglio di Sicurezza Nazionale e di Difesa, in sintonia con il piano successivamente proposto da Kučma per preparare il paese a conseguire l’integrazione nelle strutture di sicurezza euratlantiche (Membership Action Plan).

Le elezioni presidenziali del novembre 2004 hanno portato alla vittoria Victor Janukovič18, delfino del presidente uscente Kučma in carica dal 1994, contro la cui amministrazione oligarchica era già stata organizzata una vasta mobilitazione collettiva. Immediato è stato il sostegno allo sconfitto Victor Juščenko, il leader filoccidentale che aveva denunciato i brogli e le irregolarità nello svolgimento delle elezioni19. Così centinaia di migliaia di persone vestite di arancione, colore divenuto il simbolo dell’opposizione, sono scese nelle piazze di Kiev e nei luoghi nevralgici del potere per chiedere nuove elezioni20. A seguito della certificazione delle irregolarità da parte dell’Osce, la Corte suprema ha invalidato il risultato elettorale; la Rada è stata costretta a sfiduciare il governo e a indire una nuova tornata elettorale, che ha aperto la strada a Juščenko e al nuovo governo filoeuropeista guidato da Julia Tymoščenko21.

Il rinnovamento della élite al potere, avvenuto con la complicità in primis della Polonia, dei Paesi Baltici e della Germania, che hanno costituito un rilevante fattore esogeno insieme agli Stati Uniti, non ha contribuito tuttavia alla realizzazione di quelle riforme strutturali necessarie alla trasformazione del sistema di potere ucraino, mostrando, in una linea di continuità, il suo ruolo subalterno. Ciò ha aperto la strada alla tesi secondo la quale sarebbe più corretto utilizzare la locuzione “evoluzione arancione”, che tende a vanificare le ipotesi dei fautori della transitologia, ossia dei sostenitori dell’inevitabilità del passaggio dal regime autoritario al regime liberal-democratico22.

La rapida caduta del governo, nel settembre del 2005, insieme agli scandali che hanno investito alcuni suoi membri, hanno così definitivamente soffocato la spinta propulsiva della stagione arancione. E nella linea di frattura tra le regioni orientali russofone e russofile e quelle occidentali, favorevoli ai modelli di vita liberal-democratici europei, si è rinvigorita l’antica fiamma del nazionalismo ucraino russofobo e xenofobo, che ha trovato una sua collocazione nei gruppi e partiti di destra e, successivamente, di estrema destra ultranazionalista. Questa tipologia di militanti, rappresentati da Svoboda, Pravyj Sektor e altre formazioni paramilitari, tra le quali il risorto Upa, ha costituito il braccio armato dell’Euromaidan nella sua fase conclusiva. Considerato dalla stampa occidentale il secondo tentativo di passaggio dal regime autoritario a un regime liberal-democratico, il movimento di piazza, nato a fine 2013, ha tuttavia avuto sviluppi molto diversi da quelli che hanno contraddistinto la pacifica “rivoluzione colorata” del 2004, lasciando proprio alle organizzazioni di estrema destra ampie facoltà di manovra per fiancheggiare il colpo di mano che ha portato, anche in questo caso, il presidente Janukovič a uscire di scena nel febbraio del 201423.

E i conflitti che hanno preso le mosse dall’escalation di tensioni interne, ben più gravidi di conseguenze rispetto alla prima ondata di proteste, rischiano oggi di far implodere una crisi che non può essere letta solo in chiave locale di polarizzazione delle forze in campo, separatisti filorussi da una parte ed esercito ucraino dall’altra, poiché alle antiche e sanguinose contrapposizioni interetniche si aggiungono gli altrettanto complessi interessi geostrategici ed economici globali.

L’accelerazione della crisi ucraina

Messa alla dura prova dalla reductio ad unum, per non compromettere la sua integrità e scongiurare spinte secessioniste, l’Ucraina ha sempre riconosciuto alla Crimea un’ampia autonomia24. La presenza russa nella penisola era infatti più marcata per lo stanziamento di basi militari e della flotta del Mediterraneo, in base al “Grande trattato” russo-ucraino del 1997, rinnovato dall’accordo di Kharkiv (aprile 2010), con il quale Kiev ha affidato a Mosca la base di Sebastopoli fino al 2042. La contropartita era il sostanzioso sconto sul prezzo delle forniture di gas russo e il finanziamento di una parte del debito, che ha inciso per quasi il 40 per cento del Pil.

Se questo trattato era il simbolo più evidente del ritorno dell’Ucraina sul binario russo, nel contempo la leadership ucraina ha continuato le negoziazioni formali con l’Europa, sulla scia dell’ormai consolidata politica ondivaga, la cui evoluzione ha condotto all’accordo di associazione e di libero scambio, denominato Deep and Comprehensive Free Trade Area (Dcfta), che il governo ucraino del presidente Viktor Janukovyč ha tuttavia rifiutato di sottoscrivere25. Nel continuo alternarsi di azioni contrastanti, la Russia ha rimesso in discussione il prezzo di favore del gas, in prossimità della firma dell’accordo, e ha avanzato richieste di pagamento del debito per evitare di essere messa fuori dal gioco.

È questo il motivo principale per cui gli oppositori filoccidentali di Janukovyč hanno dato vita a manifestazioni di protesta, che si sono concluse con la “defenestrazione” del presidente e hanno aperto la strada a un governo transitorio in attesa di nuove elezioni. La reazione di Mosca non si è fatta attendere, ma deve comunque essere letta in un’ottica più ampia. Di fronte al progressivo allargamento della Nato26, il presidente Vladimir Putin ha posto in stato di allerta i militari stanziati in Crimea e ha inviato colonne di blindati per rafforzare la base di Sebastopoli, sostenendo le spinte separatiste della regione meridionale, dove un’ampia maggioranza della popolazione è russofona e vicino agli orientamenti politici moscoviti. La minaccia di secessione della Crimea dall’Ucraina e il ricongiungimento alla Federazione russa è diventata realtà, dopo il risultato plebiscitario del referendum indetto nel marzo 2014, riconosciuto dalla Russia ma non dalla comunità internazionale, che considera un’annessione forzata, e dunque sanzionabile, ciò che per Mosca è sinonimo di “ritorno”27.

La Russia ha così rafforzato la propria presenza politica e militare nel Mar Nero, divenuto il centro propulsivo della resistenza contro il nuovo corso di Kiev, e ottenuto il libero accesso proprio nella penisola che fronteggia la Turchia, “sentinella” degli occidentali con aspirazioni, espresse a più riprese dal presidente Recep Tayyip Erdoğan e dal primo ministro Ahmet Davutoğlu, di tipo egemonico nella regione caucasica e mediorientale, in un clima di tensione quale non si vedeva dalla fine della guerra fredda.

Gli eventi successivi alla formazione del nuovo governo, acutizzati dai sanguinosi conflitti che si sono alternati a tregue nelle aree russofone, in particolare nelle regioni orientali di Doneck e Luhansk, hanno riacceso anacronistiche ostilità, ma nella contesa è presente una Russia moderna che obbliga a utilizzare altri paradigmi per interpretare la crisi e il controllo dei cleft states28. Nello stesso tempo, l’Occidente persegue interessi diversificati, soprattutto se prendiamo in considerazione l’Europa, la cui fisionomia è ben lontana dal monolite.

In ogni caso, è indubbio che il governo ucraino attualmente in carica rappresenti solo una parte degli orientamenti politici, sociali e culturali che corrono lungo le anse del fiume Dnepr. Le regioni sudorientali sono state subito il bersaglio di decisioni che hanno alimentato la mobilitazione collettiva, in particolare in difesa della lingua russa, dopo l’abolizione della legge a tutela delle minoranze linguistiche approvata da Janukovyč nel 2012. A ciò si sono aggiunti i movimenti indipendentisti per la creazione di repubbliche autonome o nell’orbita moscovita. Sorti non solo nelle grandi città ma anche nei centri minori, essi non hanno tuttavia portato a risoluzioni condivise, lasciando in campo questioni istituzionali insolute e soprattutto focolai sempre pronti a riaccendersi e a trasformarsi in una guerra civile di più ampia portata, in uno scontro divenuto sovranazionale.

Al contempo si lascia aperta la strada ad altri sanguinosi conflitti a partire dagli Stati confinanti, dove potrebbero replicarsi i colpi di mano in grado di rovesciare i governi filorussi. Questo potrebbe accadere a Nord, ad esempio in Bielorussia, pur in presenza di uno Stato dalla struttura politica più rigida, o potrebbero riaccendersi i conflitti nazionalisti mai sopiti a Sud-ovest, per esempio in Moldavia, innescando le reazioni di Mosca, messa a dura prova nel respingere l’avanzata dell’influenza occidentale.

I nuovi vertici ucraini si trovano oggi di fronte a una doppia difficile realtà, che implica la salvaguardia dell’integrità e dell’autonomia territoriale. Da una parte, l’operazione “antiterrorismo” nel Donbass ha palesato l’incapacità dell’esercito ucraino di intervenire in situazioni di guerra civile, allontanando sempre di più il centro dall’Est del paese, dall’altra Kiev fa difficoltà a reggersi senza le stampelle occidentali. Allo stesso tempo, tuttavia, i suoi alleati occidentali sono sempre più scettici sul futuro del progetto di associazione all’Unione europea, sia per quanto riguarda gli standard di legittimità democratica, sia per gli elevati costi economici che il sostegno al paese inevitabilmente richiede.

Le guerre del gas in Europa

La produzione di gas e la sua distribuzione hanno rappresentato e rappresentano a tutt’oggi settori di mercato molto appetibili, dato il volume e l’entità degli affari29. Esse prevedono alleanze eterogenee di operatori, di traders europei e globali di gas naturale e liquefatto (gnl) e fornitori di impianti di rigassificazione. E il valore strategico del gas deriva soprattutto dall’assenza di un mercato internazionale ben integrato, che esiste invece per il petrolio. A causa delle caratteristiche intrinseche di questo combustibile, che ne rendono il trasporto più complesso o costoso, l’Unione europea si trova a dipendere prevalentemente da forniture tramite i gasdotti dei Paesi vicini: Russia, Norvegia e, in misura minore, Algeria. A questi si aggiunge il Qatar, che si sta specializzando nelle esportazioni di gas naturale liquido.

Almeno fino al 2030, secondo le stime dell’Oxford Institute for Energy Studies, la Russia è destinata a rimanere un importante esportatore di gas verso l’Unione europea, non solo per la sua competitività, ma anche perché l’Unione stessa è ancora destinata a dipendere dalle forniture esterne.

Il gas russo ha costituito e costituisce una risorsa di fondamentale importanza tanto per l’Unione europea, che acquista dalla Russia un terzo del gas che consuma, con la Germania al vertice della graduatoria degli acquirenti, quanto per l’approvvigionamento energetico dell’Ucraina, che si è avvantaggiata anche dei diritti di transito per il passaggio dei gasdotti diretti in Europa. Tale risorsa è tuttavia altrettanto cruciale per la Federazione russa, la cui economia è prevalentemente dipendente dagli idrocarburi, che rappresentano il novanta per cento delle sue esportazioni. È vero però che essi potrebbero essere venduti ai paesi asiatici emergenti, ma allo stato attuale mancano le infrastrutture, mentre una capillare e consolidata rete si dirama e giunge nel vecchio continente.

L’Ucraina, da sempre spazio strategico per il colosso russo, poiché nel suo territorio passano circa quarantamila chilometri di gasdotti che la collegano alla Russia e all’area del Mar Caspio30, ha spostato gli equilibri geopolitici obbligando Mosca a riconsiderare i piani di fornitura del gas31. La leva del braccio di forza è proprio la piattaforma logistica ucraina, con il suo network di collegamenti e di stoccaggi, di fondamentale importanza per le arterie dei mercati occidentali e orientali. È vero che il presidente Petro Porošenko sta usando tutte le sue doti manageriali per accelerarne l’ingresso nei paesi dell’Unione europea, ma sono in molti a Mosca a pensare che l’orientamento filoeuropeista sia destinato a sgretolarsi di fronte ai conti che gli intermediatori europei presenteranno per le forniture di metano senza le agevolazioni di cui gli ucraini hanno goduto grazie ai russi32.

Se per gli Stati Uniti il deterioramento delle relazioni significherebbe inasprire numerose questioni aperte (Siria, Iran, Egitto), per l’Unione europea la posta in gioco è soprattutto economica, sia per gli elevati volumi di scambi commerciali in territorio russo, sia per gli altrettanto rilevanti interessi relativi al mercato del gas. I paesi dell’Unione europea possono solo ridimensionare la potenza del Cremlino, limitando il ruolo di Gazprom attraverso il cambiamento delle regole e l’introduzione di nuovi paletti normativi, poiché gli interessi statunitensi ed europei non possono che declinarsi in modi diversi33. Nel primo caso, gli Stati Uniti, sempre meno legati alle forniture estere grazie agli enormi giacimenti di gas non convenzionale, il cosiddetto shale gas contenuto all’interno di rocce argillose, si stanno avvicinando all’indipendenza energetica, mentre l’Europa, il suo esitante alleato, non può fare a meno dei rifornimenti russi, neanche a medio termine per la mancanza di alternative economicamente vantaggiose34. D’altro canto anche il gas naturale nordamericano non può essere considerata un’alternativa appetibile, dati i prezzi poco attraenti per la maggior parte delle compagnie europee, le cui logiche di profitto non sempre sono in sintonia con gli interessi definiti nella carta geopolitica. Non solo, le misure restrittive dell’Unione europea contro la Russia hanno messo in crisi vasti settori: dal mercato agroalimentare nel bacino del mediterraneo a non pochi comparti industriali nelle aree trainanti del Nord Europa.

Oltre la crisi ucraina e l’identità contesa

Dopo la firma del Protocollo di Minsk35 si apre un nuovo scenario, sia che il Doneck e il Lugansk, le due province industriali dell’Est, possano essere destinate a costituire un piccolo Stato federale guidato dalle forze separatiste filorusse, sia che si trasformino in un’area sempre pronta ad esplodere dopo fasi di latente conflittualità. In entrambi i casi, l’Ucraina non può che registrare la sua permanente instabilità, mentre si allontana sempre più la possibilità di spostare il baricentro dell’intera Ucraina da una parte o dall’altra, lasciando un ampio margine al rischio di balcanizzazione36.

Il ruolo dell’Ucraina quale Stato cuscinetto tra Russia e Occidente, il ponte capace di unire anziché dividere l’Europa in una sorta di bilanciamento dei rapporti di forza, si allontana sempre di più dall’orizzonte. La prospettiva che si apre è quella di una nuova “cortina di ferro” che dal Mar Baltico giunge sino al Mar Nero in un vallo euratlantico che ridisegna la mappa geopolitica mondiale, all’interno della quale si rinforzano o si preannunciano nuove alleanze strategiche.

Nel primo caso appare evidente che la Russia cerchi di consolidare l’Unione economica eurasiatica, facendo leva sugli Stati un tempo nell’orbita sovietica con i quali stringere patti di cooperazione economica, che si aggiungerebbero agli attuali paesi membri: la Bielorussia, il Kazakistan, l’Armenia e il Kirghizistan37. Nel secondo caso, l’unione, che al momento include potenze minori, potrebbe coinvolgere futuri partners di maggior peso politico, quali la Cina o altri paesi asiatici emergenti, in grado di controbilanciare o contrastare la potenza statunitense, che ha avuto un ruolo egemone nel blocco occidentale dopo l’abbattimento del muro di Berlino e la frantumazione dell’Urss. Non è infatti da sottovalutare l’accordo tra l’azienda energetica russa Gazprom e l’omologa cinese China national petroleum corporation (Cnpc), che hanno firmato nel maggio 2014 un accordo sulle forniture di gas: la Russia fornirà alla Cina trentotto miliardi di metri cubi di gas all’anno per 30 anni a cominciare dal 2018, utilizzando il sistema di trasmissione di gas Power of Siberia, che dovrebbe collegare i giacimenti della Siberia occidentale alla costa pacifica, per poi varcare i confini cinesi. Una vasta regione, quella siberiana, le cui ricchezze minerarie, custodite peraltro in territori scarsamente popolati, potrebbero nel lungo periodo essere motivo di contesa e dunque di ostacolo alle relazioni sino-russe.

La situazione attuale, tuttavia, ruota attorno al mutamento strategico in corso al di là degli Urali. La crisi ucraina ha rinnovato l’interesse della Russia verso il mercato energetico asiatico e ha spinto il Cremlino a cercare nuovi alleati nella riconfigurazione degli scambi, per contrastare le sanzioni occidentali e il calo del prezzo del petrolio. L’impero del Centro si configura tuttavia non solo come mercato ideale per dipendere in misura minore da quello europeo, ma anche come partner privilegiato per raggiungere nuovi livelli di interazione globale in chiave antistatunitense. Nello stesso tempo, il gas russo contribuisce a diversificare le fonti di approvvigionamento energetico cinese, necessarie allo sviluppo di Pechino, che potrà inoltre attingere a una risorsa “più pulita” del carbone, quella prevalentemente utilizzata e tra le principali fonti di inquinamento.

Lo spostamento degli equilibri geopolitici in direzione asiatica, con il conseguente cambio di paradigma, non può che favorire l’impero di Mezzo, che si appresta a sfruttare una crisi, quella ucraina, nella cui genesi non ha avuto alcun ruolo. E l’emergente leadership cinese potrebbe non solo fare causa comune con la Russia, ma coinvolgere, in un’ottica di lunga durata, anche altre potenze emergenti nell’asse sino-russo per contrastare l’ordine americanocentrico. Non pochi vicini della Cina, tra cui il Giappone, il Vietnam, l’India, l’Australia e la Corea del Sud, hanno stretti legami con Washington, che potrebbero incrinarsi ed essere motivo di ridefinizione della rete globale delle alleanze. Da aggiungere poi i consolidati rapporti diplomatico-militari realizzatisi in seno all’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (Csto). Nata nel 1992 a scopo difensivo, essa comprende sei paesi appartenenti alla Comunità degli Stati indipendenti: Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Federazione russa, alla quale si sono aggiunti l’Afghanistan e la Serbia, come paesi osservatori, mentre l’Iran, in veste di candidato, potrebbe nel breve periodo diventarne membro a pieno titolo.

E se gli Stati Uniti hanno rafforzato il sostegno ai governi filoccidentali per ridurre Mosca a una potenza regionale, il Cremlino ha risposto privilegiando una politica di difesa incentrata prevalentemente sulla componente etnica e non su un reale potenziamento eurasiatico. Ciò può essere confermato dal fatto che la strategica annessione della Crimea, nella prospettiva russa, non può aver compensato l’irrimediabile perdita dell’intera Ucraina nello spazio eurasiatico. E questo potrebbe preoccupare i suoi rapporti di buon vicinato, soprattutto nelle aree abitate in prevalenza dalle minoranze russe integrate nel tessuto sociale.

Riflessioni conclusive

Trascorso ormai un quarto di secolo dalla separazione dall’Urss, dalle cui ceneri è nata l’Ucraina indipendente, imboccata la comune strada dell’economia di mercato, essa si trova ancora immersa nella fase di transizione economica. La rapida crescita del Pil, registrata fino al 2008 grazie ai prezzi elevati dei prodotti siderurgici, di cui l’Ucraina è esportatrice, e all’aumento dei consumi interni, si è tuttavia arrestata a causa della discesa dei prezzi e della crisi finanziaria globale, mettendo a nudo la fragilità del paese38. L’indebolimento della grivna è stato rapido, ma il ritmo del calo dei proventi delle esportazioni è stato più veloce. L’inflazione molto elevata ha eroso i salari reali, l’aumento dei tassi di interesse ha appiattito la domanda di credito e diminuito i depositi delle banche, mentre si prevede un ulteriore deterioramento dei redditi delle famiglie, danneggiati dalla stretta fiscale, che si affianca all’incerta prospettiva finanziaria e politica.

Anche il duumvirato Juščenko-Tymošenko, che più di altri ha spinto il paese verso modelli europeisti, di fatto si è dimostrato incapace di introdurre quelle riforme strutturali necessarie per ammodernare l’apparato produttivo e attrarre investimenti stranieri e hanno altresì disatteso gli auspici di svolta verso un modello democratico di stampo occidentale39. Arenatosi nella palude dell’immobilismo politico, il processo di rinnovamento non ha prodotto gli effetti sperati: nel settore agricolo sono largamente presenti le grandi aziende scarsamente meccanizzate, mentre in quello industriale sono tuttora prevalenti le produzioni di base nel settore siderurgico, chimico e tessile. Nelle aree in crisi o più sofferenti non si è verificata quella diversificazione produttiva che avrebbe potuto imprimere un’accelerazione allo sviluppo e allentare la dipendenza dai paesi esteri: sia che si tratti degli stretti rapporti, seppur asimmetrici, tra l’ex-leader Viktor Janukovyč e Putin, sia tra quelli troppo corrivi intercorsi tra Petro Porošenko e i suoi alleati occidentali40. Per contro, si è consolidato, nelle travagliate vicende istituzionali, il connubio tra politica e affari in una contaminazione di poteri informali e sommersi, sfruttati senza significative variazioni dalle grandi oligarchie imprenditoriali e finanziarie nazionali e sovranazionali, attratte soprattutto dalle proficue speculazioni offerte dal mercato globale.

In questo contesto, in cui predominano le élite economiche contaminate con le élite amministrative, l’insoluta crisi ucraina acquista una nuova valenza e apre una fase di decisiva importanza per il futuro del paese. I leader politici dovranno avviare radicali riforme istituzionali nella prospettiva del riconoscimento di ampie autonomie locali in grado di rispecchiare l’intricata storia nazionale, realizzabili attraverso il trasferimento di alcuni poteri centrali agli organi regionali. Per rafforzare il ruolo di buffer zone che meglio si addice alla plurale e articolata conformazione geopolitica del territorio, si dovrà altresì varare una nuova legge a tutela delle minoranze linguistiche, non solo per rassicurare i russofoni, ma per salvaguardare il carattere di pluralità che connota il paese.

L’Ucraina non può essere considerata solo un’area di frizione bicefala, una linea di divisione fra due sfere di influenza, in presenza di minoranze schiacciate dall’assenza di diritti e maggioranze che si macchiano, a fasi alterne, di atti di sopraffazione. Auspicabile dovrebbe essere invece la sintesi delle diversità e la costruzione di ponti di mediazione politica41, affinché questo peculiare spazio geografico possa essere funzionale al rapporto tra Federazione russa e Unione europea, troppo spesso percepito solo in chiave di alterità.

1 Il Donbass, bacino del Donetz, si estende nelle tre oblast’ dell’Est del paese. Il territorio comprende la parte più orientale della provincia di Dnipropetrovsk (Donbass occidentale), a cui si aggiungono l’oblast’ di Doneck e di Luhansk (Donbass orientale). La città di Doneck è il centro principale della regione.

2 Sui border studies, nella loro dimensione internazionale come luoghi di demarcazione territoriale e simbolica, si veda in particolare S. Salvatici, Introduzione a Confini. Costruzioni, attraversamenti, rappresentazioni, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2005.

3 Cfr. S. Merlo, Ucraina o Ucraine? Riflessioni per lo studio di un territorio “alla frontiera, Convegno «Le regioni multilingui come faglia motore della storia europea nel XIX-XX secolo», Napoli, 16-18 settembre 2008.

4 Cfr. S.P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York, 1996, trad. it. di S. Minucci, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta, Garzanti, Milano 2000.

5 Vedi G. Kasianov, P. Ther (a cura di), A Laboratory of Transnational History. Ukraine and Recent Ukrainian Historiography, Central European University Press, Budapest – New York 2009.

6 Cfr. T. Snyder, The Reconstruction of Nations. Poland, Ukraine, Lithuania, Belarus, 1569-1999, Yale University Press, New Haven – London 2003.

7 Cfr. A. Kappeler, From an Ethnonational to a Multiethnic to a Transnational Ukrainian History, in G. Kasianov, P. Ther (a cura di), A Laboratory of Transnational History. Ukraine and Recent Ukrainian Historiography, Central European University Press, Budapest – New York 2009, p. 57.

8 Per approfondimenti vedi A. Graziosi (a cura), Lettere da Kharkov. La carestia in Ucraina e nel Caucaso del nord nei rapporti dei diplomatici italiani, 1932-1933, Einaudi, Torino 1991; G. De Rosa, F. Lomastro (a cura di), La morte della terra. La grande “carestia” in Ucraina nel 1932-1933, Viella, Roma 2004; A. Bellezza, Il tridente e la svastica. L’occupazione nazista in Ucraina orientale, FrancoAngeli, Milano 2010.

9 Formatosi il 14 ottobre 1942 nella Volinia, costituì l’ala militare dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini (Oun). Il referente politico dal 1943 al 1950 fu Stepan Bandera, noto per il collaborazionismo con le forze naziste durante la seconda guerra mondiale.

10 Al referendum, svoltosi il primo dicembre 1991, partecipò l’84.18% degli aventi diritto e il 90.32% si dichiarò a favore dell’Atto di dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina. La carica presidenziale del nuovo corso post-sovietico fu rivestita dall’ex leader comunista Leonid Kravčuk.

11 Con la fine della seconda guerra mondiale fu ricostituita la Repubblica socialista sovietica ucraina, che riuniva tutti i territori abitati dalla popolazione ucraina, a cui si aggiunse la Bucovina settentrionale, appartenuta all’impero asburgico e, tra le due guerre, entrata a far parte della Romania. La grande Ucraina, che corrispondeva al sogno dei nazionalisti, comprendeva inoltre la Transcarpazia, legata storicamente alla corona ungherese e divenuta parte della Cecoslovacchia dopo la prima guerra mondiale.

12 P.W. Rodgers, Nation, Region and History in Post-Communist Transitions. Identity Politics in Ukraine, 1991-2006, Verlag, Stuttgart 2008, p. 33.

13 Per approfondimenti si veda S. Salvi, Tutte le Russie. Storia e cultura degli Stati europei della ex Unione Sovietica dalle origini a oggi, Ponte alle Grazie, Firenze 1994, pp. 131-219; A. Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1914-1945, il Mulino, Bologna 2007.

14 Leonid Kravčuk (1991-1994) è considerato esponente della nomenklatura di formazione tecnico-manageriale. Non è riuscito a impedire che la dilagante corruzione dominasse il processo di privatizzazione delle industrie nazionali. Nei quattro esecutivi che si sono succeduti nel corso del suo mandato, ha fatto ricorso a esponenti dei diversi gruppi di potere, con i quali è giunto a mediazioni e compromessi pur di mantenere inalterata la sua posizione.

15 Leonid Kučma (1994-2004), sebbene abbia dimostrato interessi verso specifiche oligarchie regionalistiche, ha rappresentato la nomenklatura economica di tipo verticistico. Per approfondimenti vedi R. Di Leo, Il ritorno delle élite, Manifestolibri, Roma 2012.

16 Cfr. S.W. Gernett, The Keystone in the Arch: Ukraine in the Emerging Security Environment of Central and Eastern Europe, The Carnegie Endowment for International Peace, Washington 1997, p. 7.

17 Cfr. L.I. Poliakov, U.A. – Ukraine military relations and the value of interoperability, Strategic Studies Institute, Washington 2014.

18 Presidente dell’Ucraina dal 2010 al 2014, Viktor Janukovyč è rimasto in carica sino alla protesta Euromaidan. Ha altresì ricoperto la carica di Primo ministro per tre volte: dal 2002 al 2004 e dal 2004 al 2005; sconfitto da Viktor Juščenko, è tornato a rivestire tale incarico dal 10 agosto 2006 al 18 settembre 2007.

19 Il presidente Viktor Juščenko, espressione della componente filoccidentale e moderatamente nazionalista della politica ucraina, è rimasto in carica dal 2005 al 2010.

20 Sulla rivoluzione colorata, vedi in particolare M.R. Beissinger, Structure and Example in Modular Political Phenomena: The Diffusion of Bulldozer/Rose/Orange/Tulip Revolutions, in «Perspectives on Politics», vol. 5, n. 2, 2007, pp. 259-276; sul caso ucraino vedi I. Katchanovsky, Regional Political Divisions in Ukraine in 1991-2006, in «Nationalities Papers», vol. 34, n. 5, 2006, pp. 507-532.

21 Julija Tymošenko, leader della rivoluzione arancione, ha rivestito la carica di Primo ministro nel 2005, a seguito dell’approvazione della Rada, e successivamente dal 2007 al 2010. Potente oligarca, dirigente di numerose compagnie legate al mondo dell’energia, ha intrecciato numerosi legami con i potentati economici del paese.

22 Cfr. I. Katchanovski, The Orange Evolution? The Orange Revolution and Political Changes in Ukraine, in «Post-Soviet Affairs», vol. 24, n. 4, 2008, pp. 351-382.

23 Per una dettagliata cronaca degli eventi, si veda M. Carta, Diario della crisi (novembre 2013-maggio 2015), in AA.VV., Attacco all’Ucraina, Sandro Teti, Roma 2015, pp. 19-46.

24 Nel 1954 la Repubblica di Crimea fu ceduta da Nikita Chuščëv alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina. Il segretario generale sosteneva che le caratteristiche economiche della penisola, ricca area prevalentemente agricola, la legassero all’Ucraina, all’epoca granaio dell’Urss. Egli voleva dunque ricompensare questa regione, il cui frumento aveva nutrito l’Unione Sovietica dopo la seconda guerra mondiale, ma soprattutto risanare le ferite inferte alla popolazione ucraina a seguito della terribile carestia provocata dalla collettivizzazione agraria, negli anni compresi tra il 1932 e il 1933, passata alla storia con il nome di holodomor, la “morte per fame”.

25 Gli accordi tra l’Ucraina e l’Unione europea risalgono al 1999 e raggiungono la massima tensione a fine 2013, dopo un lungo iter burocratico per ratificare la trattativa.

26 Nel 2004 si è completato il processo di adesione alla Nato di sette paesi: Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania Slovacchia e Slovenia. Nel 2009 si sono aggiunti all’elenco l’Albania e la Croazia, mentre si è incluso nel Piano di azione per l’adesione il Montenegro e si sono estese le procedure di pre-adesione ad altri paesi balcanici, oltre alla Georgia.

27 La penisola, inglobata alla Russia nel 1792, in conformità al trattato di Iaşi, siglato dagli imperi zarista e ottomano, è entrata a far parte della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina nel 1954. La cessione avvenne per mano di Nikita Chruščëv contro la volontà della maggior parte dei suoi abitanti, in occasione del trecentenario del trattato di Perejaslav (1654), con il quale i cosacchi, minacciati dall’avanzata dell’integralismo cattolico di Varsavia, sancirono la scissione dei territori ucraini dall’Unione polacco-lituana e decisero di unirsi alla Russia ortodossa dello Zar Alessio I.

28 Per cleft states si intendono gli Stati al margine soggetti, per la loro conformazione storico-culturale, a tendenze separatiste oppure a scontri interetnici.

29 Per approfondimenti vedi M.M. Balmaceda, Gas, Oil and the Linkages Between Domestic and Fo-reign Policies: The Case of Ukraine, in «Europe-Asia Studies», vol. 50, n. 2, March 1998, pp. 257-286; — , Will Cheap Russian Gas Save Ukraine? in «Europe-Asia Studies», vol. 61, n. 2, March 2014, pp. 61-67; — , The Politics of Energy Dependency: Ukraine, Belarus, and Lithuania Between Domestic Oligarchs and Russian Pressure 1992–2012, in «Europe-Asia Studies», vol. 27, n. 3, June 2014, pp. 507-509.

30 In particolare: Turkmenistan, Kazakistan, Azerbaigian e Uzbekistan.

31 Le interruzioni delle forniture di energia da parte di Mosca risalgono a gennaio 2006; ripetutesi nel corso del decennio successivo, esse hanno dato forza alle argomentazioni dei sostenitori della realizzazione di gasdotti che evitino il transito del gas naturale attraverso l’Ucraina (Nord Stream, South Stream).

32 Il Segretariato presidenziale ha posto il 2017 come obiettivo per l’entrata dell’Ucraina nell’Unione europea; attualmente, la nazione è solamente membro della Politica di vicinanza europea.

33 In base alla formula dell’unbundling, prevista dal Terzo Pacchetto Energia proposto dall’esecutivo europeo nel 2011, si introduce la distinzione tra il ruolo di distributore e quello di fornitore di gas. Il grande produttore Gazprom dovrebbe così cedere le reti di distribuzione in Europa ad altri gestori. Ne consegue che l’unbundling costituisca il principale ostacolo alla realizzazione del South Stream, l’arteria meridionale del gasdotto che dovrebbe approvvigionare i paesi dell’Europa meridionale, poiché per quelli settentrionali provvede già il Nord Stream. In particolare si segnala il saggio di M. Paolini, Prendi la Crimea e perdi South Stream, in «Limes. Rivista italiana di geopolitica», n. 4, 2014, pp. 73-82.

34 L’estrazione di shale gas ha coinvolto anche l’Europa in questi ultimi anni, ma l’ottimismo iniziale ha presto lasciato il posto ai timori derivanti dalla tecnica della fratturazione idraulica e dall’inquinamento ambientale, causato dalla rilevante quantità di anidride carbonica, la principale responsabile dell’effetto serra, che si sprigiona nelle varie fasi di lavorazione.

35 Il Protocollo di Minsk, firmato il 5 settembre 2014 dai rappresentanti di Ucraina, Russia, Repubblica popolare di Doneck e di Lugansk, ha segnato solo una tregua del conflitto; le continue violazioni degli accordi hanno costretto le parti in causa a firmare un secondo accordo il 12 febbraio 2015, al quale hanno partecipato Angela Merkel e François Hollande, che ha sancito un’intesa complessiva tra le parti e ha previsto un più costante monitoraggio da parte dell’Osce. Nonostante gli accordi di Minsk I e di Minsk II, l’area può essere considerata tuttora ad alto rischio di crisi geopolitica sovranazionale.

36 Per approfondimenti vedi E. Di Rienzo, Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo dis(ordine) mondiale, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2015.

37 L’accordo, ispirato all’integrazione tra i paesi dell’Unione economica europea, è stato annunciato nel 2011 dal presidente russo Vladimir Putin, che ha ripreso una precedente proposta del presidente kazako. Firmato dalla Bielorussia, il Kazakistan e la Russia, esso include piani di comune integrazione e la creazione sia di una Commissione eurasiatica (modellata sulla base della Commissione europea), sia di uno spazio economico eurasiatico.

38 I dati ufficiali mostrano un calo del Pil reale di circa il 6 per cento nel 2014, ma, escludendo la Crimea e le zone di guerra, il calo effettivo, in rapporto ai dati del 2013, si attesta intorno al 10-15 per cento. Nel 2015 le cifre indicano un ulteriore deterioramento della situazione economica, con la diminuzione del volume di vendita al dettaglio del 20% su base annua e l’aggiunta di una nuova contrazione nel settore industriale. (Fonti: Fondo Monetario Internazionale, Comitato Statale di Statistica).

39 Per approfondimenti vedi M. Cilento, Le élite ucraine dopo la rivoluzione arancione: tra rinnovamento e continuità, in M. Cilento (a cura di), Le élite contemporanee, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2013; id., Neo populismo in stile ucraino: la “disillusione arancione, in O. Cappelli (a cura di), Oltre la democratizzazione. Il problema della ricostruzione dello stato nello spazio post-sovietico, volume monografico di «Meridione, nord e sud del mondo», n. 3, 2005; V. Bakirov, O. Fisun, La Transizione ucraina: dove porta la via del neopatrimonialismo?, in «Futuribili», n. 3, 2007; G. Flikke, Pacts, Parties and Elite Struggle: Ukraine’s Troubled Post-Orange Transition, in «Europe-Asia Studies», vol. 60, n. 3, May 2008, pp. 375-396.

40 Un esempio che nasce nel laboratorio del trasformismo politico ucraino: Petro Porošenko ha iniziato la sua carriera politica con il Partito socialdemocratico dell’ex presidente Kučma (1994-2004); in seguito agli scandali di corruzione del governo, ha deciso di appoggiare la campagna di Viktor Juščenko e della sua coalizione; è stato ministro degli Affari esteri con Tymošenko (2009-2010), durante la presidenza Juščenko, e ministro del Commercio e dello sviluppo economico con Azarov nel 2012, durante la presidenza Janukovyč.

41 Vedi H. Kissinger, Diplomacy, Simon & Schuster, New York 1994, trad. it. G. Arduing, L’arte della diplomazia, Sperling & Kupfer, Milano 2004; — , How the Ukraine Crisis ends, in «The Washington Post», March 5, 2004; — , World Order, Penguin, New York 2014.

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Biografia

Patrizia Fazzi è docente a contratto presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università di Torino. Tra le pubblicazioni si segnalano: Globalizzazione e migrazioni. Breve storia dall’età moderna a oggi, FrancoAngeli, Milano 2015; Migrazioni e trasformazione sociale in Italia. Dall’età moderna a oggi, FrancoAngeli, Milano 2008; in collaborazione con il Dipartimento di Scienze sociali dell’Università di Torino: Il Movimento degli obiettori alle spese miliari in Italia, in Anna Anfossi, Tharailath Koshy Oommen (a cura di), Azioni politiche fuori dei partiti, FrancoAngeli, Milano1997; tra i saggi si segnala: Narrare la storia: la lezione di Jerzy Topolski, in «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea», n. 22, giugno 2015; La guerra in Cecenia: un nazionalismo mai sopito, in «Giano», Idis (Istituto per la diffusione e la valorizzazione della cultura scientifica), n. 22, 1996; alcuni contributi sulla didattica della storia sono consultabili nella rivista «Storia e Futuro».