M. Degl’Innocenti, La patria divisa. Socialismo, nazione e guerra mondiale, FrancoAngeli, Milano, 2015

di Andrea Ragusa

Nella sua ricchissima produzione, che ha toccato molteplici e diversificati temi e problemi della storia contemporanea, Maurizio Degl’Innocenti torna nel suo ultimo volume, La patria divisa. Socialismo, nazione e guerra mondiale (FrancoAngeli, Milano 2015, pagg. 192), su di uno degli aspetti privilegiati della sua riflessione di studioso ed intellettuale, ovvero quello del ruolo e del rilievo del movimento socialista nella storia italiana ed internazionale, tema che appartiene alla sua formazione e che costituisce del resto da sempre una delle costanti della sua attività anche di organizzatore culturale, svolta come Presidente della Fondazione di Studi Storici “Filippo Turati”. L’opera offre certamente, in questo senso, un bilancio delle questioni interpretative relative alla storia del socialismo; ma costituisce anche, al tempo stesso, una proposta di lettura che interseca alcuni problemi estremamente attuali. Può dirsi anzi che proprio la scelta di tornare sulle questioni della storia del socialismo, nel peculiare contesto delle celebrazioni per il centesimo anniversario dello scoppio della Prima Guerra mondiale, e nel quadro della problematica evoluzione che la sinistra italiana ha vissuto a partire dal 1989, testimoni non solo l’attenzione al dibattito in corso nella cultura italiana e l’impegno civile con cui esso viene accostato; ma anche la passione con cui viene indagata e riflettuta la storia di un movimento e di una cultura che hanno rappresentato, nel corso dell’Ottocento e del Novecento, uno dei grandi attori della modernizzazione italiana ed europea.

untitledE’ la stessa articolazione del volume, e persino la scelta del titolo, a confermare sin dall’inizio una linea interpretativa di cui l’Autore non manca del resto di segnalare gli elementi fondamentali sin dalle pagine introduttive, quando indica in socialismo e nazione “i due grandi fenomeni che caratterizzano la storia contemporanea, in particolare a far data dall’800, con una forte valenza identitaria, ma destinati a viaggiare insieme” (pag. 9). La dimensione identitaria, l’idea della comunità del lavoro, avvicina quella socialista alla comunità ecclesiastica, ma anche e soprattutto a quella nazionale, soprattutto a quella dello stato nazionale territoriale, che definisce i propri confini, organizza le proprie strutture, educa i propri membri.

Non a caso al problema educativo, alla dimensione simbolico-identitaria, ma anche – per altro verso – al contributo dato dal partito socialista alla crescita delle istituzioni ed all’implementazione delle basi democratiche dello stato liberale, sono dedicati i due capitoli centrali del volume, che disegnano un affresco originale del socialismo non tanto come organizzazione politica meramente intesa, espressione di una pretesa “autonomia della classe” e secondo canoni di metodo che una storiografia a lungo dominante ha seguito, con i quali l’Autore non esita ad entrare in dialettica contrapposizione; quanto piuttosto come fattore propulsivo della modernizzazione: tanto in relazione al ruolo svolto sul piano dell’educazione di fasce sociali sin lì escluse dalla storia e dalla rappresentanza politica, quanto in relazione alla crescita del sistema di protezione sociale che dello Stato contemporaneo rappresenta uno degli aspetti più rilevanti. Sotto il primo aspetto, basti pensare al legame che il movimento socialista stabiliva con le nuove espressioni artistiche tese ad esprimere tematiche e soggetti nuovi, trasformando l’arte in fenomeno sociale: “la vita quotidiana ed il lavoro, la società di massa e gli effetti dell’industrializzazione e dell’urbanesimo” (pag. 67). In secondo luogo al nuovo ruolo della committenza, che, uscendo dai confini della dimensione privata, acquisiva valore e consistenza pubblica attraverso il ruolo delle accademie e delle associazioni, “educando ad un gusto nuovo strati sempre più ampi della popolazione” (pag. 69). Per non dire del ruolo e dell’incidenza della cultura positiva e della scienza, che nella sua forza di propulsione e trasformazione, il socialismo accostò in quanto simbologia “improntata alla vitalità della natura ed all’energia resa possibile dal progresso tecnologico, in particolare alla luce” (pag. 69). O alla vicinanza ed al fascino esercitato sul movimento socialista dalla scoperta del diritto al bello ed al vero, nuove dimensioni “sociali” dello Stato contemporaneo, come espressioni della vita e del carattere di nuovo umanesimo che il movimento assunse. Così, in alcune delle pagine più originali l’Autore innova la lettura del socialismo attraverso un censimento assai fitto non solo delle personalità che maggiormente strutturarono il legame tra il socialismo come elaborazione teorica e prassi politica, e l’espressione che esso assunse sul piano della codificazione di nuovi linguaggi artistici – da William Morris a Walter Crane, per non fare che i due più noti, ai quali l’Autore dedica dei quadri biografico-interpretativi che accompagnano il lettore lungo la scoperta dell’arte socialista – ma anche dei luoghi di sociabilità che funzionarono da laboratori di questa nuova arte: dai circoli artistici alle esposizioni, dalle Accademie ai centri espositivi, al teatro, una delle più rilevanti manifestazioni che divennero strumento di costruzione della nuova “comunità del lavoro” che nel socialismo si incarnava.

Discorso analogo, per altro verso, va fatto intorno al tema della “legislazione sociale”, strumento di inclusione progressiva delle fasce sociali che il socialismo rappresentava e che intese dotare di strumenti di protezione ed al tempo stesso di intervento attivo nella vita dello Stato. Il passaggio dall’economia e, si può dire, dalla civiltà artigianale e manifatturiera, a quella industriale del capitalismo moderno, imposero del resto l’organizzazione di sistemi di protezione coprendo settori della vita pubblica in precedenza affidati all’associazionismo, prima ancora cattolico – su base corporativa e di tradizione tomistica – che socialista. L’affermazione del socialismo come partito che organizzava la “periferia della società” collocandosi “fuori e contro lo Stato”, ma anche “dentro” di esso, particolarmente evidente nell’elaborazione della sensibilità riformista e gradualista, trovò così in alcuni dei suoi maggiori esponenti non solo le voci di una azione politica costante e sempre supportata dalla ricerca e dall’indagine “sul campo” dei problemi, ma anche degli interpreti di grande statura della nuova figura dell’intellettuale-politico che fu caratteristica della politica contemporanea: non nella versione leninista del quadro rivoluzionario, ma piuttosto nell’intellettuale politico che lavora ai vertici della burocrazia statale, sul terreno di confine tra la struttura weberiana e l’innovazione creativa che della politica rappresenta l’aspetto più nobile. Basti pensare, seguendo i quadri che l’Autore consegna in una serie di paragrafi “biografici” che compongono l’affresco del terzo capitolo, a figure come quella di Filippo Turati, di Angiolo Cabrini, o ancor più di quel Giovanni Battista Montemartini che, attraverso la presidenza del Consiglio Superiore del Lavoro, si fece interprete tra i maggiori dell’idea turatiana della prassi di riforme graduali ma irreversibili che avrebbero costruito nel corso del tempo la rivoluzione.

Se dunque lo Stato nazionale fu il terreno ove il socialismo si sperimentò e crebbe, ove maturò le proprie convinzioni e costruì la propria presenza, la guerra mondiale fu il momento nel quale le diverse declinazioni lungo le quali questo rapporto tra internazionalismo e questione nazionale si era strutturato nel corso degli anni precedenti emersero in maniera contrastante. Frattura decisiva nella storia contemporanea, la guerra fu anche per il socialismo un elemento di rottura che portò in superficie le sensibilità che ne segnavano da tempo l’elaborazione teorica e la prassi politico-parlamentare. Il socialismo, anzi, che sin dalle proprie origini risorgimentali e mazziniane aveva rivendicato la propria caratterizzazione nazionale e patriottica; che nel quadro della Seconda Internazionale aveva strutturato il rapporto con l’internazionalismo innervando l’idea della patria con la ricerca degli “interessi materiali e morali della civiltà”, vide proprio di fronte alla guerra disarticolarsi la propria visione unitaria, ricalcando in fondo le stesse divisioni che segnarono l’atteggiamento della politica e dell’opinione pubblica di fronte al conflitto. In queste divisioni, nell’incapacità di contrastare il disarticolarsi delle tendenze, stavano i germi di una evoluzione che avrebbe anzi accentuato gli elementi di debolezza che avrebbero segnato le sorti della sinistra non solo italiana di fronte all’emergere della reazione fascista. Contenendo un monito che risulta quanto mai attuale tutt’oggi.