Le mani intrecciate. Per uno studio sull’immaginario collettivo della cooperazione

Alessandra Frontani

Abstract

Nel 2011 l’Italia celebrerà il centocinquantesimo anniversario dell’unità nazionale. Questo articolo cerca di iniziare a colmare una lacuna nella ricerca storica: lo studio delle azioni controrisorgimentali nel Nord della Toscana e u

Abstract english

In 2011 the Italian nation-state will celebrate one hundred and fifty years of unification. This article aims to contribute in filling a gap in the historical research of the period by analysing the anti-unitarian actions in Northern Tuscany and most of all the phenomenon of volunteers in the Estense brigades which were allied with the Austrians. The primary sources used in this paper consist of unpublished official documents from the local archives (Massa). What comes out by analysing the sources is that there was a relevant phenomenon of militar volunteering in anti-unitarian corps and that these corps were against the process of national unification. The larger implications of these findings demonstrate that anti-unitarian political views as well as action were present not only in the Southern part of Italy, but also in the Centre-North.
na analisi in profondità del fenomeno del volontariato militare nella Brigata estense, alleata con gli austriaci. L’approccio metodologico di questo articolo si fonda sull’analisi di documenti inediti reperiti dall’autore nell’archivio locale di Massa Carrara. Il risultato dell’analisi di questi documenti evidenzia la presenza di un rilevante fenomeno di volontariato militare contrario al processo di unificazione nazionale. La principale implicazione di questi risultati consiste nella dimostrazione che sentimenti ed azioni antiunitarie erano presenti non solo nel Sud del paese ma anche al Centro-Nord.[/learn_more]

Tra le società cooperative, nate dalle idee di associazione e rinnovamento sociale dell’800 e caratterizzate dall’intreccio del carattere solidaristico e imprenditoriale, è sopravvissuto sempre un sentimento di appartenenza, un desiderio di riconoscersi e associarsi, e quindi di accostarsi anche visivamente in un movimento di dimensione europea. È questo desiderio che ha contribuito alla formazione di un immaginario, di un patrimonio di simboli, di elementi iconografici, di messaggi e forme rappresentative che hanno accompagnato la storia della cooperazione.

La stretta di mano, ricordata nel titolo, simbolo di solidarietà e impegno, è l’elemento più rappresentativo di questo linguaggio mutato nel corso del tempo, ma ancora vivo nonostante le trasformazioni affrontate dalle società nei paesi occidentali, in un’economia globale e in un mercato sempre più competitivo e complesso.

La maturità raggiunta dagli studi sul fenomeno cooperativo, non più interpretato solo come subcultura politica (Degl’Innocenti 2002; Zangheri, Galasso, Castronovo 1987; Fabbri 1979), permette di approfondire temi nuovi e sfruttare fonti storiche meno consuete, come quelle iconografiche e visuali. Questo tipo di fonti è stato ormai da tempo adottato nell’ambito degli studi sulla comunicazione politica, o sulla sociabilità (Agulhon 1988; 1989; 1989b; Ridolfi 2002). Dietro la spinta della storia dell’arte e dell’antropologia, sono nate le prime categorie di analisi. Si pensi alla riflessione sul significato storico delle immagini e sulla psicologia della rappresentazione, sullo scambio tra osservatore e osservato di storici dell’arte come Ernest Gombrich (Gombrich 1960), Erwin Panofsky (Panofsky 1962), Svetlana Alpers (Alpers 1983; Mitchell 1986). Mentre la storiografia ha per tanto tempo relegato l’immagine a illustrazione e completamento della ricerca su fonti scritte, per scoprirne solo di recente l’importanza come strumento e nello stesso tempo oggetto di indagine storica. I primi studi di questo tipo sono stati sperimentati nell’ambito della storia moderna e medievale seguendo il filone della storia della cultura e della mentalità, nel quale rientrano gli studi sulla visione della morte di Michel e Gaby Vovelle, sul mito repubblicano di Maurice Agulhon, oppure nel solco della storia dei sistemi totalitari e dei partiti politici, ricordiamo i saggi sull’iconografia dell’Unione Sovietica, sul culto del Littorio di Emilio Gentile, sulla Germania nazista di George Mosse, infine i recenti lavori sulle elezioni politiche viste attraverso i manifesti elettorali.

Quale contributo quindi potrebbe dare lo studio della produzione visiva nel contesto della storiografia sulla cooperazione? Una delle caratteristiche più importanti riconosciute alle immagini in ambito storiografico è quella di “rivelare” i processi di costruzione di idee e concetti, di interpretare la storia della mentalità, e nello stesso tempo di comunicazione ideali e scopi commerciali sospesi tra committente e destinatario, condizionati dal supporto utilizzato (Dupreat 2006; Haskell 1997). Ecco, a mio avviso, a questo potrebbero essere utili le immagini, anche nello studio di un fenomeno mutevole e complesso come la cooperazione, caratterizzato dall’intrecciarsi di piani diversi: idee universali, realtà locale, storia dell’associazionismo e vicende imprenditoriali. L’iconografia rimane, comunque, uno strumento complesso e, per alcuni aspetti, lontano dalle competenze degli storici: si pensi all’importanza del supporto tecnico, alla varietà delle forme visive (dai fumetti al cinema), alle questioni di semiologia del vocabolario grafico, al problema della ricezione e del pubblico. E infine la scarsità di archivi specifici.

I primi studi che propongono un esame approfondito della cultura visiva della cooperazione appartengono alla storica dell’arte Giovanna Ginex (Ginex 1983; 1986) a partire da un saggio del 1983 sulle medaglie della mutualità. Da questi lavori emerge subito quanto sia ricco e vario il patrimonio di simboli e immagini raccolto nel tempo come rappresentazione di se stesse, delle idee di solidarietà e cooperazione, o come pubblicità dell’attività imprenditoriale.

Sempre nell’ambito degli studi sull’immagine della cooperazione, di grande interesse sono i saggi sulla fotografia di Luigi Tomassini (Tomassini 2002) dedicati alle cooperative di lavoro e consumo, e quelli dello stesso autore sulle pubblicazioni periodiche delle società di consumo. Contemporaneamente il tema è stato affrontato, ma non approfondito storicamente, da alcuni saggi sui marchi coop e la pubblicità pubblicati dalle stesse cooperative. Inoltre, l’analisi dei simboli della cooperazione è stata presa in considerazione a margine degli studi ampi e approfonditi sull’iconografia dei partiti politici. In questo saggio, tenendo conto di un arco temporale centenario, ho cercato di definire l’esistenza e l’evoluzione di un immaginario comune al quale dalle origini a oggi si sono richiamate le cooperative. Le rare raccolte di “oggetti visivi” nei fondi di cooperative, hanno reso preziose per questa ricerca altre fonti: giornali, riviste, cataloghi delle esposizioni internazionali, repertori di medaglie, bandiere, poster, cartoline conservati, periodici, giornali, almanacchi, numeri unici, libri pubblicati dalle stesse cooperative per commemorare la fondazione o altre ricorrenze; e in generale le fonti a stampa che presentavano, descrivevano e commentano immagini, simboli, bandiere scelte da sodalizi e istituzioni cooperative.

Un patrimonio di simboli

Giovanna Ginex, nei suoi importanti saggi dedicati alla produzione iconografica delle origini della cooperazione, riconduce l’ampio repertorio visivo utilizzato dai sodalizi cooperativi a tre matrici culturali: l’esperienza iconografica della massoneria, la cultura cristiana e l’immaginario classico. “Un insieme complesso e composito di segni e simboli – scrive la Ginex – quindi, intercambiabili e ricorrenti, nessuno dei quali originale”.

Il movimento cooperativo, in Italia come in Europa, dava un’immagine alla sua identità, ancora in formazione, attingendo dalle varie tradizioni associative e dalle culture iconografiche affini. Del resto, molte cooperative erano nate su preesistenti sodalizi di mutuo soccorso, a loro volta dalle lontane origini massoniche, oppure in sostituzione di antiche corporazioni di mestiere. Le origini delle società spesso spiegano le scelte visuali, e viceversa dalla iconografia si può risalire all’origine culturale della cooperativa. In particolare in Italia, dove la realtà cooperativa fin dall’inizio si rivelò molto complessa e sfaccettata, per la compresenza di rapporti di produzione capitalistici e attività arcaiche (Sapelli 1981, 3-32).

Alla nascita delle cooperative, e quindi anche alla scelta delle immagini rappresentative, contribuirono diverse correnti ideali: l’associazionismo mazziniano, le idee progressiste della borghesia colta, i principi repubblicani e democratici, la mentalità paternalistica dei conservatori, e, più tardi, una coscienza sindacale e di classe (Della Peruta 1986). La composizione sociale delle associazioni era molto varia, andava dai lavoranti di antichi mestieri ai medici, dai tipografi ai braccianti, dai muratori agli impiegati civili. In genere, accolsero con favore le idee cooperative le categorie legate a precedenti organizzazioni di mestiere e i gruppi sociali più colpiti dai cambiamenti economici e della perdita delle preesistenti reti di solidarietà. Se unanime era la fiducia nell’associazione, nell’autonomia del lavoro e dell’organizzazione, ognuno tendeva ad attribuire obiettivi e ideali diversi alla cooperazione. Tutto questo rendeva molto varia e complicata, a volte discordante, la selezione dei simboli e il modo di autorappresentarsi.

Dalle scelte, elaborazioni e invenzioni di questo percorso visivo, comunque, alcuni elementi simbolici ben presto divennero più importanti degli altri nel rappresentare la storia e i valori cooperativi, come l’immagine delle mani intrecciate in un gesto solenne, un patto indissolubile, ricamata nelle bandiere, forgiata nelle medaglie, negli stemmi delle società cooperative di diverse epoche e nazioni. “La stretta di mano” veniva raffigurata in molte varianti nelle quali ogni particolare assumeva un significato: descriveva la composizione della cooperativa, il genere e l’estrazione sociale dei soci. Le mani potevano essere entrambe maschili, o entrambe femminili, una per sorta, di uguale o diversa dimensione, a volte comparivano i polsini da borghese o da contadino, da donna o da uomo, e così via. Il simbolo della stretta di mano sintetizzava l’essenza della cooperazione, la sacralità dell’alleanza, ed esprimeva meglio di ogni altra immagine la solidarietà del lavoro nelle società cooperative. Le mani, del resto, sono da sempre la parte del corpo più raffigurata. Fin dall’antichità simboleggiavano l’operosità dell’uomo, la capacità di guarire, la facoltà di consacrare. Le mani aperte o chiuse, congiunte o intrecciate richiamavano alle facoltà divine, di un dio con sembianze umane. Nelle monete romane, la stretta di mano era simbolo della “Concordia”; nell’araldica indicava fedeltà e alleanza; nella tradizione massonica era il segno di riconoscimento della “catena dei fratelli” (Caretti, Degl’Innocenti, Silei 2002).

Dal materiale raccolto negli archivi e nelle pubblicazioni è evidente che fin dalle origini, alla metà dell’Ottocento, alcuni elementi iconografici risaltavano sugli altri: la ruota dentata, il sole e gli anelli intrecciati. La ruota dentata nella simbologia massonica era propriamente l’emblema della cooperazione tra forze, dell’aiuto reciproco. Gli anelli intrecciati erano il segno dell’unione indissolubile, della fedeltà. Il compasso, la squadra incrociata e il triangolo, simboli del mestiere di origine massonica, espressione della Materia e dello Spirito, a volte associati alla piccozza o alla vanga, metafore del lavoro operaio e contadino (Rionchetti, 1922; Biedermann 1991; Chisesi 2002).

Altre immagini, cui le società affidarono l’espressione dei valori cooperativi, provenivano dalla tradizione iconografica classica: ad esempio il fascio littorio, il berretto frigio antico copricapo degli schiavi liberati, gli emblemi dei consoli della Roma repubblicana, l’aquila, la personificazione delle idee di libertà, fratellanza, cooperazione. E ancora, la cornucopia, o corno dell’abbondanza, accompagnata nella tradizione classica dalla divinità allegorica della Concordia o dell’Abbondanza, raffigurata insieme a un manipolo di spighe o di altri fiori, l’alma mater. Allegorie e miti classici, che rielaborati attraverso le idee e gli eventi della Rivoluzione Francese, avevano assunto significati nuovi. Queste immagini si trovavano spesso composte in eclettiche panoplie di simboli di origine diversa.

Di questo ricco repertorio faceva parte l’iconografia cristiana, soprattutto nei coni e negli stemmi delle società cattoliche: come le chiavi di San Pietro, il Sacro cuore, San Giovanni. Spesso persistevano insieme agli antichi simboli delle corporazioni di mestiere, sostituite dalle cooperative nella loro funzione di protezione sociale: non a caso i primi sodalizi di mestiere nascevano dalle ceneri della tradizione corporativa, ad esempio le società di conciatori, lavoranti in legno, sarti, tipografi, ceramisti, calzolai. Dobbiamo ricordare, poi, il contributo della tradizione popolare e democratica del Risorgimento: ad esempio la figura di Garibaldi e Mazzini, le folle che sventolavano il tricolore presenti in molte rappresentazioni e simboli di società. Immagini unite spesso a motti di ispirazione mazziniana: “dalle leggi il progresso”, o mutuati dalla Rivoluzione Francese “Onestà lavoro fratellanza”. La simbologia, inoltre, si formava anche attraverso l’osservazione della realtà, di eventi sociali trasfigurati e semplificati in forme simboliche, come le manifestazioni, i cortei, gli scioperi, le fabbriche fumanti. Sulla scelta dei simboli influisce molto il supporto utilizzato: esistono repertori di figure per ricamare le bandiere, per coniare monete e medaglie, per dipingere cartoline e manifesti, o per illustrare canzoni e inni.

La cooperazione si presentava, quindi, come un contenitore di culture diverse, che non esprimeva un sistema coerente di simboli, come succedeva negli apparati simbolici di partiti. Ma proprio l’intreccio di tradizioni diverse rendeva ricco e vario l’apparato simbolico, che la cooperazione fece proprio, spesso sostituendo il vecchio significato dei simboli con uno nuovo. La cooperazione riuscì quindi a intrecciare insieme rappresentazioni e forme provenienti da storie e culture diverse, tessendo una propria trama visiva salda e costante nel tempo di forme e significati. Quindi se è vero come scrive Giovanna Ginex che la cooperazione non ha prodotto nessun simbolo originale, è altrettanto vero che ha creato un corredo visivo, un insieme di simboli fortemente radicati nella sua storia. Anzi, si può dire che l’immaginario ha contribuito a tenere unite esperienze e forme societarie tanto diverse per genesi e cultura, ha permesso la sopravvivenza di un sentimento di appartenenza e un richiamo quasi sacro alla storia comune, e quindi alla formazione di un movimento cooperativo. Nella costruzione di quest’immaginario, la nascita della Lega delle cooperative ha svolto un ruolo fondamentale.

La Lega delle cooperative e la nascita della tradizione storica

La Federazione delle Cooperative, poi Lega, nata nel 1896 nell’ambito delle società operaie lombarde, fu la prima istituzione unitaria tra le cooperative a esercitare funzioni di rappresentanza politica e sindacale. All’inizio rappresentava solo una piccola parte delle cooperative, e solo alle fine del secolo acquistò una dimensione nazionale. Comunque fin dalle origini, contribuì in modo decisivo alla nascita di un movimento cooperativo vero e proprio, rafforzando identità e tradizione storica. Molto importante fu sicuramente la pubblicazione di alcuni periodici: come “La Cooperazione Italiana” quindicennale pubblicato a Milano dalla Lega a partire dal 1896, e gli “Almanacchi”, riviste annuali ricche di immagini e rubriche dedicate alla storia della cooperazione, per fissare nella memoria e nel racconto i nomi e i volti dei padri fondatori.

Attraverso le illustrazioni, le vicende della cooperazione assumevano i tratti del mito. Dalla casetta di Rochdale, dove era nata la prima cooperativa, alle immagini di gruppo dei probi pionieri: i ventotto soci tessitori che aprirono il primo spaccio in un vicolo della cittadina inglese di Rochdale. I grandi cooperatori erano ritratti con parole e immagini nella rubrica “Apostoli della libertà” de “La Cooperazione Italiana”, i custodi delle “virtù cooperative”, erano gli interpreti in carne e ossa della solidarietà e dell’impegno collettivo. Tra i pionieri spiccavano i volti, in posa autorevole e seria, di Edward Vansittart-Neale e George J. Holyoake (Totomianz 1954), di coloro che erano considerati i padri della cooperazione italiana, come Giuseppe Mazzini, Luigi Luzzatti (“La Cooperazione Italiana”, 13 settembre 1902, n. 478), Francesco Viganò (“La Cooperazione Italiana”, 13 agosto 1904, n. 578), Antonio Maffi (Ibidem), Luigi Buffoli (“La Cooperazione Italiana”, 13 agosto 1904, n. 578), Carlo Rota (Ibidem), Lorenzo Ponti (Ibidem), martiri come Evaristo Missiroli (“La Cooperazione Italiana”, 15 aprile 1899, n. 300) o Cesare Martini (“La Cooperazione Italiana”, 5 marzo 1900, n. 314).

Nacquero in questo contesto alcune delle immagini più rappresentative della cooperazione. Nel 1896 per illustrare la prima pagina de “La Cooperazione italiana” (13 agosto 1904, n. 578), venne chiamato il pittore Campi, con il preciso compito di ideare un’immagine fortemente simbolica. Il risultato è il disegno che ancora oggi campeggia sull’intestazione del giornale: una signora imponente che stendeva la sua mano protettrice, accanto una cornucopia traboccante di monete fatte cadere verso un portamonete aperto, disperse tra rami, fiori e lettere della parola “Cooperazione”. Dall’altra parte: un’incudine. L’allegoria personificava la Cooperazione e nello stesso tempo la Lega: rappresentata come protettrice del mondo cooperativo. La cornucopia esprimeva una sorta di augurio verso lo sviluppo economico e il progresso sociale, che la cooperazione contribuiva a creare e a distribuire in maniera più equa verso gli strati poveri della popolazione.

Negli articoli de “La Cooperazione Italiana” o degli Almanacchi si percepisce il grande impegno della Lega nella creazione di un immaginario condiviso: “Le idee innovatrici – si legge nell’ Almanacco del 1905 – si fanno strada e diventano coscienza universale specialmente per influenza di manifestazioni artistiche”. Per trovare dei modelli iconografici, che rendessero comprensibili a tutti ideali e valori e raggiungessero così la mente e il cuore degli uomini, per trasformare l’idea cooperativa in sogno e speranza, seguendo le orme del socialismo più attendo ed esperto nella propaganda, erano necessari artisti, pittori e musicisti votati a diffondere gli ideali cooperativi:

Le stridenti disuguaglianze sociali furono messe, con straziante verità, sotto gli occhi del mondo lieto e spensierato dal “proximus tuus” del D’Orsi, dall’“Infortunio sul lavoro” di Vela, dallo “Spartaco moderno” di Ripamonti, e dalle opere d’altri insigni artisti, le sui tele e le cui sculture restano permanente monito agl’impellenti doveri delle classi dirigenti. Il principio cooperativo avrà il suo scultore e il suo pittore? (“Almanacco Illustrato dei cooperatori pel 1905”, 1905, 17-18).

Un’altra tappa importante nella costruzione di un immaginario sono i disegni ricchi di simboli e allegorie dell’illustratore Giovanni Crotta, storie illustrate che traggono spunto dalle strofe del Canto dei cooperatori. Nonostante i risultati artistici non proprio esaltanti “ben lontani per incisività, originalità e semplice tecnica grafica degli illustri esempi di arte sociale”, vennero immediatamente riconosciuti come allegorie “ufficiali” della cooperazione: “Abbiamo le otto allegorie illustranti le strofe del canto dei cooperatori – si legge ne “La Cooperazione Italiana” del 7 novembre 1908 – abbiamo le quattro riproduzioni dei quadri del pittore Agazzi che figurarono all’Esposizione del 1906 in Milano; abbiamo il simbolo della cooperazione del pittore Campi che figura in testa al nostro giornale” (“La Cooperazione Italiana”, 7 novembre 1908, n. 799). Si fa riferimento anche ai quadri del pittore Carlo Paolo Agazzi, che spostano l’attenzione su di un’altra occasione importante di elaborazione dell’identità visuale delle società come associazioni e imprese: le esposizioni nazionali e internazionali, appunto. Per le cooperative le esposizioni erano un’occasione imperdibile per esporre gli sviluppi e i successi ottenuti e presentarsi come elemento di progresso umano. Per le singole società era, inoltre, un modo per mostrare, all’ambiente economico e ai comuni cittadini, le capacità professionali raggiunte, il bilancio dell’attività, la modernità della produzione e dell’organizzazione. La più importante fu l’esposizione di Milano del 1906, dedicata specificamente alla celebrazione del lavoro umano, prima vera occasione di mostrare al mondo il grado di sviluppo raggiunto dal nostro paese (Esposizione di Milano 1906. Guida ufficiale, 1906, 36). Le due principali opere presentate all’Esposizione dal movimento cooperativo, dalle sue società e organizzazioni principali, riguardavano proprio il tema del lavoro. Come il dipinto di Carrà esposto in rappresentanza della Federazione delle cooperativa di Milano, opera esemplare della monumentalizzazione del lavoratore e del valore universale della fatica umana che l’etica cooperativa esprimeva. E i quadri di Carlo Paolo Agazzi situati nelle nicchie del padiglione dedicato alla “Previdenza”, e le forme nelle quali “volge le provvide sue cure”, tra cui “La cooperazione”. Si tratta di due dipinti intitolati: Cooperazione e l’altro, che ebbe maggiore fortuna, spesso riprodotto negli almanacchi, Organizzazione. Il primo, di impianto classico, rappresentava gli operai, dipinti secondo canoni ideali, mentre costruivano una casa passando di mano in mano i mattoni: “è l’edificio sociale delle armonie economiche a cui stanno collaborando le energie lavoratrici della civiltà moderna, intese a fondere in un’unica forza i due elementi della produzione, capitale e lavoro” (“La Cooperazione Italiana”, 12 maggio 1906, n. 669).Il quadro Organizzazione rappresentava, invece, la “Cooperazione” come un soggetto mistico e astratto, come armonia di leggi che governavano l’universo e tracciavano nell’infinito le orbite assegnate ad ognuno degli astri. La tecnica divisionista e la luminosità donavano a questo dipinto carattere irreale e fiabesco.

L’attività della Lega e delle Federazioni non basta a descrivere tutto il complesso mondo di immagini che ruota intorno alla cooperazione. Come abbiamo detto all’inizio, l’immagine della cooperazione si forma dall’intreccio della natura ideale e imprenditoriale. Infatti, negli stessi anni accanto alla retorica cooperativa, all’iconografia ideale, al pantheon dei probi pionieri, si formava, e diventava sempre più importante, l’immaginario legato all’attività commerciale: dalle sedi degli spacci cooperativi alle prime forme di pubblicità negli annunci dei giornali, fino a primitivi marchi commerciali.

Verso il mercato: Reclame, Affiches e Marchi, l’immagine commerciale della cooperazione

A cavallo tra i due secoli, molte società si aprirono al mercato e si caratterizzano più decisamente come imprese. Se ne trova traccia anche nella legislazione: da meri strumenti associative e filantropici, le cooperative vennero codificate come mezzi di correzione degli squilibri sociali ed economici. Iniziarono così a proiettarsi verso l’esterno, a confrontarsi con le altre aziende, accettando le regole del mercato. Tra queste regole: la pubblicità, che a cavallo tra ’800 e ’900 significava grandi manifesti appesi ai muri dei centri urbani, nei tram, nei caffè, nei teatri. Oppure dei piccoli annunci messi insieme nelle ultime pagine dei giornali. Particolarmente attenti a questa attività commerciale erano “La Domenica del Corriere”, “La Tribuna Illustrata”, l’“Illustrazione Italiana”, ma anche gli almanacchi, le guide cittadine, i primi elenchi telefonici. Gli annunci si stavano affermando nel gusto, nella grafica della pagina stampata, quale nesso vitale con i bisogni e i desideri dei lettori (Medici 1981, 58). Mentre gli affiches si insinuavano nell’immagine della città, quale segno lampante di modernità.

Con alcuni anni di ritardo, e con pochi mezzi, anche le cooperative si apprestarono a utilizzare la nuova arte. All’inizio con austeri riquadri neri, senza immagini, riempiti da scritte, pubblicati nelle pagine de “La Cooperazione Italiana” oppure degli almanacchi cooperativi, più tardi negli elenchi telefonici, nei fogli socialisti, e infine nei giornali illustrati. Le Unioni cooperative furono le prime a utilizzare questi mezzi per promuovere la propria attività: annunci sui giornali, cataloghi da spedire a casa ai soci, e persino i grandi affiches.

I primi annunci delle cooperative si distinguevano per l’attenzione posta sulla “diversità” dei propri negozi: sul diverso comportamento dei commessi, dei prodotti, del lavoro degli operai. Oppure per il richiamo al dovere del cooperatore di contribuire al buon andamento delle società.

È gentile costumanza, nella ricorrenza delle Feste Natalizie e di Capo d’anno, di fare un dono a tutte le persone che ci sono care e legate a noi dai vincoli di parentela o d’amicizia. I cooperatori mancherebbero al loro dovere se, in bazzecole od in cose di lusso, non si attenessero all’acquisto di cose utili. Crediamo che i beneficanti sarebbero più contenti e maggiormente grati. L’Unione Cooperativa è provvista di un ricco assortimento di STRENNE UTILI (Consultare il catalogo). La miglior strenna del Natale è il regalo d’un’azione dell’Unione Cooperativa […].

Con le stesse motivazioni, l’Unione cooperativa di Brescia ricordava ai cooperatori “il dovere morale” di acquistare il necessario esclusivamente all’Unione Cooperativa, mentre invitava tutti gli altri, i non soci, che fossero operai professionisti o impiegati, a visitare il reparto della cooperativa prima di fare acquisti di vestiario in altri negozi (“L’Unione Cooperativa” Brescia, 1901, n. 1); e alla cooperativa di difendersi dagli inganni della speculazione privata, di avere un prezzo onesto e un peso esatto (Ibidem, n.4). Questi principi erano, del resto, già contenuti nello statuto di Rochdale, secondo il quale solo le merci più genuine dovevano essere vendute negli spacci cooperativi e le misurazioni dovevano essere esatte (“Cooperazione e Pubblicità”, 5 marzo 1905).

Il lavoratore della cooperativa – si legge in un altro annuncio – “può dimostrare che egli parla per fede e non per interesse, mentre si sa che l’oste vanta la sua merce per poterla vendere guadagnandovi [… egli] certamente fornisce le merci a misura ed a peso giusto […] la massima garanzia d’esattezza nel quantitativo delle merci che [si] vendono” (“Il Nostro Giornale”, 10 luglio 1910) grazie ai principi cooperativi e ai controlli cui sono sottoposte. L’Unione Cooperativa di Firenze precisava la provenienza di alcuni prodotti alimentari, in particolare del latte, che spesso era stato veicolo di malattie infettive, specificando quale fosse il percorso del prodotto e le modalità di conservazione:

Bacteriologicamente e igienicamente puro e perfetto. Latte proveniente dalla rinomata Tenuta di Perugiano (Montemurlo) proprietà della nobil famiglia De’Pazzi. Le vacche sono tutte rigorosamente sottoposte alla prova – scientificamente la più esauriente e decisiva – della tubercolina. Quella malate o sospette sono immediatamente tolte dalla tenuta e sostituite da altre sanissime. Le bottiglie vengono recapitate la sera o la mattina, a piacere dei clienti, ermeticamente chiuse, mediante tappo di cartone paraffinato, rinnovato giorno per giorno (“L’Unione Cooperativa”, Firenze, 1 gennaio 1905, n. 1).

A questi temi, della onestà dei commessi e della genuinità dei prodotti, si aggiungeva l’economicità, che permetteva di distribuire generi di prima necessità e di consumo popolare a prezzi miti. La cooperativa svolgeva, in effetti, in molte città una funzione calmieratrice dei prezzi, tanto da essere definita “istituzione cittadina” (“Almanacco dei cooperatori e dei previdenti” 1919, 85) per la fornitura di generi di prima necessità. Il basso prezzo dei prodotti si associava a tal punto alle cooperative, che gli altri venditori, a volte, erano costretti nei loro annunci, per dimostrare il basso prezzo dei propri prodotti, a scrivere: “Concorrenza alle cooperative” (“L’anima del commercio” 1892, n. 2).

All’inizio del Novecento apparvero anche i primi marchi originali delle cooperative. La maggior parte di questi marchi commerciali utilizzano semplicemente il nome dell’associazione, rivelando già allora quanto il termine “cooperativa” possedesse una valenza identitaria per le aziende, e un particolare pregio dell’espressione grafica. Inoltre, il marchio evidenziava in questo modo una funzione caratteristica delle cooperative che era quella di “saltare” l’intermediazione tra produttori e consumatori per vendere a prezzi inferiori e garantire la genuinità.

Le prime immagini che comparvero nei marchi commerciali riprendevano elementi decorativi molto diffusi: come gli angeli del panettone dell’Unione Cooperativa di Milano elaborato intorno al 1909. In altri casi, troviamo l’ elaborazione grafica della scritta “coop”, come l’Unione cooperativa di Firenze oppure le Cooperative Operaie di Trieste. Quest’ultime, in particolare, dimostrarono una straordinaria capacità di utilizzare i processi di marketing più moderni del tempo (Ginex 1997, 39-40; Apih 1976), manifesti, vetrine, marchi, e persino forme innovative di promozione dei prodotti: ad esempio l’attenzione al contenitore, che nella comunicazione d’impresa rappresentò fin da subito un elemento importante nella relazione tra prodotto o consumatore (Bucchetti 1997, 141-149). Oppure l’impiego dei mezzi di trasporto per pubblicità, come le automobili con la scritta Cooperator e la tramvia, secondo una concezione e un utilizzo dello spazio urbano (De Grazia 2006) notevolmente progredito per il tempo.

Un periodo di sviluppo e diffusione di tecniche di promozione pubblicitaria, dell’arte grafica, del marketing e della fotografia sono stati gli anni tra le due guerre, nonostante le tormentate vicende che coinvolsero la cooperazione.

Il ventennio fascista: dalle immagini infrante ai simboli riconsacrati

Gli anni tra le due guerre e poi l’avvento del fascismo rimangono tra i più delicati e controversi della storia della cooperazione. Per molto tempo la storiografia si è concentrata prevalentemente sulla fase iniziale del fascismo, sull’interruzione di un periodo di crescita sociale ed economica delle cooperative socialiste e cattoliche, sullo snaturamento degli elementi democratici e partecipativi, e la sostanziale fine della cooperazione (Basevi 1953). Negli ultimi tempi alcuni importanti studi (Menzani 2007; Cavazzoli 1984) hanno oltrepassato la cortina della memorialistica, del ricordo sofferto di quegli anni, dai valori antifascisti. Prendendo in considerazione i momenti successivi, lasciati fino ad allora sullo sfondo, di riorganizzazione e in parte di sviluppo (Menzani 2009).

L’analisi dell’iconografia in questo caso è molto utile: sia per il coinvolgimento delle cooperative nelle liturgie e forme di estetizzazione della società, sia per lo sviluppo di tecniche di riproduzione delle immagini e del marketing.

Gli anni del fascismo condizionarono il periodo successivo anche come esperienza ripudiata della storia della cooperazione, come repertorio censurato e volutamente dimenticato: la scelta dei simboli e dell’immagine nel dopoguerra tenne conto del passato, sia pure per marcare la rinascita e la diversità. I primi anni di repressione e violenza, infatti, segnarono profondamente l’immagine della cooperazione. La “purificazione” squadrista si scagliò con violenza contro le organizzazione del movimento operaio. L’immaginario di quella stagione era costituito da simboli distrutti, bandiere strappate, affreschi dati alle fiamme, dipinti sfregiati. Da “simboli rubati”, come insegne, bandiere medaglie, effigi, provenienti da circoli operai, case del popolo, sedi del partito socialista, cooperative, spacci, federazioni, resti materiali della furia distruttrice, che finirono “messi in mostra” in segno di vittoria per celebrare la rivoluzione fascista. Sul ricordo di questa violenza, si fondò nel dopoguerra la lettura e l’immaginario postumo della cooperazione in quegli anni. Basti pensare alla storia, tra le tante, divenuta simbolo della distruzione fascista, della Federazione di Ravenna e dello splendido palazzo Rasponi dato alle fiamme dagli squadristi, insieme agli affreschi raffiguranti la vittoria del lavoro umano sull’asperità della natura.

Dopo le violenze e la distruzioni, il fascismo cercò di riorganizzare la cooperazione all’interno delle corporazioni e quindi anche di creare una nuova, o meglio “riconsacrata”, simbologia visiva (Ragusa 2008), intonata con la ritualità e la politica dell’immagine del regime. Il fascismo, del resto, si comportava come una religione sincretica incorporando tutto ciò che riteneva utile per celebrare il proprio credo. La cooperazione venne così inserita e ridisegnata teoricamente nell’ambito della cultura corporativa che univa l’opposizione al liberale capitalismo a dottrine di stampo medievalista (Santomassimo 2006; Labadessa 1933; Resta 1933).

La simbologia visiva venne scelta nel vasto repertorio dell’iconografia cooperativa. I simboli più adatti ad esprimere il nuovo ruolo della cooperazione, “riconsacrati” nell’apporto sacro del fascismo, vennero accostati ai fasci littori, al saluto romano, all’aquila, ai soldati. Scompaiono quindi dai certificati delle cooperative, dagli statuti riscritti, dagli almanacchi: la stretta di mano, il sole, i simboli massonici del compasso, la pala, l’incudine, troppo legati alla cultura socialista e massonica. Si ritrovano, invece, le api, l’alveare, le spighe, gli uomini stilizzati che si tengono per mano, l’albero di frutta, le immagini della classicità, e sullo sfondo i colori della bandiera italiana, ormai obbligatoria nelle sedi e nelle assemblee delle cooperative in sostituzione del proibito drappo rosso.

Un esempio di questo intreccio di simbologie è la tessera del Sic del 1920, in cui c’è un elegante trittico, formato dall’emblema principale del Sic, l’albero di frutta, a destra un’arnia, simbolo antico di laboriosità, e a sinistra, un fregio più complesso, formato da una cornucopia traboccante di frutta e da un caduceo, simbolo del commercio, incorniciati da un fascio di spighe e da tralci di vite. Il caduceo era il bastone con due serpenti attorcigliati, associato al dio greco Ermes, dio dei viaggiatori, dell’eloquenza e del commercio. L’albero di pomi e il cartiglio, sul quale era scritto “Adversa concilio”, era l’emblema fin dalla sua nascita del Sindacato delle cooperative, poi divenne simbolo dell’Ente nazionale fascista, Ente nazionale per la cooperazione (Enc poi Enfc): l’albero esprimeva, come indica il cartiglio, la concordia attraverso i rami che confluiscono in un unico tronco, unendo l’alto e il basso, il passato e il futuro.

L’albero e l’alveare esprimevano l’essenza dell’ideale cooperativo fascista di laboriosità e impegno nazionale, inserivano quindi la cooperazione nel culto estetico della nazione, nel complesso di idee e di immagini che richiamavano alla “forma” ideale della società fascista. La collegavano all’ambito tematico del “lavoro”, del corporativismo e della terza via tra socialismo e capitalismo. L’alveare, in particolare, richiamava alla laboriosità, ma anche alla disciplina, alla condivisione del lavoro all’interno di una società rigidamente gerarchica e obbediente: “L’alveare è il simbolo della cooperazione fascista – scriveva la “Voce del Consumatore” nel 1930 – che si basa sulla giustizia, la disciplina e la solidarietà” (30 novembre 1930, n. 6, 2).

Un momento importante di elaborazione dell’immagine della cooperazione fascista fu l’Esposizione nazione della cooperazione, organizzata dell’Enfc, inaugurata il primo novembre 1938 al palazzo delle Esposizioni in via Nazionale a Roma, alla presenza del sottosegretario alle corporazioni Giuseppe Bottai. Il 7 novembre la mostra fu visitata dallo stesso Mussolini. L’esposizione era un modo per ridare dignità alla cooperazione. Un modo per presentarsi al “giudizio della nazione”, per dare prova dell’efficienza raggiunta (Enc 1922, 15-16). La dimostrazione, anzi “la precisa documentazione”, come si legge nella Guida alla mostra, “che la cooperazione, risanata dal Fascismo, in seguito ad un periodo di riorganizzazione, negli istituti e di revisione nei dirigenti, costituisce oggi uno dei fattori essenziali della vita economica e sociale del Paese: elemento efficace di benessere materiale e di elevazione morale delle masse operaie e impiegatizie” (Enc 1922, 15-16). La piazza, un tempo luogo di manifestazioni e battaglie, era ormai la scenografia del regime, dove c’erano schiere di cooperatori “perfettamente inquadrati, in formazione di colonna” (Ibidem, 19), in “camicie nere”, sormontate dalle bandiere “verdi, bianche e rosse”, dai simboli dell’Enc, dai gonfaloni delle città. Risuonavano canti della patria, canzoni squadriste dei “giorni della rivoluzione”, inneggianti al Duce”.

Il tentativo di assorbire la cooperazione nell’organizzazione corporativa conviveva con molte contraddizioni, con un altro progetto fatto proprio dal fascismo: trasformare le società cooperative in aziende come le altre e in gara con le altre, senza privilegi (Bonfante 1981). Lo stesso codice del 1942 risultò “un compromesso tra due diversi progetti, dei quali uno tendeva ad assimilare le società cooperative agli altri tipi di impresa, ed un altro mirava al contrario a riconoscere una relativa autonomia e specificità” (Fornasari, Zamagni 1997, 141).

La legislazione meno protettiva, la burocratizzazione delle società cooperative, il distacco tra la gestione e i soci con la formazione di una classe di dirigenti e funzionari, fece sì che le cooperative seguirono sorti diverse: mentre alcune società furono drasticamente ridimensionate, altre prosperarono e svilupparono un proprio modo di fare impresa, acquisendo conoscenze tecnologiche e fattuali, adottando moderni criteri di organizzazione industriale.

Gli storici hanno guardato con molto attenzione alle vicende della Cooperativa muratori e cementisti di Ravenna, della Sacmi di Imola, dell’Aster coop di Udine (Menzani 2007; 2009; Virgini 1998; Casadio 2001).

Questo know-how imprenditoriale includeva anche un maggiore interesse verso la comunicazione d’azienda, verso la pubblicità, soprattutto negli anni dell’autarchia le aziende italiane erano spinte dal regime a occupare gli spazi pubblicitari lasciati liberi dalle società internazionali.

Tra le società cooperative, le più attive in campo pubblicitario si dimostrarono ancora una volta quelle di consumo. Il regime consolidò la cooperazione di consumo tra i ceti medi e impiegatizi, che più di altri subirono il cambiamento nei consumi e negli stili di vita di quegli anni. L’Unione Militare di Roma si trasformò in ente parastatale aperto anche a soci non militari, sempre a Roma nacque la “Provvida”, una grande cooperativa per funzionari statali, negli stessi anni furono create le aziende consorziali comunali e un magazzino di acquisti collettivi, Eca (Zamagni, Battilani, Casali 2004, 289-306).

Ripercorrendo la storia di questo settore attraverso le fonti visuali delle pubblicità del tempo, possiamo individuare diversi elementi interessanti nell’uso delle immagini pubblicitarie e del marchio commerciale. Tra il 1924 e 1930 si collocano, infatti, le splendide campagne pubblicitarie dell’Unione cooperativa di Milano, disegnate da Aldo De Luca (Aldo Bruno), Marcello Dudovich, Enrico Sacchetti. Campagne pubblicitarie che seguivano il “gusto del tempo” (Gentile 2009) e l’esempio dei grandi magazzini commerciali come la Rinascente e l’Upim (Ceserani 1998, 134-1369), di grande valore artistico, che fanno parte della storia della pubblicità. Alcuni manifesti dell’Unione sono molto noti, come quello che raffigura una giovane dama in costume rosso che guardava i gabbiani girando un ombrellino o la filiforme signora che si stringe al collo il cappotto investita dal vento autunnale e dalle foglie secche.

Nello stesso periodo, venne messa appunto in maniera più matura la strategia del marchio delle Operaie di Trieste, da Cooperator a co-op, applicato ad alcuni prodotti di largo consumo come pasta, uova e marsala. Basta consultare la “La voce del cooperatore”, giornale della Federazione delle cooperative di consumo, per rendersi conto del numero di pubblicità di cooperative, ma anche di réclame di famosissimi di prodotti e marche molto note, che si vantavano di “essere in vendita nelle più importanti cooperative” oppure di essere “rappresentati tramite l’Eca”. Dietro queste immagini si percepisce la volontà delle cooperative non solo di difendersi dal mercato, ma di intervenire e affermarsi (Degl’Innocenti 1988a, 259-260), seguendo i consigli degli esperti di pubblicità di puntare alle emozioni profonde senza passare per la coscienza (Cavazza, Scarpellini 2006, 197-217).

Mussolini, consapevole delle potenzialità della pubblicità, indicò nell’immagine rinnovata e non dimessa del paese la linea da seguire per editori e pubblicitari. Nel dicembre 1930, “La voce del cooperatore”, edito dall’Enc, bandì un concorso fotografico tra i lettori per illustrare le attività del movimento: il consiglio della redazione era quello di riprendere non solo spacci, case, lavori edili ma di cercare di ritrarre “scene in movimento, d’attualità e fin quanto è possibile gaie” (“La voce del cooperatore”, 31 dicembre 1930, n. 7). La scelta per le cooperative era chiara: abbandonare le tematiche sociali, le immagini di poveri, di famiglie indigenti, di umili lavoratori che avevano popolato per molto tempo l’immaginario della cooperazione e del movimento operaio, dietro la spinta del verismo sociale. Accolsero questi suggerimenti le assicurazioni Maeci, Mutua assicurazione enti cooperativi italiani, nata sotto il diretto controllo dell’Enfc. Il soggetto principale delle campagne della Maeci era la famiglia, la fedeltà, l’amore, la giovinezza. Le pubblicità ritraevano attraenti ragazze in costume: “Una sorridente ragazza moderna, in costumino succinto, dotata di ottima salute e priva di timori per il suo avvenire. Essa attende dai dirigenti delle cooperative di sapere se hanno assicurato le loro società presso la Maeci, diretta ed originale creazione del movimento cooperativo rinnovato, assume qualunque rischio e difende i suoi assicurati che sono anche i suoi associati” (“La vita cooperativa”, 1932). Le indicazioni di Mussolini, attentissimo anche alle minuzie, nella pubblicazione delle immagini, erano chiare: cambiare la visione di un paese povero e arretrato, di un popolo umile e imbelle in quello di una nazione progredita e “felice”.

Le cooperative inoltre, proprio per il loro rapporto con le istituzioni erano spesso coinvolte nelle campagne fasciste. Sostenevano le campagne pubblicitarie: la battaglia del grano, l’autarchia, la difesa del prodotto italiano (“Il Lavoro cooperativo”, 3 dicembre 1931, n. 9). Addirittura, in alcune pubblicità delle società cooperative, si vede Mussolini camminare tra le alte spighe pronte per la mietitura (“L’agenda del cooperatore” 1932), tra i mezzi meccanici dei cantieri. L’attenzione maggiore, anche nelle fotografie, era rivolta alle macchine e agli stabilimenti, dove si svolgevano i lavori e dove i prodotti venivano trasformati: essiccatoi, reparti di vendita, caseifici, cisterne, latterie. Segni visivi dell’aspirazione alla modernità, che coinvolgeva anche le coscienze cooperative. La meccanizzazione, aspetto anche in passato valorizzato delle società di produzione, venne ripreso e sviluppato nelle pubblicità del tempo. Come mostra Luigi Tomassini (2002) in un attento studio sulle fotografie dell’archivio della Federazione delle cooperative di Ravenna e del periodico “La Santa Milizia”, organo del fascismo ravennate, dal 1923 e il 1939: persino dal punto di vista stilistico – nota Tomassini – i fotomontaggi, il taglio delle foto, le inquadrature tendevano a costruire una narrazione tesa a mostrare la modernità e l’efficienza delle aziende cooperative.

Dalla “ricostruzione” alla svolta imprenditoriale: immagini, laboratorio d’identità

Dal dopoguerra a oggi la cooperazione ha attraversato un lungo periodo di ripensamento della propria identità e del proprio ruolo nella società e nell’economia. Le immagini e le varie forme di auto-rappresentazione, sono state un laboratorio importante di questo processo di cambiamento. La rappresentazione visiva, infatti, assunse un’importanza crescente nell’ambito della comunicazione politica e commerciale. Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale e la nascita della Repubblica, la cooperazione, come i partiti politici e i sindacati, si impegnò nella ricostruzione del movimento e del tessuto cooperativo trasformato dalla dittatura e stremato dalla guerra. Era, quindi, necessario dipanare i fili della propria storia e ricollegarli tra loro, per ritrovare un’identità. La svolta più profonda nel modo e nelle forme dell’autorappresentazione si realizzò, però, più tardi, negli anni Sessanta. Quando le immagini, da espressione di ideali, diventarono principalmente strumenti di confronto e di concorrenza di un soggetto che agiva nel mercato. Stretta tra la società che cambiava – e insieme a lei la famiglia, le categorie sociali, la vita e la personalità dei soci – e il mercato sempre più concorrenziale, la cooperazione cercò per sopravvivere di ridefinire se stessa.

Il fermento culturale e politico del dopoguerra contribuì al fiorire di molte cooperative, al ritorno in auge delle idee solidaristiche celebrate anche nella Costituzione. La riconquista del proprio spazio nella società e nel mercato dipendeva, più che in passato, dalla cultura visuale. Lo sviluppo delle tecnologie di riproduzione e di diffusione visiva – basti pensare alla grafica pubblicitaria, alla televisione, e più tardi a internet – cambiarono profondamente il modo di “pensare” e “creare” la propria immagine.

Le cooperative cercarono subito un punto di contatto nel passato prefascista, per riallacciare i fili della propria storia: come è evidente nella scelta delle immagini simboliche, dei nomi, delle pubblicità. La cooperazione rinasceva nel ricordo delle violenze squadriste, degli scioglimenti e dei commissariamenti degli anni del fascismo, della perdita dell’identità democratica.

Il sospirato riacquisto della libertà, il crollo del fascismo e con esso il fallimento della classe dominante italiana, il riprendere vigoroso dei grandi movimenti popolari di massa, dai partiti ai sindacati, aveva spinto i vecchi cooperatori a tentare, attraverso l’impresa cooperativa, le possibilità di un nuovo lavoro libero ed indipendente (“L’Agenda del cooperatore”, 1950, 13).

Idealmente e visivamente si ristabilì un legame con le origini, o con il primo dopoguerra, gli anni di massimo sviluppo del movimento. Così la bandiera della nuova Lega si richiamava a quella del 1886: tre cechi sormontati da una striscia di colori, come un arcobaleno, che stabiliva un legame con la cooperazione internazionale. A partire dal congresso di Grant del 1924, infatti, l’arcobaleno, già simbolo della pace dopo la guerra, era stato scelto come vessillo dell’Alleanza Cooperativa internazionale (“Il cooperatore di Trieste” 1953, n. 293).

La rappresentazione del lavoro cooperativo trovò nuova vitalità nel lavoro di artisti vicini alla cooperazione. La stessa Lega, come negli stessi anni fecero altre organizzazioni di sinistra, come il partito comunista e il sindacato, sostenne e alimentò con iniziative di mecenatismo la produzione artistica. Artisti come Saro Mirabella, Augusto Mürer, Aldo Borgonzoni, Renato Guttuso, o registi come Carlo Lizzani si impegnarono a rappresentare la povertà e la forza morale dei braccianti, muratori, minatori, sarchiatrici, magazzinieri, oppure territori, città, campagne dove erano nate o lavoravano le cooperative (Martini 2006, 79; Solmi 1976).

Il bagaglio dell’iconografia cooperativa, possiamo dire, quindi, che nonostante il fascismo e la guerra si conservò, dimostrando capacità di rinnovamento. Neppure il fascismo, con la sua forte carica simbolica, era riuscito distruggere o a fare propri i simboli della cooperazione: raramente li aveva cambiati o sostituirli, si era limitato a giustapporre i propri emblemi. Accanto ai simboli classici della cooperazione, troviamo tra gli anni ’50 e ’70 alcune sintesi efficaci dei principi cooperativi più vicini all’ambito aziendale: come la freccia, segno utilizzato soprattutto in ambiente economico, per rappresentare il progresso, o il “cubo” costruito da piccole parti incastrate e sovrapposte: anch’esso associato al significato di collaborazione, di unione di forze distinte, incuneate in un’unica entità. Oppure la “Melagrana” scelta dalla Confederazione delle cooperative ricostituita nel 1945, simbolo antico di origine cristiana che richiamava l’immagine di un’istituzione che riuniva tante distinte società liberamente associate come i chicchi rossi e dolci della melagrana racchiusi un guscio protettivo e coriaceo. Un simbolo quindi di unione nella diversità. Infine la grafica del nome: l’intuizione di utilizzare i nomi per creare i simboli risale come abbiamo visto alle pubblicità pionieristiche delle Unioni cooperative e delle Operaie di Trieste, ma, a partire dagli anni Sessanta, assunse un ruolo primario nell’iconografia cooperativa. Basti pensare al simbolo Coop, o più tardi alla stessa Lega, che dalla fine degli anni Settanta cominciò ad utilizzare il valore grafico delle lettere, ridisegnate in corsivo e tondeggianti.

I messaggi visivi della pubblicità sicuramente definirono l’immagine della cooperazione nella seconda metà del Novecento più di qualsiasi altra forma di auto rappresentazione, ormai con più efficacia e diffusione di quanto potessero bandiere, stemmi, immagini ideali, film, dipinti. Le cooperative di consumo furono come al solito le più attive in questo campo, compresero fin dagli anni Sessanta l’importanza di gestire la propria immagine, di coordinarsi tra loro, e di mettere in atto un’attenta politica di promozione pubblicitaria. Una scelta non priva di contrasti tra cultura cooperativa e gestione imprenditoriale, che condizionò anche la elaborazione del linguaggio visivo.

Le forme, i colori, gli slogan pubblicitari della cooperazione di consumo entrarono a far parte dell’immaginario degli italiani, della vita quotidiana delle famiglie, materializzandosi nelle “cose”, nel design degli oggetti, nella grafica del nome.

Negli articoli della “Cooperazione Italiana” si evince l’urgenza di costruire un’immagine pubblicitaria coordinando l’attività degli spacci e diffondendo i prodotti a marchio “coop”, inventato nel 1949 e riconoscibile da una catena umana in cerchio, al centro l’Italia e la scritta coop. A lato, il motto: “Coop, produci e consuma” su alcuni prodotti di largo consumo come il sapone da bucato e da toletta, il cioccolato, il caffè (Mazzoli, Tassinari 1997, 155). “È necessario – scriveva Cesarina Castelli in un articolo del 1949 – convincere la maggioranza dei lavoratori che gli acquisti presso le cooperative, e soprattutto l’acquisto dei prodotti “coop” è a loro completo vantaggio […]. La propaganda dovrà essere orientata verso le masse lavoratrici delle grandi aziende e delle fabbriche. Al ‘La Cooperazione Italiana’ suggeriamo dedichi ai prodotti coop uno spazio tutte le settimane: con fotografie, listini, che periodicamente bandisca concorsi a premi per frasi pubblicitarie”, concludeva rassicurando che non si trattava di “propaganda costosa, ma soltanto di quella che può e deve essere attuata con tenacia, intelligenza e spirito cooperativo” (Castelli 1949).

Mentre la cooperazione di consumo utilizzava l’identità cooperativa per valorizzare l’immagine dei propri prodotti già agli inizi del secolo, e con convinzione sempre crescente nella seconda metà del Novecento, le altre forme di cooperazione di lavoro, produzione, e per molto tempo anche di credito temevano ancora pregiudizi e critiche alla forma cooperativa dell’azienda, e preferivano puntare sulla qualità dei prodotti, sul rapporto con il territorio. Si pensi alle note pubblicità del burro giglio o della pasta Corticella (“La posta illustrata” 1954).

Le incertezze sul valore della natura cooperativa persistettero, in realtà, per molto tempo anche nell’ambito del consumo. All’inizio, ad esempio, il marchio “coop”, non era molto visibile e diffuso, ed era accompagnato da altri marchi di fantasia. Quest’ultimi erano la dimostrazione dell’incertezza nella promozione dell’immagine: erano scelti per evitare di legare in modo troppo vincolante il prodotto al mondo cooperativo, con tutti i connotati ideologici che questo comportava. Solo a partire dagli anni Sessanta si iniziò a mettere ordine nelle etichette e in seguito ad adottare una coerente strategia d’immagine a marchio esclusivo.

A partire da quegli anni, il processo di fusione e acquisizione delle cooperative e dei consorzi provinciali in poche grandi cooperative di consumo rafforzò senz’altro la promozione pubblicitaria (Zamagni 2004, 564-568), che richiedeva sempre maggiori investimenti. Sembra utile ricordare alcune tappe fondamentali della pubblicità coop, già oggetto di alcuni interessanti studi. Nel 1962, venne chiamato Albe Steiner, grande nome del design, militante del Pci, e autore di molti manifesti per il partito comunista e per l’Anpi. Gli venne affidato il compito di allestire il primo supermercato del movimento, Coop1 di Reggio Emilia, e di progettare l’immagine generale della Coop, compreso il logotipo divenuto poi molto noto: la scritta “Coop” di colore rosso, pian piano adottata da tutti i magazzini. Nella grafica ricordava le scritte delle cooperative dell’Europa dell’Est, spesso prese come modello dalla Lega e dall’Aicc (“La Cooperazione italiana”, 7 gennaio 1949, n. 2), e lo stile della grafica sovietica. In questi anni apparve nelle pubblicità della cooperazione un’immagine molto importante per la cooperazione di consumo, la “casalinga”, su cui vale la pena soffermarsi. La “massaia-coop”, una donna che spingeva un carrello, oppure teneva sopra la testa un cesto di prodotti coop, divenne, fin da subito, il simbolo del ruolo delle cooperative nella vita familiare moderna. Essa rappresentava, per la cooperazione, la porta d’ingresso al mondo dei consumi, l’unico modo per avvicinarsi ad una società, all’apparenza, così distante dai valori cooperativi. Era la parte buona del consumo: razionale, attenta al prezzo, discreta, priva dalla frivolezza femminile dei moderni stili di vita, non ostentava l’emancipazione come le donne “liberate dai gravosi lavori domestici” delle pubblicità degli elettrodomestici, della lavatrice in particolare (Saccarelli 2006, 157-158); non si preoccupava di essere bella come le donne-manifesto dei profumi, dei cosmetici, dei vestiti. La massaia-coop era inserita nel contesto dei prodotti alimentari e della pulizia della casa. Era una donna esperta nell’economia, nella scelta dei prodotti migliori, sobria e intelligente.

è ormai chiaro – veniva ribadito in un convegno delle coop a Milano – che il successo della nostra cooperazione sarà sicuro e stabile se radicheremo nelle masse l’idea dell’utilità della cooperazione come difesa del lavoratore e della sua famiglia. E le masse verso le quali questa azione di convincimento va particolarmente svolta sono proprio le donne, in quanto clienti e quindi naturale base sociale della nostre cooperative (Tedesco 1949).

Nel 1969, le cooperative iniziarono a utilizzare anche il mezzo televisivo. È di quell’anno il primo passaggio televisivo di un prodotto coop nella trasmissione “Arcobaleno”, ma solo nel 1973 venne trasmesso il primo carosello. La scelta dei soggetti dei primi filmati erano molto interessanti. Immagini, musica e parole si richiamavano alle origini sociali della cooperazione: le immagini delle mondine, dei braccianti, sormontate dai canti della filanda “Mama mia mi sun stua”, degli “scariolanti” emiliano-romagnoli, delle mondariso che si trasferivano stagionalmente nelle risaie piemontesi “Quando saremo a ReggioEmilia”, dei lavoratori tosco-maremmani “Tutti mi dicon maremma”. “Che c’entrano gli scariolanti con la Coop?” chiedeva nel filmato la figlia all’attore e regista Ugo Gregoretti: “C’entrano, c’entrano. Perché parliamo di gente che lavora. È proprio della gente che lavora si è messa insieme e ha dato vita alla Coop per poter comprare prodotti di qualità a prezzo giusto – ecco perché la Coop non mira al profitto: è un servizio al consumatore, per tutti i consumatori. Una grande organizzazione di moderni supermercati e grandi magazzini”. Successivamente, invece, protagonista delle pubblicità televisive divenne “il consumatore”, che riaffermava idealmente la funzione “proprietaria” e partecipativa del socio-consumatore. Questo tema ispirò gli slogan del 1971, 1972, rispettivamente: “Io mi trovo meglio alla Coop, la catena di negozi creata e diretta dai consumatori”; “Coop è dalla nostra parte. Coop è il negozio dei consumatori”. Fino ai messaggi pubblicitari più recenti: “La Coop sei tu, chi può darti di più”. Mentre l’ultimo slogan delle pubblicità coop, “Insieme si può”, rimanda al tema dell’unione delle forze, al simbolo antico delle mani che si intrecciano per darsi aiuto reciproco.

Gli anni Ottanta furono particolarmente innovativi per l’immagine e la strategia comunicativa. Venne affidato al grafico Bob Noorda il rinnovamento della storica immagine dei negozi coop, e del logotipo. E contemporaneamente fu promossa la fortunata campagna pubblicitaria in televisione con protagonista Peter Falk, il popolare tenente Colombo dei telefilm che indagava sulla coop e concludeva: “devo dirlo a mia moglie”. Nel 1989, in occasione del seminario sui prodotti coop di Firenze, cambiò il sigillo apposto sui prodotti: dal quadrifoglio inserito in fasce di colore si passò alla semplice scritta “coop” di Bob Noorda, unita idealmente da un filo rosso a tutti gli altri prodotti della linea.

In un importante seminario del 1983 sul tema della comunicazione (Ancc 1983), si disse che la strategia per un’immagine globale della coop “per essere vincente” doveva nascere dalla massima coerenza tra comportamento e immagine. Il progetto di immagine doveva riguardare ogni più piccolo dettaglio: il marchio, i colori, la segnaletica, i mezzi di trasporto, le divise, il personale, la nomenclatura, la carta da lettere, i giornalini. E in più i temi salutistici, l’ecologia, definiti i “plus di coop”. Alcuni anni più tardi, in altro seminario, al quale parteciparono pubblicitari ed esperti di immagine da tutto il mondo, la comunicazione coop venne confrontata con le politiche di immagine seguite dalle altre aziende come: Prenatal, American express e soprattutto Mac Donald. Proprio quest’ultimo infatti venne additato come modello di maggior successo: un negozio riconoscibile ovunque, tra i monumenti di Roma e in mezzo ai grattacieli di New York. Tom Peters, importante grafico pubblicitario americano, alla domanda sul modo per rimanere diversi, rispondeva che oggi siamo soprattutto “consumatori di miti”, e la cooperazione aveva una splendida storia, un mito resistente, che poche aziende, pochi marchi in Italia e nel mondo potevano vantare.

Infine, un’ultima considerazione meritano i giornali delle cooperative (tra i quali: “L’informatore coop” dell’Unicoop di Firenze, “Coop notizie”, “il nuovo consumo” dell’Unicoop tirreno, “Il consumatore” della coop senese). Queste pubblicazioni, infatti, non erano solo organi di comunicazione interna, ma avevano, e hanno ancora, la funzione di mantenere i rapporti con il tessuto associativo, e con il territorio. La maggior parte dei giornalini sono nati all’inizio degli anni Ottanta, dedicati in particolare alle attività svolte dalle cooperative: informavano sulle attività sociali, come vacanze dei soci, sconti per il teatro e offerte del mese. Mentre la coop dirigeva dal centro (Tomassini 2005, 263) la propria politica della comunicazione, questi giornalini, come “L’informatore” dell’Unicoop di Firenze, o il “Nuovo consumo” della Proletaria, “Quale consumo” della Coop Lombardia, “Consumatori” delle cooperative emiliane, rappresentavano l’iniziativa di maggior rilievo a livello locale. Erano un modo per mantenere viva la partecipazione dei soci, “partecipazione” che ormai significava soprattutto: informazione su iniziative, scelte aziendali e sulle attività delle sezioni soci. Gli articoli, le rubriche e le immagini erano organizzate per comunicare con un target di soci sempre più eterogeneo e complesso, verso il quale si rivolgevano per “educare” alla solidarietà, alla partecipazione, al consumo corretto e razionale, all’alimentazione sana ed equilibrata, al rispetto dell’ambiente. Il sovrapporsi di tematiche di impegno sociale, ambientale, di educazione al consumo “critico”, di lotta alla sofisticazione alimentare, alle frodi, alla pubblicità ingannevoli, serviva a ridare senso e personalità alla cooperazione, ormai investita da profondi cambiamenti, ricreando un senso di appartenenza identitaria. Dalla seconda metà degli anni Settanta, la principale attività sociale della cooperazione era infatti dedicata proprio all’informazione alimentare, all’educazione al consumo, alla difesa del consumatore, della salute contro sofisticazioni alimentari, inquinamento, anche cavalcando la comparsa di paure collettive, legate agli ogm, o all’alimentazione degli animali. Ricordiamo la campagna contro l’uso dei sacchetti di plastica, la battaglia insieme a Legambiente contro l’eutrofizzazione delle acque, di cui era protagonista l’immagine di un pesce con la maschera (Monteduro 1978). Con il passare degli anni, anche questi periodici tendevano sempre più a privilegiare tematiche legate al consumo, giustificando questa scelta con la necessità di fornire strumenti per orientare i consumatori “isolati ad affrontare interlocutori più potenti di lui e muniti di sofisticati strumenti di orientamento” (Tomassini 2005, 279).

Il rapporto con il territorio venne sfruttato nella pubblicità e nell’immagine soprattutto dalla cooperazione di credito: banche popolari e casse rurali rappresentarono se stesse e la propria anima cooperativa guardando al territorio, alla valorizzazione delle risorse e delle professionalità locali. E anche le varie forme di pubblicità rimasero per molto relegate all’ambito locale, riducendosi all’affissione di qualche cartello nei locali pubblici, nelle botteghe, nei circoli, nei magazzini (Bertini 2004, 139).

Anno di svolta della politica comunicativa fu il 1993, quando entrava in vigore il Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, che cancellava i precedenti limiti di operatività consentendo alle banche di credito cooperativo (questa la nuova denominazione stabilita per via normativa) di offrire tutti i servizi e i prodotti finanziati di altre banche. E quindi di entrare a tutti gli effetti in competizione con altri ambienti bancari. Solo allora, la Federazione iniziò a pensare alle campagne pubblicitarie a livello nazionale per rappresentare il credito cooperativo, e ricercare un’identità e un’immagine condivisa delle banche cooperative.

La prima campagna pubblicitaria unitaria del Credito Cooperativo è del 1999. L’immagine scelta per rappresentare la cooperazione era il simbolo della melagrana, il “vecchio” simbolo della Confederazione cooperativa italiana. Lo scopo era quello di rendere l’idea della presenza all’interno del credito cooperativo di tante realtà autonome come i piccoli frutti della melagrana. Questo frutto, inoltre, come abbiamo visto, rimandava alle origini cristiane e rurali.

Nelle prime campagne pubblicitarie prevalse il tema della “diversità”: “pensi di conoscere la banca di credito cooperativo? credito cooperativo differente per forza” era lo slogan coniato per la televisione e i manifesti. Nei manifesti del 2002 compaiono scene di affetto tra un padre e un bambino, tra due fidanzati, volte a suggerire il tema del “mutuo soccorso”; rievocando l’idea di un’antica istituzione che protegge i più deboli (bambini, donne, anziani), per una condizione legata alla vita, non economica o lavorativa. Passando da una campagna pubblicitaria all’altra, assunse maggiore importanza il rapporto con il territorio. Nel 2003, lo slogan è: “La mia banca è differente… con lei il credito è alla portata di tutti. Ogni suo sportello è un’apertura sul mondo. Sa che la grandezza di un’impresa non dipende dalle dimensioni”. I protagonisti erano ancora i bambini: questa volta, non per suscitare sentimenti di affetto familiare, ma per sottolineare la condizione delle banche: delle “piccole” casse legate alla realtà locale e sostenitrici delle attività economiche. Più esplicita è la pubblicità del 2004: “La mia banca è differente perché…. Cooperazione e sostegno alle persone, alla comunità e al territorio”. Inoltre, questa campagna pubblicitaria prevedeva che ogni banca utilizzasse immagini specifiche, relative alle principali attività del territorio (Di Salvo 2003).

Mentre le coop cercarono la propria identità nel concetto di “solidarietà”, rievocando le funzioni originarie dei soci, le banche valorizzavano nell’immagine pubblicitaria, nei simboli e nei colori, il legame economico e culturale con il territorio. Puntando, da un punto di vista pubblicitario, sul “senso del luogo”. Un luogo nel quale sentirsi subito a casa, uno spazio mentale, metonimia dell’Italia intera, costruita da frammenti di geografia, storia, tradizione. Un luogo però dai forti connotati di contemporaneità, che rimandava ad un orizzonte valoriale fatto di affetti familiari, ma anche di devozione al lavoro, desiderio di emergere e fare carriera, di rendere unica e originale la propria attività. Una realtà profondamente umana, fatta di cambiamenti radicali, di scelte difficili. Basti pensare alla pubblicità che mostra un giovane hippy diventato prete, oppure alla famiglia multietnica degli ultimi anni. È frequente infatti la sovrapposizione di ambienti apparentemente molto lontani tra loro, come il prete e il mondo hippy, oppure il meccanico circondato da strumenti musicali; il contrasto tra piccolo e grande: essere bambini e avere grandi aspirazioni.

Biografia

Nicola Guerra, nato a Massa (Ms) nel 1969, laureato in Economia e Commercio presso l’Università di Pisa con una tesi sull’emigrazione italiana, ha pubblicato due monografie: Partir Bisogna (2001), sulle tematiche migratorie, e Controrisorgimento (2009) sulle problematiche dell’identità nazionale. Autore di numerosi articoli sulla storia e cultura italiana moderna, attualmente è dottorando di ricerca presso l’Università di Turku (Finlandia).

Bibliografia

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“Bollettino delle Cooperative operaie di Trieste, Istria e Friuli”, gen. 1922, n. 14.

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