Gianluca Rossini
“Potremmo passare giorni e notti l’uno accanto all’altra, a chiedere e rispondere su un’infinità di cose che tu supponi neppure: di cose che ho visto ed ho sentito, di fatti che ho intuito dalla prudenza dei segni e dall’eloquio delle occhiate; di drammi che hanno emaciato fino all’inverosimile i volti di molti italiani, di tragedie che hanno fatto piangere lacrime di sangue a molti giovani con una colpa uguale alla mia, con un destino più crudo del mio. Non so neppure se vorrò dire tutto; perché credo che quando avrò riguadagnato il conforto e la pace della mia famiglia, si quieterà in me l’ansia dei giorni trascorsi e prevarrà un solo desiderio: quello di dimenticare, di dimenticare tutto perché tutto è brutto, doloroso, cupo, vergognoso”.
Così scrive l’ufficiale medico Gualtiero Marello alla moglie il 25 luglio 1944, internato nei pressi di Atene. In questa frase si riassume gran parte della vicenda, pressoché dimenticata, degli IMI, gli Internati militari italiani. Questa lettera, insieme ad altre lettere e diari, fa parte del lungo lavoro di ricerca e riordino che Mario Avagliano e Marco Palmieri hanno sintetizzato nel libro, edito da Einaudi, Gli Internati Militari Italiani: Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945.
Le vicende della seconda guerra mondiale sono state, negli anni, ampiamente studiate ed approfondite nei vari aspetti che l’hanno caratterizzata: il fascismo, il nazismo, la Shoah, la Resistenza. Tutti questi aspetti sono noti, almeno nei loro tratti principali, a tutti gli italiani, anche grazie all’ampia trattazione che la scuola e la filmografia hanno prodotto negli anni. Questo non vale per quanto riguarda il destino che colpì i 710000 circa militari italiani, sorpresi dall’improvvisa ed inaspettata notizia dell’armistizio dell’Italia l’8 settembre 1943 e poi deportati nei lager nazisti. Tale vicenda, non solo è stata per lungo tempo affatto trattata ed analizzata dagli storici e dalla politica ma, ancora oggi, è pressoché sconosciuta alla stragrande maggioranza della popolazione italiana e probabilmente non potrà mai essere conosciuta in modo esaustivo. Il giorno dell’armistizio viene comunemente definito lo “sbandamento”, ovvero il giorno in cui l’esercito si trasformò in “esercito di sbandati”, senza più uno stato maggiore a dettare le direttive, senza più il supremo comandante, il re, come punto di riferimento. L’annuncio di Badoglio prima, la fuga del Re e la mancanza di direttive tempestive e chiare poi, gettarono gli ufficiali nella indecisione assoluta sul da farsi. Al contrario invece, Hitler già da tempo aveva intuito quello che poteva essere il comportamento dell’Italia e aveva pianificato in anticipo le mosse e le strategie che la Wehrmacht avrebbe dovuto tenere nel momento in cui l’Italia avesse dichiarato l’armistizio. Fu così che centinaia di migliaia di militari italiani furono disarmati, catturati e poi deportati nei campi nazisti. Alcuni gruppi tentarono una resistenza, caso emblematico quello di Cefalonia, ma a causa della scarsità dei mezzi a disposizione e della mancanza di coordinamento tutti questi tentativi furono soffocati nel sangue. Alcuni tentarono la fuga verso l’Italia, altri si dettero alla macchia partecipando alla Resistenza jugoslava o greca, altri (una minima parte) si dichiararono da subito fedeli alleati dei nazisti chiedendo di poter continuare a combattere al fianco dell’antico alleato. La stragrande maggioranza dei militari italiani, semplicemente, cedette le armi e si mise nelle mani delle truppe tedesche. La quasi totalità di costoro lo fecero anche perché convinti, subdolamente, dai tedeschi che avrebbero fatto ritorno a casa, finalmente liberi da una guerra che non avevano voluto e per la quale non erano stati preparati. Invece di far ritorno a casa, furono deportati su carri bestiame, stipati peggio di animali, viaggiarono per giorni, talvolta settimane, senza quasi poter vedere la luce, con pochissimo cibo e sottoposti agli insulti e le botte dei soldati tedeschi, fino a raggiungere le loro mete, i lager del Reich: campi di lavoro (Stammlager e relativi Arbeitskommando) per la truppa e i sottufficiali e Offlager per gli ufficiali. Fu loro attribuita la qualifica di IMI e non di prigionieri di guerra, su indicazione di Hitler, adducendo come scusa che non si trattava di nemici ma semplicemente di ex-alleati. A causa di questa qualifica, gli internati militari furono sfruttati come lavoratori coatti (con l’esclusione dei soli ufficiali) e fu loro negata l’applicazione della Convenzione di Ginevra così come la possibilità di essere assistiti dalla Croce Rossa Internazionale. Patirono fame e freddo nonché maltrattamenti da parte dei loro aguzzini. Nella perversa scala sociale dei nazisti, gli italiani (chiamati “Badoglien” in senso dispregiativo) venivano prima solo dei russi e degli ebrei.
Il libro comincia con una lunga ed interessante prefazione di Giorgio Rochat, il quale introduce la vicenda che tratteranno poi i due autori, inquadrandola nello scenario politico, militare e sociale dell’epoca. Inoltre, Rochat, dedica un paragrafo all’analisi del fenomeno resistenziale, fenomeno a proposito del quale, per anni, si è limitato il dibattito politico alla sola guerra partigiana e che oggi, invece, registra il recupero di una dimensione più ampia. Dice Rochat: “[…] oggi si parla di quattro diverse Resistenze, senza una graduatoria […]. Contiamo la resistenza contro i tedeschi delle forze armate l’8 settembre, che piccoli nuclei protrassero fino al 1944 insieme ai partigiani jugoslavi. Poi la guerra partigiana e la deportazione nei lager di morte. La partecipazione delle forze armate nazionali alla campagna anglo-americana in Italia. E infine la resistenza degli IMI nei lager tedeschi”.
I capitoli del libro di Avagliano e Palmieri rappresentano, ciascuno, un aspetto cronologico e al tempo stesso peculiare della vicenda degli IMI. In ogni capitolo, dopo una breve introduzione esplicativa, gli autori hanno inserito brani di lettere o di diari scritti da IMI durante la loro prigionia.
Si comincia con un capitolo dedicato alla prima fase, quella che inizia con l’armistizio e prosegue poi con la cattura e la deportazione. “Il ‘giorno fatale’ – come un deportato definisce l’8 settembre”, scrivono gli autori, “lascia una nitida traccia in numerose lettere e diari, molti dei quali cominciano ad essere scritti proprio in quelle ore”. Negli scritti dei militari italiani si legge il disorientamento delle prime fasi, “I tedeschi stanno occupando le caserme e gli aeroporti. Nessun ordine di sparare, di resistere”. Poi viene la deposizione delle armi, la cattura: “Alle due di notte, i tedeschi ci intimano formalmente la resa. Esigono la consegna delle armi. Molti compagni sono in preda a disperati propositi di resistenza, altri rifiutano di scendere. Ma cosa vogliono fare con sei cartucce in dotazione?”. “Dietro ordini impartitici dal comando italiano si deve versare il fucile. Non so se sia dolore o gioia ma una stretta al cuore mi assale nell’eseguire quest’ordine”.
Con il viaggio verso i luoghi di internamento i militari italiani cominciano a comprendere quale dura vita gli si stia presentando innanzi. “Il viaggio verso la prigionia è funestato dalla fame e da episodi di violenza, come spintoni, calci, pugni, colpi di baionetta, sparatorie, ferimenti a morte ed esecuzioni sommarie, spesso dettate dal desiderio di vendetta verso i traditori. […] Uno dei capitoli più drammatici riguarda il trasferimento sulla terraferma dei militari catturati sulle isole greche e a Creta. […] ‘I Tedeschi hanno lanciato nelle stive, ripiene e ribollenti del terrore della morte, bombe a mano; hanno mitragliato chiunque ha cercato di salire in coperta; hanno mitragliato qualsiasi italiano che, in acqua, ha cercato di appigliarsi a qualche mezzo di salvataggio; hanno rifiutato qualunque aiuto e negata ospitalità sulle loro scialuppe’”.
Il successivo capitolo tratta della scelta della Resistenza: “[…] Circa l’85 % dei 710000 militari deportati dopo l’armistizio decide di non collaborare con i nazisti ed i fascisti, anche dopo aver toccato con mano il rigore di una prigionia durissima. Gli IMI, dunque, attuano autonomamente e per primi quel ribaltamento di alleanze e quel cambio di fronte ideale, politico e militare avviato dall’Italia l’8 settembre. Il loro ‘no’, infatti, pronunciato prima della cobelligeranza tra il Regno del Sud e gli Alleati (il governo Badoglio dichiara guerra alla Germania solo il 13 ottobre) e quando la lotta partigiana non ha ancora preso consistenza nel centro-nord della penisola, rappresenta il primo atto concreto di ribellione […]”. Il “no” degli IMI è quindi da considerare una vera e propria forma di Resistenza, una Resistenza non armata. “Gli Internati che decidono di non aderire sono tra 600000 e 650000”. Ma ci sono anche coloro che, per varie ragioni, decidono di diventare “optanti”, cioè di aderire, firmando, alla nuova Repubblica sociale italiana, continuazione dell’Italia fascista. Questo tema è trattato nel terzo capitolo. “[…] Tristezza infinita. Sappiamo che un’altra settantina di Ufficiali Superiori hanno aderito alla Repubblica Fascista. Sono da biasimarsi o da condannarsi dato che nessuna vera fede ha saputo muoverli ma soltanto un senso di opportunismo e la fame? Quando degli uomini come noi, sono stati ridotti senza alcuna loro colpa, allo stato di esseri inferiori, e sottoposti ad ogni specie di umiliazioni e privazioni; quando da quattro mesi soffrono la fame i cui stimoli diventano sempre più tormentosi; quando essi hanno dovuto, prima recuperare le briciole di patate rimaste attaccate alle bucce, e poi divorare le bucce stesse; quando sono stati messi nella condizione di frugare nelle immondizie come cani randagi e di precipitarsi sui mastelli di rancio per raccogliere con le mani o con il cucchiaio, gli avanzi melmosi della ‘sbobba’; quando, dopo aver tutto ingerito, sono portati a masticare ed ingoiare la saliva; quando neppure nel sonno possono trovare sollievo; quando la loro testa e permanentemente vuota e la loro mente torpida sì che difficile riesce formulare un pensiero ed esprimerlo in parole; quando ogni minimo loro atto diventa fatica; quando questa miseria, morale e fisica, potrà perpetuarsi ed aggravarsi senza limiti di tempo e di misura; quando essi si sentono da tutti abbandonati e sul loro animo e sui loro cuori premono particolari situazioni di famiglia, un giudizio veramente sereno sulla grave decisione da loro presa non può essere formulato. Solo chi ha sofferto, soffre e sopporta queste cose può comprendere. Ed io penso che, per questi uomini, indeboliti nel fisico, nel morale e nella volontà, accettare il ricatto loro sottoposto sia stato solamente considerato come mezzo di liberazione”. Infatti, al di là della fedeltà al Re e al giuramento fatto, al di là della contrarietà alla guerra e delle scelte politiche, ciò che maggiormente indusse alcuni a diventare optanti fu la fame. Della fame e della vita nei lager si parla nel quarto e nel sesto capitolo. “Il pasto principale è una brodaglia di rape, in gergo detta sbobba, con l’aggiunta o l’alternativa occasionale di un po’ di pane di segala, 20-25 grammi di margarina […]. Sulla carta la razione base è di 1730 calorie nei lager e 2000 al lavoro (contro le 2500-3000 di un civile tedesco […]) ma nella realtà le calorie sono anche meno di mille”. Interessante è il capitolo che tratta della prigionia dei Generali.
Del lavoro coatto riservato alla sola truppa prima e poi esteso anche agli ufficiali (almeno quelli di grado inferiore) con la trasformazione da IMI a liberi lavoratori civili si tratta in altri due capitoli. “Oggi niente mangiare. […] il direttore dei lavori ci fa sapere che sino a che non si faranno 15 viaggi giornalieri con i carrelli, non ci darà nulla da mangiare”. “L’orario di lavoro si aggira sulle dodici ore al giorno[…] per sei giorni alla settimana,ma in caso di punizioni o esigenze particolari si arriva anche a diciotto ore per sette giorni alla settimana”. E tutto questo contornato da condizioni di vita estreme: freddo intenso, scarsità di vestiario e scarpe, lunghissimi appelli al freddo, che durano anche ore. Per coloro che riusciranno a sopravvivere e a vedere il giorno della liberazione le sofferenze non finiscono. Il ritorno in patria durerà per la maggioranza degli IMI diversi settimane o mesi, soprattutto per coloro che si trovavano in campi liberati delle truppe sovietiche. In tanti moriranno lungo il viaggio di ritorno, ed altri poco tempo dopo il loro rientro a casa. “La fine della guerra […] non comporta l’immediato rientro in patria, ma un’attesa che dura diverse settimane, mesi e in qualche caso persino anni.”
Dopo il rientro e la fine delle sofferenze in Italia per gli ex-IMI ha inizio la beffa della rimozione, del voler chiudere definitivamente con la guerra e quindi la necessità di non parlare, di non ricordare. “Oltre che ignorati, gli IMI sono anche scomodi, per un motivo o per un altro invisi a tutte le componenti politiche, culturali e istituzionali del nuovo arco costituzionale: le forze della Resistenza non vogliono condividere con loro il monopolio della memoria che stanno instaurando intorno alla Liberazione, la cultura politica di sinistra vede in loro una parte consistente dell’esercito che ha condotto la guerra di aggressione fascista prima dell’8 settembre, l’area più conservatrice li considera invece la prova vivente della disastrosa gestione dell’armistizio di cui i propri esponenti sono responsabili, mentre per le forze di destra e le nuove gerarchie militari essi incarnano un passato fallimentare da dimenticare a tutti i costi. Di fronte a tutto questo molti ex internati […] scelgono la strada del silenzio, contribuendo così in prima persona all’oblio della memoria sulle loro vicende”.
Il merito di questo libro è senz’altro quello di trattare la triste storia degli IMI in modo scorrevole, quasi narrante, rendendone possibile la lettura anche ai non addetti ai lavori. Un libro che utilizza abilmente le parti più significative di quelle memorie, lettere e diari raccolti in vari archivi, riuscendo a trasmettere al lettore attento sensazioni, immagini e sentimenti espressi in maniera semplice e intensa da giovani italiani, sfortunati ma meritevoli dell’onore di cui seppero ricoprirsi.