Marx, la Comune di Parigi e la democrazia espansiva

di Andrea Girometti

Sarebbe del resto assai comodo fare la storia universale, se si accettasse battaglia soltanto alla condizione di un esito infallibilmente favorevole. D’altra parte, questa storia sarebbe di una natura assai mistica se le “casualità” non vi avessero parte alcuna.

Karl Marx, Lettera a Ludwig Kugelmann, 17 aprile 1871

Marx e la politica. Sembrerebbe un binomio scontato. È in effetti impensabile scindere il Marx “scienziato” – declinato in senso “forte” come snodo di una pratica teorica che ha aperto alla conoscenza scientifica il “Continente Storia” (Althusser 1977) – dal Marx “politico” (si pensi solo al dirigente della I Internazionale) e quindi dalla stessa dimensione politica intesa come “arena” in cui intervenire per mutare lo status quo. Cos’altro sarebbe la lotta di classe se si limitasse ad una dimensione meramente socio-economica senza diventare immediatamente politica? Senza porsi il problema dei poteri e dei rapporti di potere e delle relative configurazioni storicamente assunte? Senza intervenire nell’incontro/scontro di forze che ripartiscono continuamente i confini di pubblico e privato? A ben vedere equivarrebbe a pensare lo sfruttamento in termini meramente contabili, dimenticando i rapporti di dipendenza in cui si articola, la dimensione ideologica – mai sopprimibile – che li alimenta, la necessità di (ri)produrre ed alimentare identità per quanto sempre contingenti e dunque mai definitivamente date. Che il rapporto di Marx con la politica sia stato lacunoso è un’ovvietà. Peraltro la natura dell’oggetto ci pare costitutivamente inesauribile. Di certo pesa, in negativo, una lettura maggioritaria – per quanto volgare non certo priva di ancoraggi, e successivamente letale per un marxismo che si volle ortodosso – che ha ridotto la politica a mera sovrastruttura. Un determinismo economico che nel tentativo di far luce nei segreti (e mostruosi) laboratori della produzione – allora quasi esclusivamente materiale –, avrebbe trascurato la dimensione politica, sia in termini d’interrogazione sulla natura della macchina statale (e dunque sullo Stato-nazione come luogo principe della politica moderna), sia relativamente alla centralità delle dinamiche interstatali e le logiche di dominio che le connotano e in tal senso sull’uso stesso del “mercato” da parte degli attori statali come ha sottolineato Giovanni Arrighi soffermandosi sugli errori marxiani (Arrighi 2010). Da ciò la riduzione della politica ad istanza derivata e l’interpretazione del deperimento dello stato – successivo alla “dittatura del proletariato” (altro concetto a dir poco travisato per quanto ambiguo) – come “fine della politica” in luogo di una “amministrazione delle cose” che subentrerebbe nella società senza classi. In altri termini, azzardando un’impossibile sintesi: il comunismo come fine della storia – paradossalmente echeggiante le tesi di Fukuyama sulla fine della storia in seguito alla caduta dell’Urss… ( Fukuyama 1992) – e riconciliazione umana che poggia su un’antropologia “simbiotico-fusionale” più vicina al materialismo di Feuerbach che allo stesso Hegel (Finelli 2004).

Ad ogni modo è davvero tutto qui il pensiero politico marxiano, anzi marxengelsiano, se non vogliamo ridurre lo stesso Engels ad un semplice “cattivo” divulgatore/traduttore di Marx, come vorrebbe un nuovo senso comune? Se ne può dubitare. La riedizione degli scritti di Marx ed Engels sulla Comune parigina (Inventare l’ignoto. Testi e corrispondenze sulla Comune di Parigi, Edizioni Alegre, Roma, 2011) – dalla Guerra civile in Francia ai primi due indirizzi dell’Associazione internazionale dei lavoratori sulla guerra franco-prussiana, sino alla principale corrispondenza sulla Comune (pp. 93-254) – ne è una conferma. Il lungo saggio introduttivo di Daniel Bensaïd, significativamente intitolato Politiche di Marx (pp. 15-92), è un tentativo di recuperare un Marx che sembrerebbe “minore”, se non sconosciuto a troppi lettori. La vulgata economicistica sfuma gradualmente, sino a mettere in luce – in quel che Bensaïd, in un campo d’osservazione più vasto, chiama “trilogia” riferendosi alle principali opere politiche marxiane (Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Il 18 di Brumaio di Luigi Bonaparte e La guerra civile in Francia) – “l’altra faccia della critica marxiana della modernità” (p. 15). In questi scritti “l’azione politica non è mai ridotta alla piatta traduzione di una logica storica o al compimento di un destino già segnato” (p.16). L’analista delle singole congiunture e – aggiungiamo – il “soggetto” che interviene nella specifica congiuntura, convivono inestricabilmente. Così come ogni rivoluzione ha un sua “provocazione”, “ingiustizia” e livello di aleatorietà che ne accende la miccia – nel caso della Comune il tentativo di disarmare la popolazione di Belleville nel marzo 1871 – senza la possibilità di prevederla ex ante. Le rotture rivoluzionarie sono oltre e contro il tempo ordinario e la lotta politica ha ritmi specifici irriducibili, dunque “non necessariamente sincronizzati su quelli dell’economia” (p. 17). Politica che Bensaïd declina in termini di “arte della mediazione” tra diverse istanze – e non espressione e/o determinazione univoca di una sfera su un’altra – ma anche “arte del controtempo e del momento propizio”, di modo che “le rivoluzioni sono raramente in orario. Non conoscono il just in time. Sono dilaniate tra il ‘non più’ e il ‘non ancora’, tra ciò che viene troppo presto e ciò che viene troppo tardi” (pp. 17-18). In questi décalages si giocano gli esiti di un rivolgimento, le conquiste come le tragedie. Ciò implica che non c’è mai un tempo pieno della rivoluzione, ma, al contrario, come dirà Marx nelle Lotte di classe in Francia, la necessità di pensare “la rivoluzione in permanenza”, espressione enigmatica in cui – come dice bene Bensaïd – si annodano “problematicamente atto e processo, l’istante e la durata, l’avvenimento e la storia” (pp. 21-22). Per questo, attualizzando la lezione della Comune, non c’è spazio per riproporre una concezione della storia come processo lineare, teleologico, o, peggio ancora, fatalistico. L’“ultimo” Althusser, da una prospettiva chiaramente diversa e sviluppando alcuni elementi teorici già accennati nelle opere maggiori degli anni ’60, evidenzierà la presenza in Marx di una concezione teleologica del tempo storico contrapposta ad una aleatoria in merito alla formazione del modo di produzione capitalistico (Althusser 2006). Ma è lo stesso “materialismo storico” (terminologia in realtà mai utilizzata da Marx, che parlerà di “materialismo comunista” o “pratico”) a non configurarsi come “un passe-partout per la comprensione della storia”, bensì, in primis, come “una modalità pratica d’intervento nella [corsivo mio] storia” (Tomba 2010). Pertanto Bensaïd, sulla scia di Guy Debord, intravede nella plurale eredità marxiana una contiguità con il “pensiero strategico” a cui si correla una “temporalità storica aperta” (p. 89). Torna, prepotentemente, la centralità del presente non più determinato in via esclusiva dal passato, né momento di un destino nell’atto di compiersi. Detto altrimenti torna il tempo “dell’azione e della decisone” (politica), anche se ciò non significa di per sé – come sembra ritenere Bensaïd – una priorità della politica sulla storia. Semmai a mutare è il quadro percettivo di tale rapporto, sino alla possibilità di vedervi una simbiosi nei frangenti in cui la storia si manifesta come campo di battaglia in cui si misurano le forze contrapposte.

Alla specificità temprale della dimensione politica corrisponde anche un mutamento spaziale. Basterebbe ricordare l’incipit del Manifesto del Partito Comunista – “uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro del comunismo” – per evidenziarne la discontinuità. È sul fronte europeo che si giocherà una guerra civile rispetto alla quale “i territori nazionali sono i campi di battaglia instabili e parziali” (p. 24) e Marx non fa altro che ribadirlo – memore degli insegnamenti del 1793 e del 1848 – nelle Lotte di classe in Francia quando afferma che “la nuova rivoluzione francese è costretta ad abbandonare prestissimo il suolo nazionale e di conquistare il terreno europeo, il solo nel quale si può compiere la rivoluzione sociale del XIX secolo”. Negli scritti politici marxengelsiani le dinamiche interstatali non sono taciute ed anzi s’intravede una riflessione strategica, sino ad una critica della produzione delle “frontiere naturali” come invenzione funzionale agli stati maggiori (Engels 1952). In questo ambito prendere parte per un interesse nazionale è dettato esclusivamente da finalità “progressiste” e difensive. Nella guerra franco-prussiana la posizione marxiana è netta: nel momento in cui le truppe di Bismarck intendono annettere l’Alsazia e la Lorena e muovere verso Parigi, “tanto il dovere quanto l’interesse del popolo tedesco consiste nell’accordare una pace onorevole alla Repubblica francese” – dirà Marx nella Lettera al comitato di Brunswick, inviata ad Engels il 2 settembre 1870. Peraltro la tragedia dei nazionalismi e il bagno di sangue che connoterà il “secolo breve” sono già intravisti nella medesima lettera: “una guerra tra Germania e Russia dovrà necessariamente nascere dalla guerra del 1870 […] tranne nel caso poco probabile che una rivoluzione scoppi prima in Russia”. La rivoluzione accennata del 1905 – ricorda Bensaïd – non la impedirà e l’Ottobre sarà il risultato delle macerie della “Grande Guerra”, sino a sfociare in quella che Enzo Traverso ha definito la trentennale “guerra civile europea” (Traverso 2007). Engels rincarerà ulteriormente la dose nell’introduzione del 1891 a La Guerra civile in Francia quando preannuncia “una guerra di cui nulla è certo eccetto l’assoluta incertezza del suo esito; di una guerra di razze [corsivo mio], che sottoporrà l’Europa intera alla devastazione da parte di 15 o 20 milioni di uomini armati (p. 167).

Non è possibile discutere il pensiero politico marxiano post-quaranttotesco senza rapportarlo all’“ascesa, declino e caduta del Secondo Impero” (p. 31). Il bonapartismo diventa un esempio paradigmatico per ritornare sulla questione dello Stato e del rapporto con la “società civile”. In questi termini ciò che viene osservato e sottoposto a critica radicale è la progressiva burocratizzazione dello Stato, ormai tramutatosi in “escrescenza parassitaria” innestata sulla società civile, come ribadirà nella Guerra civile in Francia. Riemerge quella critica al corporativismo burocratico – su cui insiste Bensaïd, non nascondendo la propria matrice trotzkista, tutt’altro che dogmatica –, già in parte presente nei testi giovanili e ripresa recentemente da un versante non marxista, in particolare si pensi alle tesi di Miguel Abensour che, a partire dalla Critica del diritto statuale hegeliano, ha tentato di rinvenire in Marx un “momento machiavelliano”, una riformulazione del politico, del suo carattere “autonomo”, che agisce sottotraccia e riemerge negli scritti politici successivi (Abensour 2008). La Comune è delineata – ad un tempo – come “forma positiva della Repubblica sociale” (p. 135) e, con toni libertari, “rivoluzione contro lo Stato, questo aborto soprannaturale della società”. In questi termini il bonapartismo – che si è manifestato come una sorta di “monarchia elettiva” per poi diventare una “semi-dittatura” in cui si condensa “la forma normale” della dominazione borghese, di cui il “bismarckismo” costituisce la variante tedesca – sembra essere letto come “forma tendenziale dello Stato di eccezione nello Stato moderno” (p. 37), anzi come “la sola forma possibile di governo in un’epoca in cui la borghesia aveva già perduto – e la classe operaia non aveva ancora guadagnato – la facoltà di governare” (p. 134). Tuttavia a cosa corrisponde quell’essere “contro lo Stato”? In quelle formidabili sei settimane la libertà comunale lo aveva davvero “abolito” come scrive il Moro? Sembra sfumare la polemica contro l’anarchismo, sull’impossibilità di abolire lo Stato e il lavoro salariato per decreto. In realtà “abolizione” rimanda ad “estinzione” o “deperimento”, alla natura processuale di una trasformazione immanente non decretabile dall’esterno. Le misure politico-giuridiche che connotarono la Comune – disegnate nel fuoco della battaglia, “con il nemico straniero alla porta e quello di classe all’altra” – sono paradigmatiche più per le indicazioni di rotta fornite che per le forme attuate: dall’elezione a suffragio universale (con l’esclusione delle donne. E non è certo un’esclusione minore…) dei consiglieri municipali, alla loro revocabilità legandoli altresì a mandati imperativi, sino alla corresponsione di un salario da operaio qualificato per i rappresentanti. Ciò tuttavia non implica il venir meno di “funzioni centrali”, quanto l’essere “passate nelle mani della Comune”, dato che non possono (o non dovrebbero) più elevarsi al di sopra della società civile come nel vecchio apparato di governo. Continueranno ad esistere sotto il controllo popolare (pp. 135-139). Quest’ultimo, tuttavia, non è mai omogeneo e – potremmo aggiungere – su di esso insistono differenze non riducibili ad un concetto sociologico di classe, peraltro assai riduttivo e non propriamente marxiano (tanto più se pensiamo al proletariato che è tale nel momento in cui diventa classe per sé). Differenze di genere, culturali, religiose, etniche, generazionali, che s’intrecciano con la divisione in classi e che non si lasciano scomporre e ricomporre in forme definitive. Il Novecento ne ha testimoniato la rilevanza e l’ineludibilità. Pertanto, se il pensiero di Marx sullo Stato – ma anche sulla modalità di organizzazione propriamente politica della lotta di classe – è lacunoso, pur lasciando presagire la possibilità di farla finita con “tutto il ciarpame statale” quando ve ne saranno le condizioni – successivamente alla presa del potere del proletariato –, non ci troviamo di fronte all’affermazione univoca di una presunta fine della politica, né ad una suo assorbimento da parte di un’indistinta sfera “sociale”. La Comune, con tutti i suoli limiti ed errori – tra cui, ricorda Marx, non aver intaccato le riserve della Banca di Francia – è e diventa “il movimento reale che distrugge lo stato di cose esistenti”, connotato dal deperimento dello stato e della divisione in classi, almeno così come si configurano nella società capitalistica. “La grande misura sociale della Comune è stata la sua stessa esistenza” (p. 145) in quanto processo di emancipazione del lavoro dalla costrizione del lavoro salariato, dalle asimmetrie che strutturalmente impongono lo scambio di quest’ultimo contro il capitale, in vista di una riconversione del lavoro come attività socializzata (ma non anti individuale) utile ai bisogni della società. In tal senso l’esperienza comunarda si è sforzata di “fare della proprietà individuale [corsivo mio] una realtà trasformando i mezzi di produzione in […] semplici strumenti di un lavoro libero e associato” (p. 140) sulla cui base – ricorda Bensaïd richiamando l’opposizione proprietà individuale/proprietà privata presente anche nel I libro del Capitale – “diventa possibile regolare la produzione cooperativa secondo un piano nazionale” (p. 43). L’intreccio tra forma politica, in cui la Comune è vista come “associazione volontaria di tutte le iniziative locali” e “una delegazione centrale di comuni federati” e cooperativismo debitamente coordinato relativamente alla dimensione socio-economica è dunque strettissimo. L’autoritarismo statale più volte imputato a Marx, per non parlare dei marxismi più o meno ortodossi, in queste pagine sembra svanire. Bensaïd si spinge oltre intravedendovi “una dinamica espansiva [corsivo mio] dell’associazione che si potrebbe chiamare oggi, nel gergo dell’eurolingua, una “sussidiarietà ascendente o democratica” (p. 45), ma è lo stesso Marx a sottolineare “che essa ha costituito una forma politica completamente espansiva [corsivo mio], mentre tutte le precedenti forme di governo sono state decisamente repressive” (p. 139). Certo, guardando in avanti permane più di un problema nella configurazione del “modello” politico comunardo. Tra questi l’improponibilità di mandati imperativi che rischierebbero di bloccare qualsiasi deliberazione democratica e veder sfumare qualsiasi “interesse generale”, per quanto non possa che assumere, di volta in volta, una configurazione mobile ed eccedente, così come la mancata separazione dei poteri che intravedeva nella Comune un corpo, ad un tempo, esecutivo e legislativo, rimanda ad una concezione dell’estinzione dello Stato troppo contigua ad un’eclissi della politica da cui lo stesso Lenin non sarà immune. Nicolao Merker, recentemente, ha intravisto nella valutazione marxiana della Comune un vuoto d’analisi ed una contraddizione rispetto alle posizioni marxiane precedenti (in sostanza l’assenza di un proletariato maggioritario in termini numerici e politicamente “maturo” che avrebbe reso impossibile qualsiasi rivolgimento politico) su cui si sono innestate strumentalizzazioni che hanno pesato negativamente sull’eredità del Marx “politico”. In generale l’antiparlamentarismo, non solo leniniano, ma esteso al primo Gramsci sino a Rosa Luxemburg, non avrebbe permesso, né di arginare efficacemente i fascismi, né di vedere la centralità dello “Stato di diritto” riducendolo “ad arma ipocrita del dominio di classe” (Merker 2010). Si tratta, evidentemente, di un problema reale ed irrisolto. Tuttavia si può suggerire che non si tratta di assumere ed ipostatizzare ex post una forma giuridica, neutralizzandone parzialità e storicità, bensì di un problema che interroga i limiti del potere, di ogni potere politico, ancorché rivoluzionario, quando pensa di saturare ogni spazio non contemplando altre possibilità. È il problema del “partito rivoluzionario” che si è fatto Stato e che in questo modo, oltre a svuotare una serie di diritti imprescindibili (libertà d’espressione, di associazione, ecc.), ha bloccato, di fatto, ogni trasformazione rivoluzionaria. Non ha riconosciuto il carattere contingente e singolare della sua azione, dimenticando che “l’unità delle classi sfruttate, in quanto esito delle lotte, non è mai compiuta” (Raimondi 2011). Diversamente detto è il problema di un “potere costituente”, delle forme che si dà in “una dinamica democratica e […] espansiva” (p. 80). Da un’altra prospettiva Fabio Frosini, rileggendo i testi marxiani dalle Lotte di classe in Francia al 18 Brumaio di Luigi Bonaparte ed assumendo un’identità tra storia e politica, pone l’accento sulla centralità degli interventi politici marxiani (a discapito dell’eredità più propriamente “scientifica”) e sottolinea “la peculiare ‘collocazione’ della politica comunista” nei termini di “rappresentare l’irrapresentabile”, cioè del proletariato non come dato sociologico specifico, bensì “dissoluzione della società nella figura di un ceto particolare”. Pertanto “compito dei comunisti” non è costituire un partito come gli altri – riducendo il proletariato a “parte” (equivalente ad altre) di un sistema dato –, ma “re-istituire sempre di nuovo nella storia l’identità di storia e politica, cioè la storia come campo di lotte” e di farlo senza inventare nulla, ma rendendo conto dell’antagonismo in tutte le sue forme e manifestazioni”. Il proletariato “è insorgenza”, ma ancor prima è “assenza di potere; e dunque è resistenza” […], ostacolo alla totalizzazione del potere, alla sua chiusura” (Frosini 2009). Il richiamo à la mésentente rancieriana (Rancière 2007a) è evidente ed è interessante il confronto che Bensaïd instaura con la concezione radicalmente egualitaria della democrazia ipotizzata da Jacques Rancière (Rancière 2007b). L’assenza di fondamenti, la qualificazione anarchica che la connota – il potere di tutti e di chiunque –, l’irriducibilità a “stato democratico”, delineano una critica “forte” della rappresentanza. Ma se la democrazia eccede sempre la rappresentanza (Girometti 2012), se ne può semplicemente fare a meno? Vi sono alternative realisticamente praticabili che non sfuggano all’utopia di un assemblearismo permanente o alla reintroduzione (esclusiva) del sorteggio? E quest’ultimo, a ben vedere, non sarebbe un modo per decretare la fine della politica come progettualità e conflitto? Come può una società costitutivamente plurale fare a meno di rappresentarsi? Come potrebbe efficacemente insorgere una “parte” non conteggiata senza darsi una qualche organizzazione (aspetto che Rancière volutamente non tematizza, ma nemmeno riduce all’opposizione semplice spontaneismo/organizzazione)? Bensaïd, richiamando criticamente Il manifesto per la soppressione dei partiti politici di Simone Weil – e lo slittamento dalla politica alla teologia ivi impresso – s’interroga: non occorrerà, ad esempio, ripensare la “forma-partito” piuttosto che ridurla ad una determinata configurazione? Si tratta sicuramente di un campo inesplorato, non disgiungibile dal piano del conflitto sociale, le cui forme non sono prefigurabili ex ante ed ancor meno ricalcabili sull’esistente. In tal senso lo “scandalo democratico” di cui parla Rancière non è affatto scartato da Bensaïd: la democrazia per “andare sempre più lontano deve trasgredire le sue forme istituite, mettere a soqquadro l’orizzonte dell’universale, mettere l’uguaglianza alla prova della libertà” (Bensaïd 2010). Ammesso che eguaglianza e libertà non siano solo feticci borghesi… È sulla politica come rappresentazione complessa costellata da continui rivolgimenti – di scena e di trama – e non (solo) eccezione evenemenziale che si apre il campo di una problematica da elaborare e sperimentare nella singola congiuntura.

Un’altra questione delicata è rappresentata dal concetto di dittatura del proletariato (contrapposta da Marx alla violenza sfrenata della borghesia ed irriducibile ad un governo arbitrario non normato) o governo operaio. Strana dittatura questo governo “finalmente scoperto” della classe operaia in cui si combinano suffragio universale e pluralismo politico – pur non trattandosi di partiti come li intenderemmo oggi, ma più propriamente di différentes tendances come ricordava Henri Lefebvre (Lefebvre 1965) –, processo di sburocratizzazione e smilitarizzazione, promozione della partecipazione politica e di alleanze come quella tra operai e contadini (su cui Marx si sofferma a lungo) – che oggi definiremmo in termini di “democrazia partecipativa reale” – e misure di giustizia sociale. Se dovessimo trarne delle conseguenze per l’oggi diremmo che la costruzione di un tale governo non è meramente riflessiva, ma – come ricorda Bensaïd – è un’operazione di continua “traduzione e trasposizione tra rapporti sociali e loro espressioni politiche” (p. 53). Nella Comune la classe operaia ha aggregato attorno a sé la piccola e la media borghesia, così come la grande massa della guardia nazionale. Per dar forza a questa alleanza ha preso misure in favore dei debitori ed in questo modo la Comune è diventata “la vera rappresentazione di tutti gli elementi sani della società francese, e perciò il vero governo nazionale, […] e allo stesso tempo, in quanto governo operaio, campione audace dell’emancipazione del lavoro” (p. 144). Si configura come “un particolare universale”, suggerisce Bensaïd, la cui potenzialità vittoriosa non scompare con la sconfitta patita ed interroga (o avrebbe dovuto interrogare) i successivi tentativi rivoluzionari. In particolare nel riproporre il suo carattere di classe una politica di emancipazione non poteva essere vincolata solo ad una parte. Se la prospettiva socialista non è prerogativa di un’unica classe – designando un’altra formazione sociale – deve diventare maggioritaria. Le stesse critiche, osteggiate da Lenin, all’“esperimento sovietico” incentrate sul carattere non puramente operaio degli organi di governo, pur vedendo le derive burocratiche e la centralità dei rapporti di produzione da mutare (e non la sola natura proprietaria dei mezzi di produzione), sembrano rimanere prigioniere di un carattere corporativistico. Non pare esserci spazio per la formazione (non rigida) di un “interesse generale”, e la stessa critica leniniana che riconosce tali limiti accetta, di fatto, l’idea di un deperimento dello Stato in termini di “gestione” – che poi è la stessa idea rovesciata di uno Stato super partes che gestisce e compone gli interessi mediati dal mercato nell’orizzonte liberale, dove non ha cittadinanza un eventuale rivolgimento sociale, di natura collettiva, che superi la mediazione mercantile – e dunque di “amministrazione delle cose”. La politica sembra esaurirsi in una semplice tecnologia di gestione del sociale abolendo un spazio, necessariamente plurale, in cui far emergere delle scelte. A ciò si correla la stessa ammirazione leniniana per il taylorismo come modello d’impresa “neutrale”, rispetto al quale la divisione del lavoro rimane non problematizzata. Guardandola a ritroso – suggerisce Bensaïd – la posizione luxemburghiana sulla critica dello Stato come semplice strumento di una classe diventa ancora più pregnante. Tanto più se al “dominio proletario” si è associata la soppressione di quegli elementi democratici come libertà d’espressione, di stampa, di riunione, ancora più essenziali per costruire una nuova società – costruzione sempre da riprendere ed il cui esito è tutt’altro che scontato – ed invece ritenuti, a torto, una sovrastruttura borghese. Si tratta tuttavia di riconoscere le trasformazioni dello Stato, oltre la stessa critica delle burocrazie, classificato da Foucault come “una maniera di governare” – che un certo “foucaultismo volgare” vorrebbe ormai disciolto “nelle reti di potere della società liquida, dimostrando che non sarebbe più necessario prendere il potere per cambiare il mondo” (p. 73) –, sino a vederne, suggeriamo, le implicazioni nell’intreccio complesso tra apparati ideologici e repressivi con il modo di produzione capitalistico, e ancor prima di accumulazione, rilevandone – per riprendere le tesi di Giovanni Arrighi – le mutazioni ed i poli egemonici che storicamente hanno unito e uniscono gerarchicamente il sistema-mondo (Arrighi 1996). Su queste basi si tratta di smontare e spezzare quella “simbiosi mutualistica” tra “potere politico-territoriale” (quello dello Stato-nazione. Dove gli stati non sono tutti sullo stesso piano) e “potere economico” (capitalistico) in cui i processi di finanziarizzazione dell’economia, ovvero “la natura del capitalismo” (Arrighi 1999), sono tutt’altro che senza patria innescando “la concorrenza tra stati nei periodi di transizione egemonica” (Turchetto 2008). Compito smisurato, a cui può rispondere, di volta in volta, solo una varietà di “soggetti collettivi”, o meglio di agenti collettivi e plurali, capaci di organizzarsi su scala locale e globale.

La Comune fu proprio il tentativo di arginare la dismisura in atto: “il grande e supremo tentativo da parte della città di ergersi a misura e norma della realtà umana” – sostiene Henri Lefebvre – rispetto “all’artificiosità del denaro e del capitale” che prendeva il sopravvento (Lefebvre 1965). E allo stesso tempo – ricorda Bensaïd citando i situazionisti – fu “l’unica realizzazione di un urbanesimo rivoluzionario combattendo sul terreno dei segni pietrificati dell’organizzazione dominante della vita”; o ancora un “momento orizzontale” (Ross 1988) simbolicamente visibile nella caduta della colonna Vendôme, e dunque nell’occupazione di un “territorio ostile” in uno scenario in cui la città diventa “un teatro strategico” e la posta in gioco è “la capitale di un territorio” (pp. 76-77). Non è certo casuale – rincara Bensaïd – se “per tutto il XX secolo, i piani di sviluppo urbano non hanno smesso di scongiurare gli spettri della Comune, del Fronte popolare, della Liberazione o del Maggio ’68, privando la capitale delle sue energie popolari a vantaggio dell’edificazione monumentale e dell’esposizione fieristica della merce trionfante” (p. 78). Infine la Comune fu anche un esempio del nodo irrisolto tra “legalità e legittimità”. Sintetizzato nella contrapposizione tra il comitato centrale della Guardia nazionale – che di fatto si innalzava a nuovo potere decidendo di togliere l’assedio e organizzare nuove elezioni – e sindaci e vice sindaci legalmente eletti, con tutte le difficoltà che contraddistinguevano un potere in via di scioglimento ed uno ancora non pienamente tale anche a causa della disomogeneità e dei contrasti in seno a quest’ultimo. Riassumendo: “la Comune è un evento politico complesso in cui si articolano e si intrecciano tempi e spazi discordanti, e altrettanti motivi politici strettamente mescolati” (p. 80). Un’esperienza eccedente, non archiviata. Forse è anche per questo che la repressione fu brutale. Terrificante. Friedrich Engels nell’introduzione all’edizione del 1891 della Guerra civile in Francia ricorda così quegli ultimi giorni del maggio 1871:

soltanto dopo una lotta di otto giorni gli ultimi difensori della Comune caddero sulle alture di Belleville e Ménilmontant; e l’eccidio di uomini inermi, delle donne, dei fanciulli, che infuriò con rabbia crescente per tutta la settimana, raggiunse qui il suo punto più alto. Il fucile a ripetizione non uccideva abbastanza rapidamente; i vinti vennero trucidati collettivamente a centinaia dalle mitragliatrici. Il “Muro dei federati” nel cimitero di Père Lachaise, dove fu consumato l’ultimo eccidio in massa, rimane ancor oggi come un muto ma eloquente documento della furibonda follia di cui è capace la classe dominante, non appena il proletariato osa farsi innanzi per far valere i suoi diritti (p. 175).

È una storia nota, soprattutto per chi non smette, se non d’inventare, almeno di ricercare l’ignoto.

asd

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