Marco Manfredi
Associare i temi lugubri della morte e della guerra ad un movimento per vocazione antimilitarista e fortemente proteso verso il “Sol dell’Avvenire” potrebbe apparire a prima vista una singolare stranezza o una forzata provocazione. Se a farlo è tuttavia Maurizio Antonioli, uno dei maggiori conoscitori della storia politica del movimento operaio italiano, ed in particolare della sua variante anarchica, ma da sempre attento anche al peso e all’influenza degli immaginari delle classi subalterne e al ruolo giocato in essi dalla forza del rituale (si vedano ad esempio i suoi pionieristici studi sulla forza evocativa del primo maggio), l’associazione non deve apparire troppo estemporanea e merita forse di essere presa sul serio. Questo suo libro pubblicato dalla Biblioteca Franco Serantini è del resto la rielaborazione, e dunque anche la stratificazione, di riflessioni messe insieme in ordine sparso in alcuni contributi scritti nell’arco di più di un decennio; contributi spesso nati dalla raccolta di documentazione “minore” e dall’incontro con avvenimenti e vicende all’apparenza altrettanto minori avvenuti, quasi quale esito collaterale, nel corso di studi maggiormente “impegnativi” su temi ed argomenti più strettamente e classicamente politici. Materiale dunque collezionato e conservato nella memoria dall’autore e poi recuperato nel tempo in saggi dedicati a storie e figure “marginali”, inizialmente mossi quasi da curiosità e passione ma che rifusi adesso in un unico volume ci restituiscono nel loro insieme l’importanza e l’intima coerenza di aspetti e fenomeni apparentemente minori. Attraverso traiettorie biografiche di personaggi dimenticati, reti di rapporti personali e inedite mappe di influenze e di legami, o ancora attraverso la fortuna arrisa a generi e scritti meno “impegnati” è possibile allora cogliere quanto i temi enunciati in partenza ritornino nella stessa tradizione anarchica più di quanto le posizioni espressamente politiche o le narrazioni storiche postume non dicano.
A proposito di queste ultime, la “costituzionale refrattarietà degli anarchici italiani al primo conflitto mondiale”, ma – diremmo noi – più in generale alla “guerra”, rappresenta, come rileva l’autore, un luogo comune fra i più resistenti (p. 133). Spesso derubricato a degenerazioni personali e pressoché inspiegabili di pochi singoli, si pensi al lacerante caso dell’“eroina anarchica” Maria Rygier più volte richiamato nello stesso libro, questo rapporto sembra invece avere motivazioni storiche ben più profonde, che se ritessute pazientemente insieme restituiscono a quei casi una loro comprensibile e più intima intelligibilità di fondo. Nel discorso anarchico dell’epoca del resto, specialmente nel caso dei linguaggi più emozionali e diffusi fra i militanti, come la poesia popolare o il canto politico, la guerra e le correlate pulsioni di morte, e persino in qualche caso l’ideale nichilistico della “bella morte”, risultano ricorrenti e frequenti. La loro ripetizione ossessiva, soprattutto in tali forme di comunicazione declamatorie e per natura comunitarie e ripetitive, doveva aver dunque favorito una certa familiarità dell’immaginario comune anarchico con quei temi. E del resto se si passa dal piano dell’immaginario, dei processi culturali, a quello della concreta esperienza, non furono effettivamente poi così pochi i libertari italiani, non di rado suggestionati anch’essi dalla potente mitografia risorgimentale dell’internazionalismo garibaldino, a subire il fascino di miti quali la guerra volontaria, il culto dell’eroe e del combattimento e a sentire forte il richiamo delle armi. All’inseguimento di tali miti e di un tale carico di suggestioni troviamo allora anarchici noti e meno noti disponibili a lasciare sul terreno la propria vita. Esemplare in tal senso la vicenda ricostruita, dal punto di vista anarchico e non solo, in uno dei migliori capitoli del libro (La compagnia della morte. Gli anarchici garibaldini nella guerra greco-turca del 1897. Ritratto di gruppo, pp. 23-39) relativa alla spedizione pro Candia organizzata durante la guerra greco-turca del 1897. Una spedizione nella quale un nutrito drappello di anarchici, agli ordini del mitico comandante della Comune Amilcare Cipriani, ebbe la sua rilevante parte, con tanto di caduti da celebrare come martiri. E anche molti che non imbracciarono le armi, come avrà forse potuto facilmente constatare chiunque abbia una qualche frequentazione con i periodici libertari dell’epoca, simpatizzarono e solidarizzarono da lontano, così che in varie parti della penisola gli anarchici si mobilitarono attivamente, spesso in collaborazione con altri movimenti politici, in iniziative di sostegno propagandistico e finanziario a quell’impresa. Nelle pagine del testo sembra così prendere forma anche nel campo del sovversivismo anarchico, grazie allla ricostruzione della spedizione greca e di altre vicende, quel radicamento di retoriche e miti profondi, di matrice ottocentesca, che tanto ruolo avranno nelle molte conversioni interventiste di rivoluzionari italiani al momento dello scoppio del primo conflitto mondiale. E se è vero che in un certo senso sembra di assistere in piccola scala all’anticipazione di dinamiche destinate a ripetersi fra il 1914 ed il ’15, tanto che Antonioli ci ricorda che il principale e più carismatico esponente dell’anarchismo italiano, Errico Malatesta, si affrettò ad intervenire in occasione dell’avventura greca nel tentativo di raffreddare e contenere i non pochi eccessi bellicisti, altrettanto vero è che trattavasi dello stesso Malatesta, si potrebbe qui aggiungere, che a suo tempo, sulla scia di quegli stessi miti, si era recato in circostanze analoghe a combattere in Bosnia-Erzegovina contro il dominio turco in occasione della rivolta antiottomana 1876; a dimostrazione ulteriore, al di là di quel suo specifico richiamo all’ordine, della profonda e stratificata compatibilità di certi temi, come la guerra volontaria e l’internazionalismo garibaldino, con la stessa storia e biografia dell’anarchismo italiano. Un’impresa quella greca che pertanto non si spiega se non in relazione con le precedenti imprese filogaribaldine e che, come rileva sempre Antonioli, contribuisce a spiegare a sua volta come saranno possibili le prime significative e spontanee spedizioni di volontari italiani nelle Argonne e nelle trincee francesi già nel ’14.
Altre vicende, altre storie e parabole personali rievocate in ordine sparso nel libro di Antonioli (come ad esempio i rapporti culturali tutt’altro che lineari di tanti anarchici con la figura di D’Annunzio) a dimostrare questa concatenazione di influenze culturali, di cui comunque la vicenda di Candia per una serie di ragioni resta più paradigmatica di altre, potrebbero essere riportate per dare conto dei meriti del paziente lavoro di interpretazione e di ricucitura messo insieme da Antonioli. E a proposito dei meriti storiografici del libro, vale la pena forse di rilevare quanto questa fatica, a completare non poche pubblicazioni consimili uscite negli ultimi anni e in particolare, insieme ad altrettante mostre, in questo 2009 per la coincidenza con il centenario “futurista”, sia comunque capace di non risultare la ripetizione di cose già dette ritagliandosi al contrario una sua specifica ragion d’essere nel quadro delle interpretazioni storiografiche. Arrichendo le prospettive di analisi, il lavoro di Antonioli è infatti in grado di andare più indietro nel tempo nella ricerca delle radici di certo sovversivismo fattosi accesamente manifesto nella cultura politica dell’età giolittiana. Un sovversivismo che non aveva radici e giustificazioni solo in quel preciso contesto storico, quale portato dei contraccolpi della rapida ed accelerata modernizzazione dell’economia e della società di inizio secolo (si veda in tal senso E. Gentile, L’Apocalisse della modernità. La Grande Guerra per l’uomo nuovo, Mondadori, 2008), ma anche in suggestioni e motivi più lontani e profondi inscritti nella storia nazionale. La tela delle influenze culturali ricostruita nei diversi capitoli del libro ci racconta infatti del perpetuarsi di temi, modelli e figure profonde inscritti nella tradizione risorgimentale.
È altresì vero però che, fatta salva la ricostruzione di Antonioli, vale forse la pena, per restare perlomeno al principale ambito di studio del libro, ossia la storia dell’anarchismo, di domandarsi quanto nella definizione degli immaginari in esso descritti non finissero per pesare parimenti altri fattori di condizionamento culturale.
Va bene il peso giocato da questa eredità culturale interna di matrice prevalentemente risorgimentale, ma, a livello di riflessione e di ipotesi di ricerca, si deve aggiungere a completamento e a prosecuzione dello sforzo avviato da Antonioli il possibile ruolo di altre influenze culturali non necessariamente interne, che numerosi segnali farebbero presagire come rilevanti. Le vicende biografiche di tanti anarchici italiani ci ricordano ad esempio che molti anni di errabonda esistenza sia di militanti comuni che di personaggi di assoluto spessore, quali per fare solo due esempi Pietro Gori o Malatesta, furono vissuti e trascorsi all’estero. Nessuno come gli anarchici usufruì peraltro, per volontà o per necessità, delle grandi migrazioni transoceaniche dell’epoca. È allora lecito chiedersi cosa sia rimasto sul piano delle influenze storiche di quelle lunghe e dense, ma in fin dei conti ancora poco note, esperienze dell’esilio, di anni e anni vissuti e trascorsi in zone fra le più distanti e disparate del mondo lontano dagli echi di certe tradizioni della cultura nazionale. Tanto più che un recente e assai stimolante lavoro di Benedict Anderson (Sotto tre bandiere. Anarchismo e immaginario anticoloniale, manifestolibri, ediz. it. 2008), il fortunato autore dell’ormai notissimo Comunità immaginate, muovendosi in una prospettiva storica assai ampia ha messo in luce quanto a cavallo fra i due secoli si andò formando una cultura anarchica e rivoluzionaria con forti connotati transnazionali, evidenziando l’associazione stretta ed essenziale fra esilio, emigrazione ed immaginario anarchico. Lo stesso Anderson dimostra quanto dalle Americhe del sud a gran parte dell’Europa si mossero al tempo personaggi e idee, spesso non strettamente riconducibili alle categorie dell’analisi politica in senso stretto ma influenzati da innovazioni artistiche e letterarie, figlie delle nuove avanguardie, e quanto forte risultasse la loro capacità di influenza reciproca. Incroci e influenze artistico-letterarie ed estetizzanti che contribuirono forse ad imprimere anche all’anarchismo italiano quello stile politico accentuatamente “emotivo”, fortemente cioè fondato sul ricorso e sulla sollecitazione delle emozioni che appare a chi scrive un tratto assai tipico del movimento libertario. Certamente esistevano e si facevano dunque indubbiamente sentire la fascinazione certi miti risorgimentali e per la figura di Garibaldi, i richiami forti della poetica di Carducci ecc., ma ugualmente in questo quadro di spiccata vocazione internazionalista del movimento andrebbero valutate e approfondite l’influenza e il lascito di un Grave, di un Mirbeau, di un Malato e con essi di movimenti d’avanguardia come il naturalismo o il simbolismo, di riviste come La Révolte e Les Temps Nouveaux o il successo – nel creare rappresentazioni, temi e figure consolidati – di generi nuovi e dirompenti come il romanzo “sociale” o di discipline in formazione, ma tutt’altro che sconosciute ad esempio ad un Pietro Gori, come la psicologia sociale. Ma la storia dell’anarchismo italiano come “global trend”, come parte cioè di più ampie uniformità globali, è da questa prospettiva ancora in larga parte, se non completamente, da fare.
Peraltro, solo per restare strettamente al tema di ricerca specifico del libro, la questione del rapporto fra guerra e anarchismo non appare del resto affare meramente italiano; a dimostrare più ampie connessioni, basterebbe ricordare le clamorose e fragorose “conversioni” alla vigilia del conflitto di alcuni dei maggiori esponenti dell’intellighenzia e della cultura anarchica internazionale (Kropotkin, Grave, Malato solo per fare alcuni nomi). Conversioni che, brevemente accennate anche in un passaggio del libro (p. 106), inducono peraltro lo stesso Antonioli a manifestare l’esigenza e a sostenere la necessità di allargare lo spettro delle indagini per scandagliare ancora e assai più in profondità ciò che si muoveva nella magmatica e complessa galassia culturale libertaria.
Del resto questa serie di contributi, al pari di alcune altre cose episodicamente scritte in passato dallo stesso autore, rappresentano fra i pochi inviti che nel nostro contesto storiografico confortano, e sollecitano, ad indagare la storia del movimento operaio in una chiave più ampia e ad interrogarsi maggiormente sui limiti di una storia improntata esclusivamente ad una chiave di lettura strettamente politica, o detto in altri termini a interrogarsi su quali siano i confini della definizione di ciò che deve considerarsi politico. L’autore offre in questa raccolta una serie di spunti, di suggestioni emersi a latere di altri studi, ma che andrebbero ulteriormente sviluppati e indagati con organiche e seriali ricerche, come ribadito peraltro più volte nelle pagine del libro fin dalla breve premessa (p. 10). Per migliorare le nostre conoscenze, anche nella verifica e nell’approfondimento dell’incrocio di influenze menzionate, si tratterebbe ad esempio di studiare più organicamente in maniera sistematica il discorso anarchico, ripercorrendone il processo di formazione (l’“archeologia” per usare un gergo “culturalista”), le forme, i temi, le influenze, o ancora le pratiche rituali e la simbologia degli anarchici italiani. Rispetto a tutto ciò queste pagine suonano come un primo piccolo passo, e per certi versi un invito a cercare di avviare un’opera di rilancio, e al contempo di necessario aggiornamento, della storiografia italiana sulle classi subalterne, che, dopo l’età dell’oro degli anni settanta, è rimasta poi fin troppo estranea alle suggestioni e agli stimoli della cultural turn.