Media, propaganda politica e consenso nel XX secolo

Luca Mori

Abstract

L’evoluzione dei mezzi di comunicazione ha inciso, nel corso del ventesimo secolo, sull’evoluzione della propaganda e della comunicazione politica. L’articolo considera alcuni casi e dibattiti significativi, suggerendo l’esistenza di un rapporto di causazione circolare tra evoluzione dei media ed evoluzione delle forme del consenso, tanto in dittatura quanto in democrazia, nei termini seguenti: esigenze in senso lato politiche hanno inciso sull’uso e sulla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e questi, reciprocamente, introducendo nuovi frames hanno inciso sull’evoluzione della comunicazione politica e delle modalità di ricerca, “costruzione” e mantenimento del consenso.

Abstract english

MEDIA, PROPAGANDA AND CONSENSUS EVOLUTION DURING THE 20TH CENTURY Abstract During the 20th century the evolution of mass media significantly influenced the evolution of propaganda techniques and political communication. Taking account of some important debates and case studies, this article suggest the existence of a circular causal relationship between the evolution of mass media and the evolution of consensus management, as well in democracy as in dictatorial or totalitarian regimes, along these lines: political needs influenced the use and

Introduzione al problema

“La cinematografia è l’arma più potente”: nel 1937, in occasione dell’avvio dei lavori per la nuova sede dell’Istituto Luce, questo slogan campeggiava a caratteri cubitali sotto un’immagine del duce impegnato alla camera da presa (Tacchi 2000, 99-100). Non si trattava di una scoperta dell’ultima ora, ma della conferma di un’intuizione che risaliva ai primordi dell’era fascista. Celebrando il quinquennio dell’Istituto Luce, Alessandro Sardi ricordava come un ente “pieno di fede ed animato da un programma completamente nuovo: educare a mezzo della cinematografia”, fosse nato nel settembre 1924 col nome “Sindacato Istruzione Cinematografica” (Sardi 1929, 5-6). Al duce veniva riconosciuta la preveggente comprensione della “potenza” della cinematografia quale “mezzo di propaganda morale, sociale e politica” (p. 5):

Tutti i principali avvenimenti del Regime vengono prontamente ripresi e proiettati perché il popolo abbia la documentazione di quanto il Fascismo crea ed opera. Il lavoro dei campi e delle officine, le opere pubbliche, le grandi adunate di popolo, l’opera assistenziale e di previdenza per i bisognosi, l’educazione delle nuove generazioni, il riordinamento delle Forze Armate dello Stato, la bonifica integrale, il riassetto delle strade, l’incremento e il riordinamento delle Ferrovie e della Marina Mercantile, l’attività dei Dopolavoro, tutto questo miracolo insomma di ricostruzione materiale e di rivalutazione spirituale e morale che il nostro popolo, unito attorno al Duce e da Lui guidato, compie di giorno in giorno, viene documentato in modo irrefutabile […] (p. 34).

Nel 1931 era uscito il primo film sonoro russo, Putëvka v žizn’ (Un biglietto di viaggio per la vita, EKK), “dedicato alla rieducazione degli orfani in una comune di lavoro” (Piretto 2001, 103 ss.) e l’evento segnava, in Russia, la “fine dell’internazionalismo cinematografico” e un punto di svolta nell’utilizzo del cinema per “decorare la nuova vita” (p. 105). Impegnato in quello che concepiva come un “movimento per l’organizzazione dell’ottimismo” (Brenner 1965, 202), oltre al presidio di teatri e musei, gallerie e piazze come luoghi di propaganda, e oltre al cinema, in quegli anni Goebbels sperimentava l’installazione dei televisori in luoghi pubblici, “per trasmettere messaggi del partito agli astanti” (Gorman, McLean 2005, 122).

È noto che la prima guerra mondiale costituì un momento di svolta cruciale nella sperimentazione dei mezzi di comunicazione di massa a fini di propaganda. In Gran Bretagna nel 1914 fu istituito un Press Bureau sotto il controllo della Camera dei deputati, poi un War Propaganda Bureau (Anania 2007, 25-26; Sanders, Taylor 1982); in Francia vide la luce un Bureau de Presse dipendente dal Ministero della guerra, mentre in Italia un Ufficio foto-cinematografico si occupava della “diffusione all’estero di fotografie e filmati sulle battaglie condotte dall’esercito italiano” (Anania 2007, 27). Quanto agli Stati Uniti, negli anni della neutralità (dal 1914 al 1917) essi diventano “teatro di una vera e propria guerra mediologica esterna da parte della propaganda tedesca e inglese, in cui il cinema gioca un ruolo di primo piano” (Brunetta 1999b, 267; cfr. Duane Squires 1935; Peterson 1939; Messinger 1992). Il ruolo del cinema risalta confrontando due documentari: una produzione Universal del 1914, Neutrality, raccontava la storia di due immigrati, un tedesco e un francese, che rimanevano amici nonostante la guerra in Europa (Brunetta 1999b, 269); al momento dell’intervento, il Committee for Public Information produsse nuove narrazioni, le cui linee guida sono ben rappresentate dal documentario The Pershing Crusaders (1918), in cui i soldati del generale Pershing venivano rappresentati come nuovi crociati impegnati in una battaglia per il bene, la democrazia e la civiltà (Brunetta 1999b, 271-272; Anania 2007, 29).

Anche la chiesa cattolica prestò una precoce attenzione all’utilizzo del cinema come strumento per la comunicazione e l’educazione: nella filmoteca vaticana troviamo pellicole come L’inferno (1911), ispirato a Dante, e Il poverello d’Assisi (1911), conservate tra le 210 opere del fondo intitolato al gesuita Josef Joye (1852-1919), che le utilizzava come strumenti educativi per i suoi ragazzi in un liceo svizzero di Basilea. Tra il 1896 e il 1898, lo stesso papa Leone XIII si era lasciato filmare in varie occasioni in Vaticano e

[…] le riprese effettuate dall’American Biograph nel giugno 1898 fanno il giro del mondo, in particolare quelle in cui il papa dalla sua carrozza benedice la macchina da presa, o, meglio, lo spettatore – il fedele – che guarda lo schermo e non potrà mai incontrare direttamente il pontefice a Roma (Convents 2001, 484-485).

Quelli precedenti sono soltanto alcuni esempi dei molteplici e fitti nessi che intercorrono, nel corso del XX secolo, tra l’evoluzione dei media e l’evoluzione delle forme del consenso, della propaganda, dell’educazione e della comunicazione politica. Nessi peraltro già segnalati da Walter Lippmann nel 1922, quando si riferisce esplicitamente al tema del consenso, osservando che “la creazione del consenso non è un’arte nuova” e che tuttavia, “per effetto della ricerca psicologica abbinata ai moderni mezzi di comunicazione, la prassi democratica ha fatto una svolta” (Lippmann 1995, 225). Svolta da intendersi, come si legge subito dopo, come “una rivoluzione, infinitamente più significativa di qualsiasi spostamento di potere economico”. Questo articolo propone un’introduzione al tema, saggiando in particolare l’ipotesi di un rapporto di causazione circolare tra evoluzione dei media ed evoluzione delle forme del consenso, nei termini seguenti: esigenze in senso lato politiche hanno inciso sull’uso e sulla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e questi, reciprocamente, introducendo nuovi frames, hanno determinato l’evoluzione della comunicazione politica stessa e delle forme di ricerca, costruzione e mantenimento del consenso.

A questo proposito una ricerca storica è cruciale anche per affrontare problemi di definizione concettuale e di “modellizzazione”. Per quanto riguarda la storia dei concetti è significativo il fatto che in un’autorevole Enciclopedia del pensiero politico come quella curata da Galli ed Esposito (2007) il lemma “consenso” non compaia: ciò accade probabilmente perché in filosofia si è prestata più attenzione a concezioni normative dell’intesa ed a nozioni come quelle di “contratto” e di “patto” in condizioni idealizzate, mettendo tra parentesi la storia. Considerare i nessi tra evoluzione dei media ed evoluzione delle forme del consenso può supportare una rilettura dei luoghi in cui la filosofia stessa si è posta problemi tuttora dibattuti, come il tema dei miti, delle narrazioni e della fiction nel loro impatto sulla coesione sociale: argomento di cui trattava già Platone, come ricorda Caïra (2005, 5 ss.) in un libro sulla censura ad Hollywood.

Uno sguardo storico è poi richiesto per tentativi di modellizzazione che intersecano storia, psicologia sociale e sociologia, come quelli di Hallin e Mancini (2008) e di Bentivegna (2005). Hallin e Mancini (2008, 62 ss.) individuano tre modelli di giornalismo in relazione a tre tipologie di correlazione tra le caratteristiche del sistema dei media e quelle del sistema politico. In sintesi, nel modello (1) mediterraneo o pluralista polarizzato vengono fatti rientrare Francia, Germania, Italia, Portogallo e Spagna; nel modello (2) europeo centro-settentrionale o democratico-corporativo troviamo Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Germania, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia, Svizzera; infine, nel modello (3) nord-atlantico o liberale sono inclusi Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada, Irlanda. Più in dettaglio, il modello (1) si caratterizza dal punto di vista della struttura della stampa per la “bassa circolazione dei giornali” e per una “stampa d’élite”, con “debole professionalizzazione” e periodi di forte intervento dello Stato; a ciò corrispondono, sul piano del sistema politico, “ritardata democratizzazione”, “pluralismo polarizzato”, “scarso sviluppo dell’autorità razionale-legale (eccetto che in Francia)” e “clientelismo”. Il modello (2) si caratterizza invece per l’“alta circolazione dei giornali” e lo “sviluppo precoce della stampa di massa”, con “forte intervento dello Stato”, “elevata tutela della libertà della stampa” ed un “forte sistema di servizio pubblico radiotelevisivo”; a ciò corrispondono, sul piano del sistema politico, “precoce democratizzazione”, “pluralismo moderato (eccetto che in Germania e Austria pre-1945)” e “forte sviluppo dell’autorità razionale-legale”. Il modello (3) si caratterizza infine per un “livello medio di circolazione dei giornali” e per lo “sviluppo precoce della stampa di massa”, a cui corrispondono sul piano del sistema politico una “precoce democratizzazione” e un “pluralismo moderato”, con un “forte sviluppo dell’autorità razionale-legale”.

Il modello di Bentivegna (2005, 19 ss.) distingue tre tipologie di campagna elettorale in base ai mezzi di comunicazione impiegati: abbiamo così le “campagne premoderne”, dalla metà del XIX secolo agli anni Cinquanta, condotte con budget contenuto e prevalentemente con il sostegno di una stampa favorevole, con manifesti, volantini e, a partire dagli anni Venti, messaggi radiofonici; le “campagne moderne”, dai primi anni Sessanta alla fine degli anni Ottanta, si caratterizzano per l’introduzione occasionale dei sondaggi e per la copertura televisiva progressivamente più ampia del dibattito politico e della competizione elettorale; infine, le “campagne postmoderne”, dagli anni Novanta ad oggi, si caratterizzano per il ricorso regolare ai sondaggi, per l’utilizzo di focus group e siti web interattivi, per gli “spot elettorali targetizzati” e per la presenza pianificata e costante dei candidati in programmi televisivi mirati.

Vedremo di seguito alcuni casi significativi, che in parte rientrano nei modelli precedenti e in parte sollecitano maggiori approfondimenti e più precise contestualizzazioni.

Le ricerche sugli effetti dei media

Il ricorso deliberato ai mezzi di comunicazione di massa come strumenti di propaganda si accompagna, fin dagli inizi del secolo, ad ipotesi e studi sugli effetti dei mass media sugli elettori. Il dibattito è tuttora aperto e la sua ricostruzione è generalmente affidata ai trattati sulle teorie delle comunicazioni di massa. Qui basterà ricordare alcuni episodi significativi.

Nel 1928, sul “Journal de psychologie normale et pathologique”, usciva un articolo di Gemelli dedicato alle cause psicologiche dell’interesse delle proiezioni cinematografiche (Gemelli 1928), in cui si legge tra l’altro:

In varie riprese sono entrato in una sala cinematografica col proposito deliberato di resistere al fascino esercitato dalla proiezione; di conservare vigile e acuto il controllo su me stesso, di esercitare i poteri di critica; in una parola di mantenere nei confronti del film, tutta intera la mia responsabilità. Tale esperienza l’ho ripetuta con proiezioni d’interesse, di genere e di contenuto differenti, accompagnati o no da commento musicale […]. Ho invariabilmente constatato che i poteri di resistenza vanno gradualmente affievolendosi […], fino a farmi trascurare, a un certo momento, completamente il compito che mi era prefisso per immergermi del tutto, a mia insaputa, nel dramma. Ho notato questo anche nel caso di film in cui l’interesse era artificialmente ridotto al minimo; poiché separando dei frammenti di pellicola erano state artificialmente create contraddizioni e assurdità, e il filo degli avvenimenti era di una tale tenuità, da rassomigliare al flusso dei sogni che si succedono senza concatenazione chiara e precisa. Sono quindi giunto alla seguente conclusione: L’interesse suscitato dal film è simile all’interesse dei sogni e la spiegazione psicologica della nostra condotta innanzi allo schermo ci dimostra che ci comportiamo come nello stato onirico (cit. da D’Alessandro 1957, 325-326).

Il riferimento all’onirismo dello spettatore cinematografico ben si inserisce nel più generale dibattito sulla propaganda, risalente già alle osservazioni di fine secolo di Gustave Le Bon. Questi, nella Psicologia delle folle del 1895 – l’anno in cui i fratelli Lumière brevettano e inaugurano il loro cinematografo – aveva individuato i meccanismi fondamentali della propaganda nell’affermazione, nella ripetizione e nel contagio. Annunciando l’inizio di una nuova âge de la Propagande, nel 1950, Jacques Driencourt scriverà che il francese medio Monsieur Dupont, lo statunitense Mr. Babitt e il sovietico compagno Popov vivono tutti in un’“atmosfera di costante artificio, di realtà e di menzogna” (Driencourt 1950, 1). Nel 1958, in Ritorno al mondo nuovo, Aldous Huxley, con un lessico di sapore freudiano, individua i fattori iterazione, soppressione e razionalizzazione quali meccanismi basilari della propaganda (Huxley 1991), mentre di lì a poco Brown (1963, 25) si riferisce al fenomeno della “suggestione”, come possibilità di “indurre […] l’accettazione di una particolare credenza senza dare alcun fondamento evidente e logico per tale accettazione, che esso esista o no”. Sullo sfondo di queste discussioni, può essere considerata una singolare coincidenza il fatto che “il primo grande creatore di uno stile cinematografico” (Lawson 1966, 16), il francese George Méliès, fosse stato anche prestigiatore. Di lui è stato scritto che fu il primo a porsi il problema dei “fini spettacolari” (Mitry 1965, 281) e che “scoprì nella macchina da presa possibilità magiche” (Jacobs 1961, 39). Dal punto di vista della tecnica cinematografica

Méliès mise a punto sempre più complessi trucchi cinematografici. Fotografando un’immagine sovrapposta ad un’altra inventò la doppia esposizione. Bloccando la macchina da presa immobilizzò l’immagine in movimento. Ottenne effetti speciali variando la velocità di ripresa, accelerando il ritmo, o rallentandolo per dare un’impressione di sogno. Scoprì la dissolvenza – in apertura, in chiusura e incrociata – per realizzare il passaggio da una scena alla successiva (Lawson 1964, 17).

Che le immagini potessero avvincere ed ossessionare la mente lo aveva sostenuto già Le Bon, arrivando alla conclusione per cui “conoscere l’arte di impressionare l’immaginazione delle folle, vuol dire conoscere l’arte di governare” (Le Bon 2004, 98). Sul “potere ideomotore” delle immagini e sul cinema come strumento all’avanguardia tra i mezzi della propaganda torneranno, nel secondo dopoguerra, alcuni contributi della Revue internazionale du cinéma (cfr. Albera 2009), ma già agli inizi del ventesimo secolo era stato segnalato l’impatto delle immagini viste sullo schermo non solo sulle credenze, ma anche sugli atteggiamenti e sui comportamenti. È la questione dell’imitazione, su cui richiamava l’attenzione nel 1919 il periodico “Education”, individuando anzitutto la “tendenza nei bambini a imitare le imprese audaci viste sullo schermo”, senza tuttavia trascurare che l’imitazione non era “limitata ai bambini e alle bambine, ma [toccava] anche gli adolescenti e persino gli adulti” (Briggs, Burke 2007, 290-291).

A partire dalla seconda metà degli anni Venti gli autori impegnati nella Motion Picture and Youth Research Series, nota col nome di Payne Fund Studies, tentarono di indagare scientificamente gli effetti della visione cinematografica sui bambini, analizzando nei giovani spettatori la relazione tra l’esposizione a film ed elementi quali le emozioni, la condotta e le attitudini (verso valori morali, sessualità, violenza e così via). Durante la seconda guerra mondiale studi analoghi, ma ormai riferiti in particolare agli adulti ed anzitutto ai soldati, continuarono ad essere sponsorizzati dal governo. Carl I. Hovland, con l’incarico di psicologo capo presso l’Ufficio ricerca della Divisione informazione e educazione del Dipartimento di guerra, poté condurre test e ricerche su vincoli e condizioni necessarie a cambiare attitudini e opinioni dei destinatari (lettori, spettatori) di messaggi (testi, immagini, film e così via); in questo ruolo, si trovò ad esempio a valutare l’effettiva forza persuasiva della serie Why We Fight, commissionata a Frank Capra per rinforzare il morale delle truppe e motivarle alla guerra (cfr. Glander 2000, 90 ss.).

Fotografia, stampa e “pseudoambienti”

Secondo il filosofo tedesco Jürgen Habermas, la diffusione di giornali come “The Spectator” e “Craftsman”, letti in circoli e club, ebbe un ruolo determinante nella nascita dell’opinione pubblica come public spirit in Inghilterra. Con Habermas, occorre tuttavia chiedersi perché l’espressione “opinione pubblica” abbia mantenuto una fondamentale ambivalenza, designando il “comune destinatario” di “due forme di pubblicità […] in concorrenza”: da un lato, essa sarebbe l’espressione di un’attività e di una volontà critica dei cittadini, rese possibili dai giornali e in seguito dagli altri mezzi di comunicazione di massa; dall’altro lato, essa sarebbe la destinataria della pubblicità e della propaganda, a fini persuasivi o addirittura manipolativi, da parte di chi di volta in volta ha il potere di condizionare ciò che i mass media comunicano (Habermas 2005, 272)1.

Che la stampa potesse incidere sulla tenuta dei governi lo aveva dimostrato il caso degli articoli del primo reporter di guerra, William H. Russell, inviato in Crimea nel 1854 dal “Times” di Londra, che aveva allora una diffusione di circa 20.000 copie. Per quanto il direttore del “Times”, John Delane, non pubblicasse interamente i dispacci di Russell, tenendone riservate le parti più delicate

ciò nonostante gli articoli ebbero un impatto enorme e furono determinanti nel far cadere il governo di Lord Aberdeen nel 1855, soppiantato da quello di Lord Palmerston (Bergamini 2009, 20).

Nel 1855 il governo inglese decise di inviare in Crimea un fotografo ufficiale, Roger Fenton. Le riviste del tempo diedero larga diffusione alle sue foto, “in cui i soldati inglesi apparivano ben vestiti ed equipaggiati, efficienti, ordinatamente disposti accanto a cannoni e postazioni; persino i feriti esibivano candide fasciature dove nemmeno una piegatura era fuori posto”. Al riguardo, Oliviero Bergamini conclude che quello

fu il primo tentativo di costruire una vera e propria immagine virtuale della guerra, finalizzata a cementare il consenso interno, e una prima sperimentazione sia della grande forza comunicativa dell’immagine, sia del suo enorme potenziale di manipolazione (Bergamini 2009, 22).

Alcuni decenni dopo, all’inizio degli anni Venti del ventesimo secolo, in un periodo caratterizzato dalla sensibile crescita del numero di abbonamenti ai quotidiani, Walter Lippmann introduce la nozione di “pseudoambiente” o “ambiente invisibile” per designare il prodotto combinato delle selezioni di eventi proposte dalla stampa, dal modo con cui le selezioni vengono comunicate e dagli “ostacoli” che limitano la possibilità, per il cittadino, di informarsi in modo preciso e dettagliato su tutto ciò che lo riguarda e che gli viene comunicato. Lo pseudoambiente è come un sipario o uno schermo frapposto tra il singolo cittadino e la “realtà del mondo esterno” (Lippmann 1995, 30-31). Alle considerazioni di Lippmann fanno eco, sul finire del ventesimo secolo, le tesi di Noam Chomsky, che interpreta i mass media come “fabbrica del consenso”: tentando di sfatare “il postulato democratico” secondo cui i media sarebbero “indipendenti” nel loro “compito di scoprire e di riferire la verità”, Chomsky considera il panorama statunitense e si sofferma sui casi in cui “i potenti sono in grado di fissare le premesse del discorso, di decidere che cosa la popolazione in generale deve poter vedere, sentire e meditare”, dirigendo così “l’opinione pubblica mediante regolari campagne di propaganda” (Chomsky, Herman 2006, 9). L’informazione che arriva sarebbe il “residuo” di ciò che passa attraverso filtri come gli interessi della proprietà e il suo orientamento al profitto, la raccolta di pubblicità e la necessità di fare ricorso fiduciario ad informazioni fornite dal governo. In momenti significativi del secondo dopoguerra, anche l’“anticomunismo” funzionò come criterio di filtro delle informazioni2.

Veicolando immagini e resoconti inevitabilmente parziali i mass media finiscono per incidere sulle emozioni, sulle credenze e sugli atteggiamenti di milioni di persone. Fin dagli anni Venti è attestata la convinzione che, assieme ai media e alle tecniche della propaganda, stessero mutando la “natura della società” e della democrazia. I casi di studio ricavati dalla prima guerra mondiale, da questo punto di vista, costituirono l’esempio di come la propaganda massmediatica potesse smuovere e indirizzare odio, speranze o paure di milioni di persone contro qualcosa o qualcuno. Al riguardo, si consideri la seguente testimonianza di Sylvester Viereck, risalente all’inizio degli anni Trenta:

Le Storie di Atrocità costituivano uno dei temi principali nella propaganda inglese. Nella maggior parte dei casi […] venivano bevute avidamente da un pubblico che non sospettava nulla. [La gente] sarebbe stata molto meno pronta ad accettare le storie che dipingevano la Germania come qualcosa di spaventoso se avesse assistito alla nascita delle più lugubri storie di atrocità inventate nel quartier generale del British Intelligence Department nella primavera del 1917. Il generale di brigata J. V. Charteris […] stava confrontando due fotografie sottratte ai tedeschi: la prima era la riproduzione molto chiara di una scena atroce, in cui dei cadaveri di soldati tedeschi venivano trascinati via per essere sepolti dietro le linee. La seconda fotografia mostrava dei cavalli morti che venivano condotti alle fabbriche dove i tedeschi usavano le carcasse per trarne in modo ingegnoso sapone e olio. L’ispirazione di scambiare le didascalie delle due immagini venne al generale Charteris come un’illuminazione. […] con destrezza il generale tagliò e incollò la scritta “Cadaveri tedeschi verso la fabbrica di sapone” sotto l’immagine dei soldati morti. Nel giro di ventiquattr’ore la fotografia era nel sacco postale per Shangai. Il generale Charteris mandò la fotografia in Cina per istigare l’opinione pubblica contro i tedeschi. Il rispetto dei cinesi per i morti rasenta il culto e la profanazione dei cadaveri attribuita ai tedeschi fu uno dei fattori che spinsero i cinesi a dichiarare guerra contro l’orientamento del potere centrale (Viereck 1930, 153-154)3.

Due teorici delle comunicazioni di massa, DeFleur e Ball-Rokeach, commentano così:

Dopo la guerra, un certo numero di persone che avevano giocato una parte importante nella conduzione della campagna di propaganda vennero assalite dai sensi di colpa per le grossolane falsità che avevano prodotto. Ciascuna delle due parti in causa aveva detto le peggiori menzogne sul conto dell’altra e, quando queste erano state diffuse attraverso i media, erano state spesso credute. Una persuasione così a larga scala di intere popolazioni attraverso l’uso di mass media non si era mai vista in precedenza e fu gestita con grande abilità e capacità di coordinamento. Erano anche tempi evidentemente più ingenui, in cui perfino la parola “propaganda” non era comprensibile all’individuo medio. Dopo la guerra, quando gli ex propagandisti pubblicarono un’intera serie di sensazionali atti di denuncia sulle falsità che avevano diffuso durante la guerra, il pubblico si fece più disincantato (DeFleur, Ball-Rokeach 1995, 177).

“Il pubblico si fece più disincantato”, commentano ottimisticamente DeFleur e Ball-Rokeach; eppure, la “potenza persuasiva” delle immagini e delle storie veicolate dai mass media, anche se false, continua a manifestarsi in tutto il Novecento, come ricorda Novelli (2006, 67) con un elenco sintetico ma efficace:

Falsa è la fotografia dei cadaveri dei soldati tedeschi della prima guerra mondiale trasportati alle fabbriche di sapone; falsa è la famosissima foto di Robert Capa del miliziano spagnolo colpito a morte durante il conflitto civile; falsa è l’immagine del cormorano coperto di petrolio, simbolo della guerra con l’Iraq del 1991; false tante foto di leader totalitari a fianco dei quali, a seconda delle stagioni politiche, appaiono e scompaiono alleati e avversari; false le immagini dell’inesistente massacro di Timisoara che non poco peso ha avuto negli sviluppi della rivoluzione romena del 1989.

Radio, cinema e televisione

Nel libro sullo Stato-spettacolo, Schwartzenberg (1980, 215) scrive che

Senza la televisione Nixon non sarebbe stato eletto vicepresidente nel 1952; senza la televisione non sarebbe stato battuto da Kennedy nella corsa alla Casa Bianca nel 1960. A quella data, quasi nove famiglie su dieci in America possiedono almeno un apparecchio televisivo. E la televisione è per Kennedy nel 1960 ciò che la radio era stata per Roosvelt nel 1932: l’arma della vittoria.

La televisione costituisce il punto di arrivo nella storia dei mass media e, sebbene le prime sperimentazioni del mezzo risalgano agli anni Trenta (con i primi programmi della Baird/British Broadcasting Corporation tra 1929 e 1932), sarà a partire dagli anni Cinquanta che essa contenderà al cinema il ruolo di medium cruciale nella formazione dell’“opinione pubblica”. Il termine “mass medium”, tuttavia, viene utilizzato per la prima volta nel 1923 per definire la radio (Anania 2002, 238). L’11 novembre 1920 fu annunciata via radio la vittoria di Warren G. Harding alle elezioni presidenziali, nel programma radiofonico della stazione KDKA (per la Westinghouse Electric and Manufacturing Company a Pittsburgh in Pennsylvania), il primo negli Stati Uniti ad essere regolare e trasmesso a ore fisse, inaugurato appena nove giorni prima. Nel 1924 le due convention nazionali del Partito democratico e repubblicano sono trasmesse via radio e “l’American Telephone Telegraph Company (At&t) collega ventiquattro stazioni in diretta per permettere a milioni di persone di seguire l’insediamento del presidente Coolidge” (ivi, 239). In Italia, nel 1924, dalla confluenza dei settori Ferrovie, Poste e Telegrafi, Telefoni e Marina Mercantile, nacque il Ministero delle comunicazioni affidato a Costanzo Ciano: un primo tentativo di trasmettere via radio un discorso di Mussolini, il 25 marzo di quell’anno, non andò a buon fine, ma nell’agosto nacque l’Unione radiofonica italiana (Uri), assorbita tra il 1927 e il 1928 nell’Ente italiano audizioni radiofoniche, segno di un’evidente intenzione politica di presidiare questo nuovo fronte mediale (Monteleone 2006, 17 ss.). Anche i bolscevichi tentarono di utilizzare la radio, fin dagli anni Venti, per la loro propaganda, ma anziché le radio familiari finirono per prevalere gli altoparlanti disposti nelle fabbriche, nei circoli e nelle fattorie collettive, mentre per tutti gli anni Trenta dal punto di vista della mobilitazione di massa e della propaganda continuarono ad essere più decisivi la stampa, i manifesti, il cinema, le feste e le sfilate (Gorman, McLean 2005, 114-115). In generale, occorre considerare che fin dagli anni Venti la stampa, la radio e il cinema coesistono come mezzi di comunicazione di massa, con una diffusione relativa diversa a seconda dei contesti. Quando nel 1912 il libro The Wireless Man di Francis A. Collinspresentò i radioamatori come il pubblico potenzialmente più grande del mondo (Briggs, Burke 2007, 184) fu colta profeticamente una tendenza: i nuovi mezzi di comunicazione avrebbero avuto una diffusione maggiore di quella possibile alla stampa. Ciò sarebbe stato valido per la radio come per il cinema e la televisione. Nessun mezzo tuttavia avrebbe conseguito il monopolio sul pubblico e assorbito gli altri mezzi, e tutti avrebbero continuato a coesistere con strumenti di propaganda e mobilitazione più tradizionali, quali i manifesti e i comizi nelle piazze.

Gli anni di The Wireless Man sono cruciali per l’Italia: Ridolfi (2002, 76) definisce la guerra di Libia del 1911-1912 “uno spartiacque importante nella cronologia della propaganda politica”, mentre le elezioni politiche dell’autunno 1913 e la consultazione amministrativa generale del 1914

sono un osservatorio privilegiato per comprendere quali fattori stessero contribuendo a mutare le campagne elettorali: la forza di attrazione dell’immagine (grazie ai manifesti colorati e alla riproduzione delle foto) e dell’eloquenza esibita nei contraddittori pubblici dai candidati, così come la loro capacità di spostarsi tramite l’automobile da un centro all’altro del collegio, nonché la riconversione in atto nel ruolo di coordinamento organizzativo con il graduale passaggio dai comitati ad personam a strutture di natura politica.

Durante il fascismo, in occasione delle chiamate alle urne del 24 marzo 1929 e del 25 marzo 1934, la radio, il cinema e i cinegiornali giocarono un ruolo importante assieme a mezzi di comunicazione più tradizionali come la stampa, i manifesti, i poster, le fotografie, oltre all’allestimento di scenografie e comizi nelle piazze.

Quanto al cinema, abbiamo accennato al ruolo che ebbe durante la prima guerra mondiale. Brunetta (1999c, 272-273) arriva a scrivere che dopo la dichiarazione di guerra degli Stati Uniti “il cinema americano si mette al servizio della politica governativa, fissando alcune modalità propagandistiche destinate a operare nei conflitti successivi”:

All’indomani della dichiarazione di guerra gli uomini di cinema si mettono a disposizione del presidente Wilson e si considerano mobilitati e in servizio permanente effettivo sul fronte interno. In un primo tempo viene creato il War Cooperation Committee of Motion Picture Industry (WCCMPI), diretto da William Brady e, solo in un secondo tempo, il CPI, che eserciterà una forte influenza di promozione dei film anche sui mercati stranieri e di boicottaggio della produzione tedesca negli stessi mercati.

Le proiezioni di film divennero occasioni per il reclutamento, con uffici predisposti nelle adiacenze delle sale o dei teatri, e per il finanziamento, con la richiesta di sottoscrizione per i Liberty Bonds (ivi, 280). Se il cinema totalitario si caratterizzava per la trasfigurazione e la “sostituzione del reale” (Bonfiglioli 1992), arrivando a sovrapporre realtà e fantasia come nel film Novaja Moskva (La nuova Mosca, 1939) di Aleksandr Medvedkin, in cui l’immagine del Palazzo dei Soviet, progettato e mai realizzato, appariva “in sovrimpressione allo sfondo del paesaggio della capitale, ribadendo che in quella cultura l’intenzione e la promessa erano altrettanto attendibili e concrete di quanto avrebbe potuto esserlo la realtà” (Piretto 2001, 133; cfr. Fitzpatrick 1999) – peraltro non senza contraddizioni interne nei tentativi di controllo e censura (Brunetta 1979, 305) – nei paesi democratici i fini della propaganda ispirano più sottilmente trame, narrazioni e personaggi.

Papa Pio XII in persona, incontrandosi con produttori cinematografici statunitensi, avrebbe attribuito al cinema uno straordinario potere di penetrare nell’anima dell’uomo, attraverso gli occhi e le orecchie di spettatori generalmente senza difese (Brunetta 1982). Posizioni analoghe erano emerse nella chiesa cattolica già durante gli anni Venti, alimentando un atteggiamento ambivalente della gerarchia ecclesiastica: nel 1928, in occasione del primo Congresso cattolico internazionale del cinematografo, si affacciò l’idea di fondare un Office Catholique International du Cinéma (Ocic) e, mentre nel 1929 l’enciclica Divini Illius Magistri alludeva all’influsso positivo che il cinema poteva avere sui giovani, un discorso ai curati romani del 1931 e la successiva enciclica Casti connubii ne sottolineavano gli aspetti più minacciosi. Una tappa fondamentale della riflessione è quella della Vigilanti Cura di Pio XI, firmata in Roma il 29 giugno 1936, in cui nel paragrafo sull’importanza e il potere del cinema si legge:

È indiscutibile che fra i divertimenti moderni il cinema ha preso negli ultimi anni un posto d’importanza universale. Né occorre far notare come siano milioni le persone che assistono giornalmente agli spettacoli cinematografici; come in sempre maggior numero si vadano aprendo le sale per tali spettacoli presso tutti i popoli sviluppati e in via di sviluppo, come infine il cinema sia diventato la più popolare forma di divertimento, che si offra, per i momenti di svago, non solamente ai ricchi, ma a tutte le classi della società. D’altra parte non si dà oggi mezzo più potente del cinema ad esercitare influsso sulle moltitudini, sia per la natura stessa delle immagini proiettate sullo schermo, sia per la popolarità dello spettacolo cinematografico, infine per le circostanze che l’accompagnano. La potenza del cinema sta in ciò, che esso parla mediante immagini. Esse, con grande godimento e senza fatica, sono mostrate ai sensi anche di animi rozzi e primitivi, che non avrebbero la capacità o almeno la volontà di compiere lo sforzo dell’astrazione e della deduzione, che accompagna il ragionamento. Anche il leggere, o l’ascoltare, richiedono uno sforzo, che nella visione cinematografica è sostituito dal piacere continuato del succedersi delle immagini concrete e, per così dire, viventi. Nel cinema parlato si rafforza questa potenza, perché la comprensione dei fatti diviene ancora più facile e il fascino della musica si collega con lo spettacolo (testo dal sito http://www.vatican.va)4.

Sostanzialmente in linea con questa concezione del potere del cinema, durante il periodo della liberazione il Psychological Warfare Branch ricorreva alla distribuzione di cortometraggi e lungometraggi e alle unità mobili di proiezione per diffondere un’“immagine positiva e amichevole dell’esercito americano” (Brunetta 1979, 523), mentre l’Office of War Information (OWI) istituito nel giugno 1942 confidava di “ottenere rapidi effetti di persuasione” utilizzando radio, libri, giornali e cinema (Brunetta 1982, 162). Sbarcarono in Italia western, film di guerra e d’avventura, melodrammi e film comici5.

Ben presto anche la televisione divenne importante, suscitando in Italia, come nel caso del cinema, valutazioni ambivalenti da parte degli ambienti cattolici. L’industria e la politica italiana mostrarono interesse al nuovo apparecchio già sul finire degli anni Trenta, ma le prime trasmissioni sperimentali furono fatte a Roma soltanto nel 1939, in area urbana, con un trasmettitore installato su Monte Mario (Monteleone 2006). La nascita ufficiale della televisione italiana è però fissata al 3 gennaio 1954, alle ore 11. In un articolo su “La Stampa” del 5 gennaio di quell’anno, Luigi Barzini scriveva:

Io pensavo con spavento, mentre tutti gli altri parlavano, alle responsabilità di chi avesse dovuto dirigere una simile spaventosa macchina. Tra breve, senza dubbio, l’apparecchio sarà letteralmente dovunque, dove ora sono radio-riceventi, in parrocchia, nello stabilimento di bagni, nelle trattorie, nelle case più modeste. La capacità di istruire e commuovere con l’immagine unita alla parola e al suono è enorme. Le possibilità di fare del bene o del male sono altrettanto vaste. L’Italia sarà, in un certo senso, ridotta ad un paese solo, una immensa piazza, il foro, dove saremo tutti e ci guarderemo tutti in faccia. Praticamente la vita culturale sarà nelle mani di pochi uomini (cit. in Monteleone 2006, 287).

Nel 1954 gli abbonamenti televisivi erano ancora 88.118 (ivi, 292) e ancora nel 1958 il rapporto tra gli abbonati alla televisione e gli elettori non era molto alto (32 milioni e 517 mila elettori per 1.096.000 abbonati), ma la diffusione del nuovo apparecchio era inarrestabile e nel 1963 gli abbonati erano quadruplicati rispetto a cinque anni prima, arrivando a 4.284.889 unità (Braga 1968). Sono anni in cui ci si confronta sui possibili effetti della televisione e sulle caratteristiche dello spettatore televisivo, com’era accaduto per il cinema.

Nel 1957 D’Alessandro sostiene che le considerazioni di Gemelli (1928) sullo spettatore cinematografico non sono valide per quello televisivo, in quanto “la proiezione televisiva […] non esercita affatto su di noi un tale fascino da farci perdere il controllo critico sulle nostre sensazioni […]” (D’Alessandro 1957, 326-327): essendo la televisione un oggetto della casa tra gli altri, non potendo dare l’“impressione del reale” come il cinema, non avendo un’alta definizione dell’immagine e non producendo un’esperienza immersiva, secondo D’Alessandro lo spettatore televisivo non cadrebbe in uno stato onirico paragonabile allo spettatore cinematografico di Gemelli.

Di lì a poco la televisione sarebbe diventata un frame importante per la comunicazione politica. Per quanto fin dal 28 aprile 1955 le telecamere fossero entrate in Parlamento, “per seguire l’elezione del nuovo presidente della Repubblica Giovanni Gronchi” (del Buono, Tornabuoni 1981: 77), la svolta più significativa accade nel 1960. Nell’anno in cui negli Stati Uniti si confrontarono alla televisione Kennedy e Nixon, in Italia il ministro dell’Interno democristiano Mario Scelba partecipò l’11 ottobre alla prima Tribuna elettorale, con sette milioni di spettatori. Con la grande diffusione del mezzo, nel corso degli anni Sessanta gli “standard socio-culturali” dello spettatore televisivo si abbassano (Anania 2002, 252) e la presenza televisiva diventa sempre più importante per il consenso politico. Come nota Ridolfi (2002, 86), “attraverso la programmazione delle tribune televisive la competizione politica ed elettorale si ‘spettacolarizzava’, perché il mezzo richiedeva immediatezza di linguaggio, vivacità nelle argomentazioni e senso della battuta”; parallelamente, si faceva sempre più stretto “il connubio fra propaganda e stile pubblicitario (con un sempre più frequente uso dei sondaggi)”. Nel 1963, l’anno in cui negli Stati Uniti la televisione trasmise l’uccisione del presidente Kennedy e l’assassinio del presunto colpevole, Oswald, da parte di Jack Ruby, le elezioni politiche italiane videro una significativa affermazione del Pci, che passò dal 22,7% al 25,3%, mentre la Dc scendeva dal 42,4% al 38,3%. Significativo che proprio in quell’occasione la Dc avesse fatto ricorso alla consulenza dell’“esperto” Ernst Dichter per realizzare manifesti in grado di colpire l’elettorato italiano, mentre molti osservatori evidenziavano la capacità di stare in televisione dell’esponente del Pci Giancarlo Pajetta (Anania 2002, 259 ss.) e attribuivano a ciò parte dell’incremento percentuale del Pci.

Cinque anni dopo, Braga sosteneva che la televisione avrebbe potuto radicalizzare un processo di “oligopolio della popolarità” (Braga 1968, 235), arrivando a teorizzare il nesso tra telegenia e successo politico:

Il fatto che molti leaders politici italiani siano scarsi di ‘telegenia’ può aver reso meno evidente il fenomeno. Ma ciò è fatto del tutto contingente: basterà che gli uomini politici si valgano di tutte quelle tecniche moderne attraverso cui si può creare un’immagine accettata di un leader, ed anche coloro che non hanno una telegenia spontanea, potranno acquistarsela, almeno in parte. Od anche, si potranno formare gruppi di potere, dei quali il “volto” sarà fornito dal personaggio più telegenico, mentre dietro ad esso agiranno dei sindacati di cervelli.

Il suo punto di vista consisteva nel sostenere che gli effetti della televisione sono ambigui e che possono promuovere sia la “cultura della sudditanza” che la “cultura partecipante”. La maggiore o minore presa sull’emotività dei cittadini veniva associata alle modalità di conduzione delle trasmissioni: parlando di una “fortuna effimera” del dibattito tra politici rispetto alle formule dell’intervista e della conferenza stampa, egli riteneva che il dibattito rende più difficile allo spettatore “partecipare alla scelta in modo non emotivo”, non per semplice identificazione. L’osservazione di Braga sui dibattiti tra politici sarebbe stata smentita; negli anni Settanta, anche in Italia, con un programma come Bontà loro di Maurizio Costanzo, nascono il talk-show ed una primitiva versione dell’infotainment (Anania 2002, 257).

Ancora negli anni Ottanta tuttavia c’era chi, come Benjamin R. Barber, poteva vedere nella televisione un mass medium in grado di promuovere il coinvolgimento partecipante dei cittadini alla vita politica. Nella prima edizione del suo saggio Strong Democracy (1984), Barber indicava nel television town-meeting una possibile via per “istituzionalizzare il discorso della democrazia forte” (Barber 2003, 275). Barber si riferiva qui alle prime forme di interattività possibili attraverso la televisione e riteneva che esse consentissero – sostanzialmente attraverso meccanismi di televoto – di promuovere forme di “autogoverno senza mediazioni da parte di una cittadinanza impegnata” (ivi, 261). Oggi possibilità analoghe vengono periodicamente riferite al Web, in particolare al cosiddetto Web 2.0. Valgano come esempio le domande di Meazza (2009: 13):

gli strumenti per comunicare cui Obama fa ricorso dalla Casa Bianca – da un sito apposito cui affluiscono migliaia di commenti al town meeting virtuale – sono solo la versione del terzo millennio, arrivata ai massimi livelli di sofisticazione tecnologica, delle conversazioni radiofoniche accanto al caminetto inaugurate da FDR per parlare a un paese devastato dalla depressione; o sono qualcosa di più, semi di quella partecipatory democracy che forse proprio la gamma di strumenti offerti dall’incessante avanzata tecnologica può far uscire dall’utopia, adombrando persino la possibilità di una influenza esercitabile a livello decisionale?

Con simili domande passiamo però dalla considerazione della storia alle ipotesi sul futuro, dal rapporto tra evoluzione dei media e forme del consenso nel XX secolo agli interrogativi sul XXI secolo.

Biografia

Luca Mori ha conseguito il dottorato di ricerca in Discipline Filosofiche all’Università di Pisa. Membro del gruppo di ricerca del Laboratorio filosofico sulla complessità “Ichnos” (Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa-Comune di Rosignano M.mo) e della Scuola di ricerca e formazione sui conflitti “Polemos” (Trento), è autore tra l’altro di due monografie: La giustizia e la forza, ETS, Pisa 2005; Il consenso. Indagine critica sul concetto e sulle pratiche, ETS, Pisa 2009.

Biography

Luca Mori holds a PhD in Philosophy at the University of Pisa. He is also a member of ICHNOS, the philosophical research team on complexity of the University of Pisa, and POLEMOS, the Research School on Conflicts of Trento. He published two monographs: La giustizia e la forza, ETS Editions, Pisa 2005, and Il consenso. Indagine critica sul concetto e sulle pratiche, ETS Editions, Pisa 2009.

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  1. Sulla nascita dell’opinione pubblica in Inghilterra, cfr. Caracciolo, Colombo (1979). []
  2. A proposito dei sistemi di pressione e filtraggio dell’informazione in contesti democratici, una testimonianza interessante è la lettera di dimissioni con cui Corrado Alvaro lasciò l’incarico di direttore del nuovo giornale radio “libero”, nel 1945: “Caro commissario, tu mi avevi invitato a dirigente un giornale radio indipendente, libero di informare il pubblico democraticamente, e che soltanto nei grandi problemi di interesse nazionale non agisse in contrasto col governo. Ho dovuto affrontare, nei pochi giorni del mio lavoro, inopportuni interventi che miravano a limitare o annullare proprio questa libertà di informazione […] e perciò rinuncio all’incarico”, cfr. G. Crainz, Fra EIAR e RAI, in Gallerano 1986, 514; cit. in Monteleone 2006, 199.  []
  3. Cit. in DeFleur, Ball-Rokeach 1995, 177-178. []
  4. Sul tema cfr. Baragli 1956 e Siri 1956. []
  5. Alcuni dati, tratti da Brunetta (1982, 170): “i film importati nel ’46 sono 296, nel 1948 515, 406 nel 1949, 363 nel ’50. Nei primi cinque anni del dopoguerra il numero complessivo delle pellicole americane in circolazione è di 1856; nel 1953 circolano 5.368 film americani”. Non mancano casi imbarazzanti, come quando gli americani dovettero prendere posizione sulla richiesta sovietica di diffondere film attraverso i loro canali, finendo col concedere due automobili (p. 165). Cfr., per un panorama dettagliato e altri riferimenti bibliografici, Brunetta 1982. []