Negazionismo: in Italia non è reato

di Gabriele Turi

All’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, e successive modificazioni, dopo il comma 3 è aggiunto il seguente:

3-bis. Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999, n. 232.

Così recita l’articolo unico della legge 16 giugno 2016, n. 115, pubblicata sulla “Gazzetta ufficiale” n. 149 del 28 giugno, a completamento della legge del 1975. Frutto di nove anni di accese discussioni interne ed esterne al parlamento, essa è stata salutata da gran parte dei suoi promotori e sostenitori, e definita dagli stessi avversari, come un atto che ha istituito il reato di negazionismo in Italia, adeguando la sua giurisprudenza a quella di altri paesi non solo europei che avevano varato provvedimenti antinegazionisti già una ventina di anni prima. Ma è veramente così? La qualifica di “reato di negazionismo” campeggia su tutti i giornali di opinione e specializzati – così denomina la legge appena approvata anche l’”Archivio penale” il 16 giugno 2016 – ed è questo il “titolo breve” che la presenta lungo tutto l’iter parlamentare.

In realtà il testo finale è diverso da quello originario, che poteva giustificare questa definizione. Per il percorso seguito e i risultati raggiunti, non certo brillanti, la vicenda di questo disegno di legge rappresenta un caso non isolato nel processo legislativo italiano – in cui le modifiche sono molteplici anche per l’intervento di due Camere – e nel rapporto tra questo e l’opinione pubblica nella quale continuano spesso a prevalere, anche quando si sono spenti, gli echi dei dibattiti più accesi. Quando cominciò a prendere corpo nel 2007, l’intenzione dei proponenti era di punire anche in Italia il negazionismo come reato autonomo, sull’esempio di quanto era avvenuto da tempo in altri paesi europei quali Francia, Germania, Polonia, Austria, Svizzera, Belgio o Paesi Bassi. In Francia la legge Gayssot del 1990, intesa a reprimere ogni atto razzista, antisemita o xenofobo, aveva dichiarato punibile chi avesse contestato l’esistenza di crimini contro l’umanità come “definiti dall’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale allegato all’accordo di Londra dell’8 agosto 1945”, che parlava di delitti contro la pace, crimini di guerra, crimini contro l’umanità. In Austria una legge del 1992 aveva previsto di perseguire severamente chi in pubblico “nega, banalizza grossolanamente, apprezza o cerca di giustificare il genocidio nazionalsocialista o altri reati contro l’umanità” – ne fece le spese David Irving, condannato nel 2006 a tre anni di reclusione per negazionismo -, mentre in Germania la legge sulla lotta contro il crimine puniva dal 1994 anche chi, turbando la pace pubblica, negava o minimizzava gli omicidi di massa commessi dal nazismo. Analoga a quella austriaca la situazione in Belgio, dove dal 1995 era in vigore una norma contro chi “nega, minimizza grossolanamente, cerca di giustificare o approva il genocidio commesso dal regime nazionalsocialista tedesco durante la seconda guerra mondiale”. Il reato di negazionismo era previsto anche in vari paesi dell’Europa orientale, dalla Repubblica Ceca all’Ungheria, dove erano state varate norme contro chi non riconosceva la realtà storica dei crimini nazisti e di quelli comunisti.

Altri provvedimenti successivi furono promossi nel quadro di un panorama internazionale, soprattutto europeo, assai dinamico in questo settore, come dimostra anche il sommarsi di iniziative e proposte relative alla memoria della Shoah. In Italia l’istituzione del Giorno della Memoria con la legge del 20 luglio 2000, che ricorda la Shoah e le leggi razziali ma senza nominare il fascismo, ha dato il via a una gara – propria di un paese in cui profonde sono le divisioni ideologiche e politiche – per giornate dedicate alle vittime delle foibe (2004) o del terrorismo (2007) o per celebrare il “Giorno della Libertà in data 9 novembre in ricordo dell’abbattimento del muro di Berlino” (2005), considerato “evento simbolo per la liberazione di Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo”. Sul piano sovranazionale, invece, la battaglia per affermare la memoria della Shoah si è intrecciata strettamente a quella per la “prevenzione dei crimini contro l’umanità”: questo l’obiettivo, assieme a una giornata per ricordare nelle scuole la Shoah, dei ministri europei dell’Istruzione nel 2002. E con la risoluzione del 1° novembre 2005 in cui ha proclamato – come l’Unione Europea nello stesso anno – il 27 gennaio International Day of Commemoration “per onorare le vittime dell’Olocausto”, l’Onu ha condannato la negazione dell’Olocausto come evento storico e, insieme, “tutte le manifestazioni di intolleranza religiosa, di istigazione, di molestie o di violenze contro persone o comunità basate sull’origine etnica o sulla fede religiosa, ovunque esse avvengano”.

Più puntuale e concreta è stata la Decisione quadro presa il 28 novembre 2008 dal Consiglio dell’Unione europea in merito alla “lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale”: erano considerati punibili, oltre all’istigazione alla violenza e all’odio verso persone definite “in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica”, anche “l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra” e, insieme, dei “delitti contro la pace”, se fatte “pubblicamente” e con l’intento di “istigare alla violenza o all’odio”. Si intendeva punire, quindi, non tanto un’opinione quanto una negazione tale da favorire un comportamento lesivo.

Uno Stato membro poteva limitarsi a punire “soltanto i comportamenti atti a turbare l’ordine pubblico o che sono minacciosi, offensivi o ingiuriosi”, ma anche dichiarare punibili la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, qualora questi fossero stati accertati da una decisione passata in giudicato di un organo giurisdizionale nazionale o di un tribunale internazionale: quindi, indipendentemente da una volontà persecutoria concreta. Era così configurato anche il reato di negazionismo, punito in quanto tale e non solo per gli effetti prodotti. Per reati diversi da quelli citati, gli Stati membri potevano inoltre considerare circostanza aggravante il comportamento razzista e xenofobo. La decisione del Consiglio europeo del 2008 è non a caso continuamente citata nel dibattito parlamentare italiano sulla legge, che era stata concepita in origine contro il puro negazionismo.

Il ministro della Giustizia del governo Prodi, Clemente Mastella, aveva raccolto l’invito rivolto a tutti gli Stati membri dal rappresentante tedesco alla riunione dei ministri della Giustizia dell’Unione europea – svoltasi a Dresda il 15 gennaio 2007 -, di introdurre una pena per chi incitava alla violenza e all’odio o negava e sminuiva il crimine di genocidio per motivi razziali o xenofobi. Pur in assenza di quella “politica della memoria” che era stata promossa dagli intellettuali e dalle istituzioni in Germania, in un comunicato stampa dello stesso 15 gennaio il ministero della Giustizia chiese che il negazionismo della Shoah diventasse reato in tutti i paesi dell’Unione europea. Nella proposta di legge presentata da Mastella il 25 gennaio – in occasione della Giornata della Memoria -, sottoscritta da tutti i gruppi parlamentari esclusa la Lega, il negazionismo era tuttavia scomparso: il disegno di legge ampliava le pene per chi propagandava la superiorità razziale o commetteva o incitava a commettere atti discriminatori per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi, sessuali o di genere. Aveva probabilmente avuto effetto la protesta degli storici contrari alla proposta iniziale del ministro.

L’iniziativa si inseriva infatti in un dibattito divenuto molto ampio e acceso anche in Italia. Ne Il negazionismo. Storia di una menzogna, un volume del 2013 ristampato da Laterza nel 2016, Claudio Vercelli ha indicato in bibliografia oltre 50 titoli, quasi tutti apparsi nell’ultimo quindicennio, che si occupavano espressamente del tema negazionista – che con la negazione radicale dell’esistenza della Shoah indica una ideologia e non un metodo di ricerca -, accanto ad altri sul revisionismo, termine più neutro adottato spesso dai negazionisti per identificare nel metodo il loro “lavoro” con quello di altri storici. La “menzogna di Auschwitz” è diventata l’espressione più visibile del nuovo antisemitismo che si era diffuso nel discorso pubblico in gran parte dell’Europa, rendendo tesi, se non difficili, i rapporti fra politica e storia.

Ne è testimonianza la decisa protesta di circa 200 storici, in gran parte contemporaneisti, all’annuncio della proposta Mastella. Essi si dichiararono contrari all’ipotesi di affrontare penalmente “un problema culturale e sociale” come la negazione della Shoah: ciò avrebbe configurato un reato di opinione e consentito ai negazionisti di presentarsi come paladini della libertà di espressione, e avrebbe costretto a stabilire “una verità di Stato in fatto di passato storico, che rischia di delegittimare quella stessa verità storica”. Nel nostro ordinamento esistevano già, del resto, articoli di legge che perseguivano chi incitasse all’odio razziale o facesse l’apologia dei crimini del ‘900. Primo firmatario del documento Marcello Flores, il quale affermerà anche in seguito che “il razzismo si sconfigge con l’educazione e la cultura; e con le leggi che già esistono e sono purtroppo raramente utilizzate”. Una protesta, questa, subito contestata da Gaetano Quagliariello, che in una lettera aperta ai colleghi sostenne la “differenza abissale tra libertà d’espressione e libertà di menzogna”, affermando la necessità di sanzionare penalmente una “bugia” pericolosa come la negazione della Shoah in un’Europa in cui era ripreso con forza l’antisemitismo.

La fine della legislatura non permise che il decreto Mastella fosse discusso in parlamento. Il governo italiano non poteva però sottrarsi alle iniziative internazionali, sempre più frequenti e pressanti, come la risoluzione dell’Onu del 26 gennaio 2007 che condannava e chiedeva agli Stati membri di condannare “qualunque negazione dell’Olocausto” e la Decisione quadro contro razzismo e xenofobia presa il 28 novembre 2008 dal Consiglio dell’Unione europea. Non si ricorse tuttavia a una legge nuova. Il 16 ottobre 2012, nel giorno che nel 1943 aveva visto la deportazione degli ebrei di Roma, fu presentato il disegno di legge “Modifiche all’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, in materia di contrasto e repressione dei crimini di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale” approvato nel 1998”, sottoscritto da 97 senatori di tutti i gruppi parlamentari esclusa la Lega, prima firmataria Silvana Amati (Pd). Evidente era l’eco della Decisione quadro del 2008. Alla cerimonia pubblica di presentazione del disegno di legge, tenuta in Senato, parteciparono anche il presidente della Comunità ebraica Riccardo Pacifici e Donatella Di Cesare, la docente di Filosofia teoretica autrice in quell’anno di Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo, un testo in cui sosteneva la necessità di attribuire ai filosofi e ai politici, non solo agli storici, il compito di interrogarsi sui negazionisti per capire non solo come, ma perché negavano.

L’intenzione dei proponenti era di compiere un passo avanti rispetto alla legge 9 ottobre 1967, n. 962 (“Prevenzione e repressione del delitto di genocidio”), che oltre a sanzionare duramente gli atti diretti a commettere genocidio, puniva con la reclusione da tre a dodici anni chi facesse pubblica istigazione o pubblica apologia di questi atti, ma non colpiva il negazionismo in sé. Obiettivo era la modifica della legge 13 ottobre 1975 del ministro della Giustizia Oronzo Reale che, recependo la Convenzione internazionale sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale del 1966, puniva con la reclusione da uno a quattro anni “chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale”. Una legge che era stata aggiornata da quella del 25 giugno 1993, n. 205, proposta dal ministro dell’Interno Nicola Mancino che, spostando l’accento dalla condanna delle idee a quella delle conseguenze concrete, incriminava le violenze e l’incitamento alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e prevedeva specifiche sanzioni per quanti partecipavano ad associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per gli stessi motivi. Allo scopo di “contrastare in particolare quelle perversioni culturali e civili che portano a negare la persecuzione degli ebrei e delle minoranze etniche e politiche da parte del regime nazista” – si affermava ricordando la decisione quadro della Unione europea del 2008 e dimenticando, non a caso, le responsabilità specifiche del fascismo italiano – si proponeva di aggiungere all’articolo 3 comma 1 della legge del 1975 un sottocomma che prevedeva la reclusione fino a tre anni per chi, “con comportamenti idonei a turbare l’ordine pubblico o che costituiscano minaccia, offesa o ingiuria, fa apologia dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra […] ovvero nega la realtà, la dimensione o il carattere genocida degli stessi”. Il negazionismo era considerato in questo caso funzionale a comportamenti censurabili, a differenza di quanto avvenuto in Francia dove il 23 gennaio 2012 era stata approvata la legge contro chi negava il genocidio degli armeni, poi bocciata dalla Corte costituzionale che vi ravvisò la violazione della libertà di espressione.

Abortito per la fine della legislatura, il disegno di legge fu ripresentato in Senato nel marzo 2013 nelle stesse forme – compreso il riferimento alla responsabilità del solo nazismo, sulla quale insistettero politici di gruppi diversi -, sottoscritto da 113 senatori, prima firmataria sempre Silvana Amati. Si comminava la reclusione fino a tre anni e una multa fino a 10.000 euro a chi facesse “apologia, negazione, minimizzazione” dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, o a chi “propaganda idee, distribuisce, divulga o pubblicizza materiale o informazioni, con qualsiasi mezzo, anche telematico, fondati sulla superiorità o sull’odio razziale, etnico o religioso, ovvero, con particolare riferimento alla violenza e al terrorismo, se non punibili come più gravi reati, fa apologia o incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, anche mediante l’impiego diretto od interconnesso di sistemi informatici”. Al primo posto figurava ora, rispetto al 2012, la condanna delle idee negazioniste, anche indipendentemente da conseguenze pratiche.

Il disegno di legge passò all’esame della commissione Giustizia del Senato nell’ottobre 2013, nel momento in cui si celebrava il 70° anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma e si svolgevano i funerali del criminale di guerra Erich Priebke, che era stato condannato agli arresti domiciliari per l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Il testo fu profondamente trasformato, dopo una discussione piuttosto accesa centrata sulla Shoah, con frequenti inviti a non colpire la sola propaganda e a non limitare la libertà di espressione e di ricerca. Il 17 settembre 2013 la senatrice Rosaria Capacchione (Pd) aveva proposto di introdurre, come in altri Stati, il reato di negazionismo con una modifica alla legge Reale del 1975, per contrastare “la negazione di fatti storici ampiamente documentati quali lo sterminio degli ebrei e di altre minoranze”, alla luce della recente diffusione del razzismo e dell’antisemitismo. Si sarebbe vietata l’apologia, la negazione o la minimizzazione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e di guerra, e la propaganda di superiorità o odio razziale o l’incitamento ad atti di discriminazione. La proposta avanzata nel 2012, essa ricordava, aveva incontrato forti resistenze per l’ipotesi di minimizzazione della Shoah – vi era il rischio di introdurre una quantificazione per legge delle vittime – e per l’oggetto del reato: nella maggior parte degli altri paesi il reato di negazionismo si riferiva infatti alla sola Shoah, mentre comprendervi ogni fenomeno analogo avrebbe posto difficili problemi di definizione storica.

In commissione, comune fu il giudizio sul negazionismo, considerato “una cosciente distorsione della verità con finalità evidentemente contrastanti con i principi fondanti della nostra Repubblica” (Buccarella, M5S). Giovanardi (PdL) trovò troppo generico l’obiettivo di colpire tutti i crimini oltre alla Shoah, alla quale avrebbe voluto limitare il provvedimento: un tema, quest’ultimo, sul quale tornerà a insistere in seguito, ad esempio in commissione Giustizia il 29 aprile 2014, quando presentò senza successo un emendamento per “limitare l’oggetto delle condotte di negazionismo dell’olocausto del popolo ebraico avvenuto tra il 1939 e il 1945, i cui responsabili vennero processati a Norimberga”. La relatrice Capacchione, sostenuta in particolare da Casson (Pd), insistette sulla necessità di precisare la fattispecie criminosa: “la negazione deve avere ad oggetto l’effettiva commissione di crimini di genocidio e contro l’umanità” ed essere espressa pubblicamente. Il 9 ottobre anche la commissione Affari esteri raccomandò di escludere l’ipotesi di “minimizzazione” dei crimini e le limitazioni nell’applicazione della legge, ad esempio con riferimenti a singoli eventi storici, ritenendo invece opportuno che il testo si riferisse a tutti i crimini contro l’umanità e a tutti i genocidi commessi in passato o non ancora accaduti.

L’attenzione fu spostata dalla legge del 13 ottobre 1975 all’art. 414 del codice penale dedicato alla “Istigazione a delinquere”, che puniva con la reclusione da uno a cinque anni chi istigava a commettere delitti e “chi pubblicamente fa l’apologia di uno o più delitti”, pena aumentata della metà in caso di “delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità”. Con l’emendamento di cui fu primo firmatario Casson, l’articolo venne completato con l’estensione della pena della reclusione per “chiunque nega l’esistenza di crimini di genocidio o contro l’umanità o di guerra” – configurando quasi una autonoma fattispecie di reato -, e con la precisazione che la pena era aumentata della metà se l’istigazione o l’apologia riguardava delitti di terrorismo, crimini di genocidio, contro l’umanità o di guerra. Anche in questo caso l’accento batteva con forza sul negazionismo in sé.

Molto netta fu la presa di posizione della presidenza e del direttivo della Sissco che in un comunicato, in ricordo delle vittime della Shoah e in particolare di quelle della razzia del 16 ottobre 1943 nel ghetto di Roma, indicarono nell’insegnamento e nella mobilitazione civile la via maestra per combattere i negazionisti. Alle forti perplessità per iniziative legislative che avrebbero limitato la libertà di opinione, si univa il rifiuto del comma antinegazionista approvato dalla commissione Giustizia. Oltre che sulla difficoltà di individuare nella storia i genocidi, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra, si insisteva sulla pericolosità delle “verità ufficiali o di Stato”: “la verità storica non può essere fissata per legge”. Anna Rossi Doria, che aveva sottoscritto la protesta della Sissco nel 2007 scegliendo fra due posizioni entrambe irrinunciabili – la difesa del principio della libertà di opinione e il fatto che il negazionismo era un preciso strumento politico di azione antisemita -, questa volta non sottoscrisse il documento, preoccupata dalla diffusione di siti di propaganda negazionista in internet e convinta della priorità della lotta contro “una militanza politica neonazista e neofascista che ha nel negazionismo uno dei suoi principali strumenti”. Analoga a quella della Sissco la protesta di altri contemporaneisti, mentre Adriano Prosperi, per il quale il principio della libertà intellettuale era “frutto di secoli di lotte contro l’intolleranza e la censura di poteri religiosi o politici” – aveva sostenuto nel 2010 -, concentrò la sua critica sulla norma penale contro un reato di opinione: “Non fu per caso se notte e nebbia avvolsero lo sterminio: cancellare le tracce, disperdere le ceneri, furono le strategie di una deliberata amputazione della memoria”. Dubbi sulla chiarezza e l’efficacia del provvedimento furono espressi da molti storici: fra questi Enzo Collotti, convinto che “la verità per legge non solo rischia di configurarsi come un reato d’opinione ma confligge anche con le esigenze e i metodi della ricerca storica”.

Una svolta si ebbe dopo l’audizione di alcuni intellettuali e docenti da parte della commissione Giustizia del Senato nel marzo 2014. Solo due su sette si dichiararono a favore del reato di negazionismo: così Giorgio Sacerdoti, presidente della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, che per “punire il negazionismo dei crimini nazisti” preferiva il disegno di legge iniziale nel quale in nome della normativa esistente il negazionismo era perseguito non come mera apologia, ma solo quando fomentava odio o violenza etnica, razziale o religiosa. Anche Donatella Di Cesare stigmatizzò duramente il negazionismo, un “fenomeno politico” espressione di un pericoloso “totalitarismo del pensiero”: “chi nega oggi intende perseguire la politica di annientamento, in certo modo portarla a termine”, affermò in polemica con gli storici che a una “verità di stato” opponevano la libertà di opinione, in un’ottica che secondo lei testimoniava quel “liberalismo astratto, di matrice ottocentesca, che ha portato ad Auschwitz”. Anche nel suo caso il nazismo era l’emblema principale, se non unico, della persecuzione antiebraica.

Concordi nel respingere l’ipotesi di un reato di negazionismo furono tutti gli storici sentiti, da Sergio Luzzatto a Luciano Canfora a Carlo Ginzburg, convinto che “il negazionismo non è un’opinione: è una menzogna”, per cui non si doveva “trasformare questa menzogna in un reato”. Marcello Flores fece presente che gli altri paesi europei non prevedevano un puro reato di opinione, ma tenevano conto di una componente istigatoria. Sulla sua linea anche il presidente della Sissco Agostino Giovagnoli, favorevole a punire solo chi negava per istigare a commettere crimini razzisti, e contrario a inserire nell’art. 414 del codice penale il comma contro chi negava l’esistenza di crimini di genocidio, contro l’umanità o di guerra, materie sulle quali non c’era accordo tra gli storici.

Sembra di avvertire gli effetti di queste audizioni nei lavori della commissione Giustizia del Senato che poco dopo riesaminò il disegno di legge. Fu specificato il carattere “pubblico” dell’istigazione circoscrivendo i casi soggetti a incriminazione – solo così l’istigazione avrebbe avuto rilevanza penale -; e soprattutto, tornando a intervenire sulla legge Reale, fu preannunciata la formula finale: con il comma 3-bis fu previsto un aumento di pena “se la propaganda, la pubblica istigazione e il pubblico incitamento si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah ovvero dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999, numero 232”. Da questo momento il negazionismo in senso proprio scompare dalle aule parlamentari, con la “negazione” ridotta a una circostanza aggravante, funzionale alla commissione di reati.

Il nuovo testo fu approvato dal Senato l’11 febbraio 2015 con 234 sì, 8 astenuti e 3 contrari, dopo una discussione in aula in cui diffusa e dichiarata fu la preoccupazione di evitare un reato di opinione – vari senatori citarono il giudizio dell’Unione delle camere penali italiane, che vedevano la sanzione penale in contrasto con la libertà di manifestazione del pensiero assicurata dall’art. 21 della Costituzione. Non isolata fu la posizione di Giovanardi, per il quale si colpiva la semplice propaganda più degli atti che turbavano l’ordine pubblico, e ci si doveva limitare al caso della Shoah per l’aggravamento di pena. Un suo emendamento in questo senso non fu approvato dal Senato: così “si annacqua l’Olocausto” fu la sua protesta, “personalmente non posso accettare la parificazione, in questo disegno di legge, dell’Olocausto con altre centinaia di fattispecie, che arrivano fino ai crimini di guerra, che nulla hanno a che fare con questa tragedia della storia”, ripeté l’11 febbraio. Accanto a lui in prima fila Lucio Barani (Grandi Autonomie e Libertà), convinto che i crimini considerati costituivano “un orizzonte molto vasto nel quale la Shoah […] viene relativizzata d’ufficio”. Lucio Malan (FI) fu tra i pochissimi che citarono anche l’Italia come persecutrice degli ebrei, mentre alcuni senatori, di diverse appartenenze politiche, stabilirono un nesso stretto tra antisemitismo e terrorismo: la propaganda dei terroristi è efficace anche perché contiene “il pregiudizio e l’odio verso l’ebraismo”, sostenne ad esempio Daniela Valentini (Pd), e per Manuela Granaiola (Pd) “non è un caso che la cultura negazionista ed antisemita, accompagnata da orrendi atti di violenza, sia anche uno dei tessuti connettivi del terrorismo islamico e non solo”.

Il testo approvato dal Senato l’11 febbraio 2015 fu esaminato dalla commissione Giustizia della Camera a partire dal 16 aprile – “nel calendario ebraico è il giorno in cui si ricorda la Shoah”, notò la presidente Donatella Ferranti (Pd) -: mantenendo l’aggravante già prevista dal Senato – la negazione della Shoah o di altri crimini -, nel comma 3-bis la commissione aggiunse la frase “tenendo conto dei fatti accertati con sentenza passata in giudicato, pronunciata da un organo di giustizia internazionale, ovvero da atti di organismi internazionali e sovranazionali dei quali l’Italia è membro”. L’intento era di circoscrivere i margini di applicazione della norma e ridurre la discrezionalità dei giudici. Il disegno di legge così modificato fu approvato il 13 ottobre 2015 dalla Camera – 340 sì, 107 astenuti, un solo voto contrario -, preoccupata anch’essa di evitare la configurazione di un reato di opinione.

Il penultimo atto si svolse di nuovo al Senato, che il 3 maggio 2016 emendò il testo. Rispetto a quello licenziato dalla Camera il 13 ottobre precedente, nel comma 3-bis fu precisata la durata della pena, furono eliminati i riferimenti alla “sentenza passata in giudicato” e il termine “pubblico”, sostituito da “in modo da cagionare concreto pericolo di diffusione” – un pericolo che sarebbe stato compito del giudice accertare -: fu accolto infatti l’emendamento del presidente della commissione Giustizia Nico D’Ascola (AP), convinto che l’espressione da lui proposta “consente oggi, con il nemico alle porte – mi riferisco al terrorismo – di punire condotte che sfuggirebbero a una punibilità incentrata sull’aggettivo ‘pubblico’”, lasciando quindi uno spazio più ampio all’intervento sanzionatorio, anche contro condotte che si avvalevano di strumenti telematici.

Molto critico fu, ancora una volta, Giovanardi, perché non era prevista un’aggravante per l’esaltazione di genocidi o altri crimini, e perché la modifica dell’articolo 3 della legge Reale prevedeva di colpire decine di fattispecie di genocidio e di crimini contro l’umanità e di guerra di peso diverso, con la conseguenza di un’assurda equiparazione: erano messi “sullo stesso piano lo sterminio di 6 milioni di persone – per esempio – con una ruspa che in un’azione di guerra abbatte due proprietà private”. Invece di limitare alla Shoah i casi perseguibili, si rischiava il “paradosso che il negazionismo, da strumento che dovrebbe impedire la negazione di un fatto storico di inaudita gravità di cui il popolo ebraico fu vittima”, poteva essere usato contro lo Stato di Israele, considerato dai nemici razzista e molto duro nella sua stessa azione di difesa. In realtà, secondo Giovanardi, il provvedimento non aveva “nulla a che fare con il negazionismo”, tema che era stato all’origine di tutto l’iter parlamentare ma era stato poi dimenticato. Netta fu anche la posizione di Gaetano Quagliariello, contrario a interventi penali e critico della mancata distinzione tra crimine e crimine, con il rischio di “relativizzare la Shoah”.

Il testo approvato dal Senato passò di nuovo alla Camera. La commissione Giustizia sollevò varie critiche all’operato del Senato, fra cui il “rilevante grado di incertezza” della fattispecie penale e la troppo ampia discrezionalità concessa ai magistrati nell’individuazione dei crimini. Espresse il suo parere anche la commissione Affari esteri della Camera, il cui presidente Fabrizio Cicchitto si astenne ritenendo “un errore prevedere un approccio penale ad una questione che attiene il confronto tra opinioni”: la relatrice Sandra Zampa (Pd) rilevò l’importanza e la unicità della Shoah in quanto “l’antisemitismo rappresenta la più antica forma di odio nei confronti di un popolo” e “costituisce un delitto gravissimo nei confronti dei diritti fondamentali dell’uomo”, e raccomandò cautela nell’uso della nuova legge in un mondo in cui molti erano i genocidi dimenticati o non riconosciuti da tutti – quello degli armeni nel 1915 o la carestia procurata in Ucraina dal regime staliniano – e molte le offese alla libertà di opinione, come quella dei giornalisti perseguitati in Turchia. Ma non furono apportate modifiche. Nella discussione finale alla Camera, dell’8 giugno 2016, furono fatti presenti questi e altri dubbi, che giustificano il numero relativamente alto di astenuti – 102 su 344 presenti -. Il testo fu approvato con 237 voti favorevoli sui 242 espressi. Si concludeva così un iter parlamentare sofferto, con doppie letture sia al Senato che alla Camera.

La dichiarazione del direttivo della Sissco del 14 giugno 2016, osservato che la legge aveva esteso “in modo indebito” l’obiettivo originario di contrastare l’antisemitismo e il razzismo, ribadì le posizioni espresse alla fine del 2013 sulla difficoltà di individuare i genocidi e i crimini. e sulla impossibilità di fissare una verità storica per legge. “La montagna ha partorito il topolino” fu il commento finale di Giovanardi. Il percorso del disegno di legge ci dice in realtà qualcosa di più. Come hanno rilevato storici e giuristi, la nuova norma costituisce un unicum nella legislazione dei paesi dell’Unione europea sul negazionismo – di fatto sepolto, nonostante il rilievo formale o ad uso giornalistico che il termine mantenne -: mette sullo stesso piano un evento storico determinato, come la Shoah, e le categorie giuridiche di crimini di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, tutte da accertare. Ne risulta l’estrema vaghezza della rilevanza penale della negazione e, in ultima analisi, l’inutilità della norma stessa, con ogni probabilità inapplicabile. Gli argomenti politici usati da deputati e senatori per sostenere un disegno di legge condiviso dalla maggior parte di loro e desiderato dall’Unione europea, si sono dimostrati più importanti del risultato raggiunto. Non è lecito interpretare il lavoro dei parlamentari mosso solo dalla ricerca del consenso, ma certo questo è stato ancora una