“La nuova generazione”: mode e costumi giovanili nell’Italia degli anni Settanta

Daniela Calanca

Nel trarre continuità dal progetto di ricerca storico-sociale tutt’ora in corso Giovani tra storia e memoria: Una rivoluzione silenziosa (1960-1980) (Calanca 2009, 23-30), in questo saggio vengono presentate alcune riflessioni, tutt’altro che esaustive, su alcuni fenomeni che, concorrendo a fondare l’immaginario sociale giovanile fin dagli anni del miracolo, attraversano come un filo rosso, quella che appare una “fase unica”, ossia:

Visto alla lunga distanza, il ventennio che inizia con il “miracolo economico” e termina con l’assassinio di Aldo Moro ci appare una fase unica, che rompe in maniera definitiva con il quadro precedente”, specie laddove “Negli anni ottanta verranno in realtà alla luce, senza più ostacoli, tendenze presenti sin dall’inizio della “grande trasformazione” e proseguite poi sotto i sommovimenti e le brucianti tensioni degli anni settanta (Crainz 2009, 71).

In questa direzione, gli elementi peculiari mediante cui si autorappresentano, negli anni Sessanta, quei giovani che, pur non protestando, né partecipando ai movimenti collettivi, definiscono loro stessi moderni, fin dall’inizio del decennio successivo costituiscono già una sorta di “Ideologia del Nuovo” (Calanca 2008). E ciò, in primo luogo, tenendo presente che – come è noto – ideologia e pratica sono indissolubilmente correlate secondo il paradigma, per esempio, di Northorp Frye della “duplice visione”, in base alla quale vi è l’aspetto spirituale negli interessi primari umani, quali il cibo, il sesso, la proprietà, e l’aspetto fisico negli interessi umani secondari, quali il credo politico, religioso, ideologico in quanto tale (Frye 1993, 25ss). E dunque, in tal senso, si può parlare di una “pratica del nuovo” come stile di vita giovanile già formato, nonché ben delineato, alla fine degli anni Sessanta. Ossia, un cambiamento profondo portato avanti durante il decennio, che sfocia, tra l’altro, in un vero e proprio rovesciamento del modo di porsi agli altri, determinando il prevalere della dimensione estetica su quella etica. Anche perché l’onda d’urto dei movimenti collettivi, in particolare del Sessantotto, alla fine del decennio è già esaurita, mentre continua ad avanzare, per così dire, un mondo giovanile silenzioso:

Il ’68 è stato fatto da due categorie di giovani. L’una, quella barricardera, rivoluzionaria; l’altra quella silenziosa. La rivoluzione silenziosa di cui parla Ronald Inglehart è fatta da questi giovani, non da quelli che bruciano e manifestano in piazza (Besozzi 2008, 469).

In secondo luogo, la presenza nel panorama concettuale dell’epoca di una forte commistione tra modernità e tradizione, continuità e discontinuità, porta – chi si occupa in quel momento di giovani – a valutare non tanto i fenomeni nuovi come tali (in quanto tali), quanto il rapporto che i giovani medesimi attuano con essi. Da questo punto di vista, specificamente il tema del tempo libero, del divertimento e delle mode, e tutto ciò che ad essi si correla, costituiscono, esemplificativamente, referenti particolarmente significativi per le molteplici direttrici di ricerca che da essi si dipartono. E questo non tanto e solo per scrivere una storia, e storie, di giovani in sé e per sé, ma anche, e soprattutto, per indagare il contesto di quell’Italia che, uscita dal boom, sembra attraversare

la stagione politica senza lasciarsi sfiorare dalla carica “pedagogica” dei movimenti, mordendo il freno nei confronti degli sforzi di guidarla e disciplinarla da parte di una politica “virtuosa”, aspettando il fallimento; e alla fine, passata la bufera, riemersa intatta nei suoi quadri mentali, nei suoi stili comportamentali, nelle sue scelte politiche (De Luna 2009, 138).

Di fatto, all’inizio degli anni Settanta, dal punto di vista demografico, i giovani ammontano, a circa sei milioni, fra i 14 e i 21 anni su una popolazione che, secondo i dati dell’Istat, al 30 giugno 1968 era di 53.726.496. Dopo le 55 ricerche empiriche prodotte in Italia nel periodo 1950-1967 su un mondo giovanile che si va configurando sempre più come mondo a sé, quando appare ormai chiaro a tutti che si è davanti a una differenza generazionale, nel tentativo di cominciare a delineare risposte alla domanda “Chi sono i giovani”, il problema concreto sembra porsi non tanto, per esempio, nei confronti di “quei giovani che fanno parlare molto, troppo di sé con azioni estranee alla morale comune”, quanto e soprattutto nei confronti di quella “truppa silenziosa, seria, che merita di essere giudicata per quella che è: con i suoi pregi e i suoi difetti” (“Oggi” 6 gennaio 1970, 22). Una truppa di figli, si osserva, molto simile ai propri padri (Ibidem), più di quanto non si voglia credere, laddove in realtà è già comprensibilmente mutato il paradigma esistenziale di riferimento dei giovani stessi. È quanto emerge, a titolo esemplificativo, dall’inchiesta Giovani ’70, condotta dal giornalista Carlo Testa, tra cinquemila giovani, maschi e femmine compresi, di varie città italiane, dai 14 ai 21 anni, pubblicata nel 1969 (Testa 1969). Tralasciando di considerare tutti i risultati dell’inchiesta, ciò che preme sottolineare, in questa sede, è in che modo sia primariamente l’orientamento ai fenomeni della “civiltà dei consumi” e della “realtà dei mass media”, nonché alla “moda” a costituire fin da subito l’impianto tematico attorno cui si consolida prima di tutto la rappresentazione, nonché l’autorappresentazione, di quei giovani definiti dal giornalista meno rumorosi. E ciò a partire dalla consapevolezza che esiste una polemica tra giovani e adulti, un problema complesso, la cui analisi non può che considerare come punto centrale le stesse risposte dei giovani:

Prendiamo atto che una polemica piuttosto vivace c’è tra giovani e adulti, tra genitori e figli. Una polemica varia, con una quantità di sfumature che ha, però, il fondamento logico e la naturale motivazione nella rapida evoluzione dei tempi. Non faccio alcuna scoperta, ovviamente. Con balzi più o meno bruschi, questo fenomeno si ripresenta all’incirca ogni venti o trent’anni, per lo più sotto la spinta di guerre, rivolgimenti sociali, progressi culturali e tecnico-scientifici. È una inarrestabile evoluzione che, da che mondo è mondo, le generazioni più anziane non possono non accettare, anche se costrette a malincuore a rinunciare, almeno in parte, a tradizioni, costumi e a vecchie e care abitudini. Si tratta, tuttavia, di vedere in che misura la cosiddetta “protesta” dei giovani possa e debba trovare accoglimento in una società governata dagli adulti. Prima di dare una risposta vale però la pena di controllarne la consistenza, la validità, la buona fede, l’obiettività e soprattutto la legittimità. Perché, è bene tenerlo presente, se è vero che il “mondo è dei giovani” – almeno nel senso che saranno loro ad ereditarlo – è anche vero che il mondo non è fatto esclusivamente di giovani (Testa 1969, 12-13).

Il problema, dunque, si presenta particolarmente complesso, caratterizzato da molteplici facce ed articolazioni, al punto da non poter essere risolto semplicisticamente rispondendo che il torto e la ragione si pongono, nella stessa misura, dall’una e dall’altra parte. Occorre, pertanto, si osserva, accertare in che modo vivono i giovani, conoscere i loro problemi, e verificare quale tipo di rapporto si è instaurato e quale, invece, si dovrebbe instaurare tra loro e la realtà che li circonda, ossia la famiglia, la scuola, la politica, la religione, il lavoro, l’amore e il tempo libero: “In questa inchiesta mi sono appunto preoccupato di illuminare, mediante le stesse risposte e dichiarazioni dei giovani, la sostanza della loro esistenza, i più vivi desideri, le opinioni, le speranze, le delusioni” (Testa 1969, 13). L’interesse reale è, dunque, l’indagine sulla sostanza dell’esistenza giovanile e non su aspetti formali, quasi come un voler essere fino in fondo nel presente della gioventù che, detto con le parole di Karl Mannheimm, significa “essere più vicini ai problemi del presente” (Merico 2009). In altri termini, il “vero” problema, in definitiva, per l’estensore dell’inchiesta, pare essere costituito dalle notevoli perplessità sulla particolare velocità assunta dalla “grande trasformazione” del Paese, più che dal mondo giovanile in sé e per sé, dal momento che risulta necessario sapere

se certe innovazioni intacchino o meno i valori fondamentali di una civiltà prima di respingerle; o se invece, non possono essere integrate determinandone uno sviluppo positivo. La maggior preoccupazione viene, piuttosto, dalle conseguenze che possono avere i cambiamenti bruschi e repentini in fatto di costume. I mutamenti violenti portano quasi sempre a gravi squilibri nella società. È comprensibile, dunque, che qualcuno si allarmi. Probabilmente nulla vi sarebbe da temere se la trasformazione del costume […] avvenisse con gradualità, in modo da non provocare scossoni nocivi e rovinosi (Testa 1969, 71).

Sotto questo profilo, si può affermare che la modernizzazione italiana, il miracolo italiano, con l’apertura di spazi imprevisti del benessere, all’inizio degli anni Settanta costituisca già un vero e proprio immaginario sociale, ossia

qualcosa di più ampio e di profondo degli schemi intellettuali che le persone possono assumere quando riflettono sulla realtà sociale, […] modi in cui gli individui immaginano la loro esistenza sociale, […] modo in cui le persone comuni “immaginano” i loro contesti sociali che, spesso, non si traduce in una formulazione teorica, ma è veicolato in immagini, storie e leggende, […] condiviso da larghi gruppi di persone, se non dall’intera società (Taylor 2009, 224-25).

Un immaginario sociale questo reso particolarmente evidente/manifesto, in primis, dal mondo giovanile. E ciò in quanto, se da un lato, da che mondo è mondo, è l’avvicendarsi delle generazioni a comportare un sistematico nuovo accesso al patrimonio culturale, dall’altro è proprio questa “nuova generazione” a precisarsi storicamente, in modo consapevole, come generazione diversa.

Pertanto, su queste basi, con l’inchiesta Giovani ’70 si intende fornire un servizio a chi è interessato ai problemi giovanili, come genitori, insegnanti, educatori, pedagoghi, psicologici e anche medici, che necessitano di materiale fresco,

raccolto con scrupolo e cautela; materiale altrimenti difficile – per non dire impossibile – a reperire in Italia. Non è con presunzione che faccio tale affermazione. L’ho constatato personalmente prima di mettermi al lavoro. Stupirà di sapere che né Ministeri, né Istituti statali, né Enti morali dispongono oggi nel nostro Paese, di statistiche, recenti o meno, sulla situazione giovanile. Ed è stato proprio questo motivo a confermarmi l’utilità di tale fatica che spero, venga compensata dal gradimento e dall’interesse di chi ne coglierà i frutti (Testa 1969, 15-16 ).

Nel contempo, vi è pure, nell’ambito di un forte “desiderio di contribuire alla chiarificazione”, il proposito di eliminare alcuni luoghi comuni, grossolane generalizzazioni su aspetti di vita giovanile, che spesso costituiscono soltanto semplici episodi e vengono, al contrario, “interpretati come fatti di costume, diffuso e accettato da tutta la nuova generazione” (Testa 1969, 21).

Ora, il punto, tra gli altri, in cui il giornalista ci sembra approssimarsi maggiormente ad attuare una significativa comprensione, nonché chiarificazione, del mondo giovanile, e dell’immaginario sociale in questione, è quello in cui egli provvede a una ricognizione della dimensione del Tempo libero, del Divertimento, dalla quale fa scaturire la prima stessa tessera identitaria dei giovani intervistati. Di fatto, in questa direzione, appare particolarmente emblematico l’esordio editoriale dell’inchiesta, nonché la sua giustificazione da parte del medesimo estensore, a partire da quattro dichiarazioni rilasciate da personaggi famosi dello spettacolo, Catherine Spaak, Rita Pavone, Bobby Solo, Gigliola Cinquetti:

quattro figure diverse di giovani del nostro tempo, nella vetrina del mondo dello spettacolo. […] Qualcuno mi domanderà, a tal punto, perché mai apro questo libro cominciando proprio da cantanti e attori. Perché, insomma, non ho invece riportato le dichiarazioni di uno studente qualunque o di un giovane operaio, quello di una dattilografa o di una cameriera. Quale peso può avere, in altre parole, in un’indagine sul costume dei giovani, la testimonianza di persone le cui esperienzeappartengono ad un mondo tutto particolare, a casi limite niente affatto rappresentativi delle condizioni materiali, morali e psicologiche della gioventù in generale? (Testa 1969, 8 ).

A prima vista, la riserva appare legittima e opportuna, ma dal punto di vista della realtà reale dei giovani, dei loro modi di vivere, non è possibile far finta di niente di un fenomeno così fondante. In tal senso, pur volendo rassicurare il lettore sul fatto di non aver assolutamente compiuto l’inchiesta basandosi sulle dichiarazioni di attrici e cantanti, sembra che non si possa in alcun modo

prescindere da una realtà che, in non trascurabile misura, influenza gli atteggiamenti, il costume e le opinioni di tanti giovani del nostro tempo. Non dobbiamo stupirci, voglio dire, se le indicazioni dei gusti, la mentalità ed il modo di vedere certi problemi vengono talvolta ai nostri giovani proprio dai personaggi di un mondo effimero, artificioso, parziale e ristretto quanto si vuole; ma che, nondimeno, conta. E, come vedremo, più di quanto si pensi (Testa 1969, 9).

È noto, infatti, si osserva, quanto i mezzi di comunicazione sociale – televisione, radio, stampa, cinema e spettacoli in genere – influenzino l’opinione pubblica; e quanto incidano, quindi, su quella parte più plasmabile di essa che sono i giovani:

Dalle risposte di migliaia di ragazzi mi è stato facile constatare quanto gli atteggiamenti di certi “divi”, con le loro mode e le loro opinioni, siano epidemicamente contagiosi. A volte si sovrappongono ai loro gusti e vengono assimilati quasi inconsciamente; a volte, invece, agiscono da catalizzatori e fanno esplodere un latente disagio in manifestazioni imitative che possono spingersi fino al malcostume, quando non degenerano, addirittura, in episodi di corruzione più o meno gravi (Testa 1969, 9).

Per molti giovani, dunque, la cattedra di vita, non è rappresentata dalla Famiglia, dalla Scuola o dalla Chiesa, ma dal mondo delle immagini dei suoni e della carta stampata. È un fenomeno del nostro tempo, dichiara il giornalista, quello del divismo cinematografico, rotocalchistico e canzonettistico:

Ne sono stati causa, dopo il cinema – che aveva già creato i suoi fans fin dagli anni dieci e venti – il capillare diffondersi della televisione e l’incredibile quantità di rotocalchi che si stampano nel nostro paese; pubblicazioni, queste, in gran parte impastate di pettegolezzi, “indiscrezioni” e notizie sensazionali sulla vita privata di qualche dozzina di personaggi famosi (Testa 1969, 9).

D’altra parte, l’elevato indice di gradimento di alcuni spettacoli televisivi, come per esempio Canzonissima, che paralizza ogni anno davanti ai televisori tra i 20 e i 25 milioni di italiani, e i milioni di copie vendute di rotocalchi (il cui contenuto, almeno nel 70-80%, riguarda il mondo dello spettacolo e della canzone), costituiscono una evidente conferma di quanto l’interesse di larghi strati dell’opinione pubblica sia polarizzato verso questo mondo, che offre un caleidoscopio di vicende umane assolutamente fuori dal normale.

Nonostante, quindi, tutta l’aria di contestazione, mai come in quel momento, all’inizio degli anni Settanta, si afferma, regnano il conformismo ed il “plagio”. È, si sottolinea, un fenomeno di quel preciso tempo, un fenomeno già ben evidente: “Non a caso ho detto che le frasi riportate all’inizio del capitolo rispecchiano opinioni ed atteggiamenti di un considerevole numero di giovani” (Testa 1969, 11).

Attraverso, dunque, una precisa fotografia emerge in maniera efficace il problema del rapporto tra giovani e nuove cattedre di vita in una “civiltà dei consumi”, in cui il divertimento investe in modo preponderante la vita giovanile:

Mai come oggi lo svago e l’impiego del tempo libero hanno assunto un’importanza così grande ed un’incidenza tanto profonda riguardo alla loro formazione ed al loro costume. Senza contare che, a chi voglia conoscere meglio i giovani, sarà più facile scoprirne la struttura, lo stato d’animo e la maturità da come si divertono che non, supponiamo, da come studiano, lavorano, pregano, e si comportano in famiglia” (Testa 1969, 17).

Nelle ore del tempo libero, i giovani si esprimono liberamente, e fanno ciò che vogliono, più che in ogni altro momento. D’altra parte, è proprio nel tempo libero, che, negli ultimi anni, i giovani si sono mostrati con manifestazioni vistose ed esplosive; hanno mostrato una larga comunanza di interessi, nonchè stabilito una sorta di intesa sociale. Tanto che

il loro divertimento è oggi diventato un problema sociale da non posporre a quello dello studio, della famiglia, e persino della religione. […] È un problema che va assumendo proporzioni nuove, con ripercussioni imprevedibili, a causa del progresso tecnologico, dell’industrializzazione e dell’organizzazione commerciale dei luoghi e dei mezzi di divertimento e di evasione” (Testa 1969, 27).

D’altronde, l’esigenza avvertita dal giornalista di decretare un’assolutizzazione del divertimento, si comprende ulteriormente in ragione del fatto che:

il divertimento occupa la mente dei giovani non soltanto durante il cosiddetto tempo libero, ma in ogni altro momento della giornata. Certi interessi essi li coltivano sempre. Parlano a scuola con i compagni dei film che hanno visto, dell’ultimo disco, dei complessi e dei nuovi balli del Piper; si appassionano al giaccone di pelle, al maglione ultimo grido, ai calzoni attillati, alle minigonne più vertiginose, alle catenelle, ai medaglioni con gli slogans e alla varia bizzarra chincaglieria; discutono della partita di calcio, della corsa automobilistica o pettegolano sugli amori dell’attrice o del cantante sulla cresta dell’onda; progettano di acquistare un nuovo scooter o un tipo speciale di stivaletti; ascoltano le classifiche dei dischi più venduti mentre mangiano, mentre riposano e, persino, mentre studiano; dovunque, si trovino, qualunque cosa facciano, vengono poi incessantemente bombardati dalla pubblicità dei settimanali, dei manifesti, delle sale cinematografiche, della radio e della televisione. Se qualcuno potesse mai controllare l’attività del cervello di un giovane del nostro tempo, scoprirebbe certamente che il suo pensiero per almeno metà della giornata è rivolto alle persone, agli oggetti ed ai luoghi del suo divertimento. Non c’è forse altro interesse che lo tenga mentalmente occupato (Testa 1969, 29).

Lungo questa linea, i più comuni divertimenti, si registra, sono risultati: Cinema 51%, Televisione 36%, Sport 35,3%, Ballo 31,8%, Letture 22,3%, Passeggiate o gite 20,7%, Musica o dischi 12,5%, Pittura, bowling, feste in famiglia, motoscooter, automobili, ecc. 20%. Per quanto riguarda il divertimento si può parlare, dunque, afferma il giornalista, di boom e addirittura di rivoluzione:

Ci troviamo di fronte a un’autentica esplosione, al repentino svilupparsi di un nuovo fenomeno, ad una inedita manifestazione collettiva di massa mai registrata in passato. C’è da vedere, adesso in che modo e in che misura questo fenomeno incide sulla nuova generazione. I giovani si divertono di più; almeno così sembra. Non c’è dubbio, in ogni caso, che lo facciano più intensamente, più diffusamente, e forse più spensieratamente (Testa 1969, 28).

In questa direzione, nello scorcio di tale prospettiva analitica, assume particolare rilevanza un’altra inchiesta, pubblicata nel 1975, dal titolo “In cerca del Padre”, ordinata da “Panorama” alla Doxa, riguardante un campione di 500 ragazzi, tra 15 e 19 anni, in cui viene tracciato un profilo identitario che non si discosta da quanto detto fino ad ora:

Contestano meno, si riavvicinano ai genitori, tendono a rivalutare certi modelli tradizionali […]. I giovani italiani sono più conformisti dei loro fratelli del 1968. Anche se la maggioranza rimane su posizioni di sinistra (“Panorama” 18 dicembre 1975).

Ad eccezione di alcuni bubboni violenti in un corpo sano che arrivano sulle prime pagine dei giornali, riguardanti solo una piccola minoranza di giovani, “alla maggioranza che resta anonima, la massa che studia, lavora e si diverte nella routine di ogni giorno, e che è probabilmente diversa, quasi nessuno presta attenzione” (“Panorama” 18 dicembre 1975, 95). I risultati confermano che la maggioranza dei giovani italiani è ben diversa dai macabri protagonisti dei fatti di cronaca giovanile: anzi sono proprio loro i più preoccupati dell’ondata di violenza e criminalità. A riguardo, il 97% degli intervistati chiede che lo Stato si impegni in una lotta radicale alla criminalità, mentre il 53% chiede apertamente la pena di morte per i reati più gravi: “Oggi il 93% dei giovani vuole che la società si impegni di più a far rispettare la legge e l’ordine. La libertà intesa come permessività è andata in crisi” (“Panorama” 18 dicembre 1975). Si dichiara che il giovane del ’75 è molto più benevolo verso le istituzioni rispetto al passato, ha ideali e valori morali sempre più vicini a quelli dei suoi genitori, cerca qualcuno che lo guidi, che gli dia valori sicuri cui uniformarsi e li cerca nel mondo adulto (“Panorama” 18 dicembre 1975, 97). In questa direzione, il 98,3% vive con i genitori e “non ci sta troppo male”, si afferma, considerato che solo il 31,4% sostiene di voler andare a vivere per suo conto prima del matrimonio: “Perché me ne dovrei andare?” si chiede uno studente liceale di Messina. “Non è detto che con gli amici si stia tanto meglio che con i genitori”. In tal senso, quasi 1’80% degli intervistati confida di andare d’accordo con i genitori, e di non avere con loro grossi motivi di scontro: “La stragrande maggioranza cresciuti in provincia, allevati in famiglie tradizionali. Sono proprio questi ragazzi che rivelano apertamente il conformismo delle loro scelte appena gli si domanda come vogliono organizzare la loro vita futura. Il 75% sogna ancora il matrimonio, magari non più in chiesa, ma con rito civile, in Comune. […] Si sposano con pochi invitati, per lo più solo amici. Lei vestita in lungo, da contadinella, lui in completo di velluto, senza cravatta. A volte non si scambiano neppure le fedi e concludono disinvoltamente la cerimonia improvvisando un pranzo in trattoria. […] Ma se apparentemente sono così disinvolti, così poco preoccupati della forma e delle convenzioni, in realtà al matrimonio ci credono e lo prendono sul serio (“Panorama” 18 dicembre 1975, 98). Quanto alla sessualità, l’85% considera fondamentale la fedeltà nella vita di coppia e chi deve essere fedele è ancora soprattutto la donna; anche se, rispetto ai rapporti prematrimoniali, il 17,5% condanna le ragazze che intendono averne. Oltre a ciò, si registra “un’immagine sobria di questa generazione che ricerca modelli sicuri in cui rifugiarsi, che ha paura di non essere accetta dagli altri, che rifiuta tutto quello che può sconvolgere un suo equilibrio, e condanna chi è diverso”. Una sobrietà che nasconde, secondo gli esperti, una profonda insicurezza (“Panorama” 18 dicembre 1975, 104). Al fondo del disagio vi è, soprattutto, un’incertezza per il futuro economico: “È innegabile che la crisi di sviluppo del capitalismo in tutto il mondo occidentale, si è ripercossa soprattutto sui giovani.” (“Panorama” 18 dicembre 1975, 106) In questa direzione, i dati sono allarmanti. L’ultimo rapporto del Censis sottolinea che i giovani disoccupati sono 774 mila e che, fra questi, sono 619 mila quelli in attesa del primo lavoro. Non solo. Il titolo di studio si è ridotto a “un pezzo di carta senza valore”: sono 273 mila i diplomati e 54 mila i non occupati intellettuali.

Nel contempo, democratici e rispettosi delle libertà individuali (86,8%), sono in maggioranza schierati su posizioni di sinistra (la destra raccoglie le simpatie solo del 7%). Tuttavia, “Al nuovo giovane che come diario a scuola usa l’Agenda rossa, […] che colleziona dischi del complesso cileno degli Inti Illimani, che non perde uno spettacolo di Dario Fo, gli esperti hanno attribuito concordi l’etichetta di conformista di sinistra”. Rispetto a ciò, di fondamentale importanza appare il legame, come già sottolineato in altre circostanze, con la Moda, che non è il vestiario in sé e per sé, ma un universo in cui la passione per il nuovo, per il recente, per la promozione dell’individualità, l’investimento nel modo di apparire, la modernizzazione, il rinnovamento delle forme, ne costituiscono i tratti principali. Come la cultura del consumo di massa, anche la cultura della moda permette la generalizzazione dei propri desideri, l’affermazione della propria individualità, laddove la passione per il Nuovo concorre alla rivendicazione individualistica, al richiamo all’indipendenza. Pertanto, il nuovo che nasce dal sentimento di liberazione soggettiva, e di aspirazione all’indipendenza personale, di affrancamento dalle abitudini del passato, può realizzarsi sia con rotture “evidenti”, sia senza rotture “evidenti”, forgiando un’Ideologia del Nuovo, nell’ottica sopraindicata. Il giovane “conformista”, si constata, non è poi così monolitico e inattacabile: “dietro la facciata c’è sempre una nascosta ma viva aspirazione a qualcosa di nuovo […] dietro l’immagine del giovane per tanti versi conformista c’è una profonda voglia di rinnovamento” (“Panorama” 18 dicembre 1975, 115).

Lungo questa via, non stupisce affatto, se all’interno dell’inchiesta qui in esame, attraverso la categoria moda, indipendentemente dalla questione del “giovane conformista” del ’75 anche di sinistra, rientrato nei ranghi, vengano individuate quattro tipologie di giovani che“nella scelta di oggetti, abiti ed espressioni idiomatiche, manifestano sempre una convinzione, un’ideologia” non solo politica, ma anche e soprattutto di stile identitario, una visione del mondo. Non a caso, in tal senso, la tessera identitaria della moda si lega, alla questione del gruppo di appartenenza: “Il nuovo giovane cerca sempre nuovi sostegni per affrontare la realtà. Spesso famiglia e religione non gli bastano. Per muoversi disinvoltamente nella vita sociale e per non sbagliare, sente il bisogno di una ulteriore barriera protettiva. La trova nel gruppo, qualunque esso sia. […] Per rimanere nel gruppo e per dimostrare agli altri, quelli che sono fuori, di non essere isolati, bisogna accettare regole e segni di riconoscimento precisi”. La moda, le letture, la scelta del tempo libero costituiscono una divisa, ciò che il semiologo Umberto Eco definisce “un vero e proprio messaggio” elaborato all’interno di ogni gruppo (“Panorama” 18 dicembre 1975, 103). “Capiamo subito, dalla marca dei jeans o da quella delle sigarette, che tipo è, che idee ha, un nostro coetaneo. Se è un fighetto, un impegnato, un Pdup-Manifesto, un figicì, o un figlio di papà” spiega una ragazza intervistata (“Panorama” 18 dicembre 1975, 103-104). “Il “messaggio” all’interno del gruppo nasce improvvisamente. È sufficiente che il leader indossi un giorno una cosa diversa, e subito tutti si adeguano. A volte, però, ci sono interferenze, ossia un “messaggio” nato in un gruppo inspiegabilmente si diffonde anche negli altri (“Panorama” 18 dicembre 1975, 104).Un abito, dunque, per ogni ideologia. Le regole della moda giovane risultano essere: completi gessati per il ragazzo di destra, golf di cachemire per il qualunquista, jeans stinti e rattoppati per chi è impegnato in partiti e movimenti di sinistra. Ma, comunque, tutti circoscritti nel mondo, appunto, della moda.

“Come sei giusto/ le scarpe a punta/ a vita alta i blue Jeans /RayBan sfumati/il Kawasaki / in chachemire crema il tuo pull /sei di prima” cantano quelli del complesso Flora, fauna e cemento. È un’immagine ben definita, e soprattutto autoritaria: per essere di “prima” cioè giovani bene, si osserva, è sufficiente copiarla fedelmente. Se si possiedono pure i soldi per realizzare il travestimento con capi originali, la cosa va bene. Altrimenti si rientra nella categoria imitazione lusso del “fighetto”, il figlio della piccola o media borghesia, per lo più studente, che, non avendo modelli suoi, si rifà a quelli della classe superiore. Per converso, quando i valori e i comportamenti del giovane bene, sono contestati e rifiutati in blocco, si rientra in una terza categoria, quella degli impegnati, dove al lusso e alla ricercatezza, si oppongono volontariamente i camiciotti usati, la spontaneità e la sciatteria un po’ calcolata di chi ha altro per la testa che i vestiti, e vuole comunicarlo al mondo intero (“Panorama” 18 dicembre 1975, 102).

Vi è, in sostanza, il tipo bene, che si riconosce facilmente perché è sempre vestito con cura e con cose costose. Il ragazzo sceglie completi gessati, e li ordina al sarto, perché non facciano un difetto. Fuma solo Marlboro, e le accende con un Dunhill d’argento, porta l’orologio soltanto a destra, con il cinturino sopra la camicia, alla maniera di Gianni Agnelli; di solito preferisce la donna bionda. Per le ragazze è d’obbligo anche un profumo costoso, lo Chanel per esempio la borsa di coccodrillo, e tanti ninnoli, ma tutti d’oro, mischiati con tartaruga e avorio. Se in alcune occasioni si veste in modo più casuale, jeans e maglione, il tipo bene sta attento a scegliere un jeans di marca e “costoso” e un maglione firmato: ogni ragazza possiede almeno due completi di maglia di Sonia Rikiel. Gira su una grossa moto giapponese o meglio su una macchina di grossa cilindrata: Bmw, Rover o Porche. La maggior parte del tempo libero il tipo bene lo trascorre in discoteca, al cinema o al ristorante. Per le vacanze sceglie soluzioni costose e ricercate, inseguendo il sole anche d’inverno: sulle spiagge del Marocco o della Tunisia.

Segue il tipo fighetto, il cui ultimo idolo musicale è Riccardo Cocciante, anche se ascolta brani di Ornella Vanoni e James Taylor.

È la versione del tipo “bene” in tono minore, che per mancanza di soldi e di informazione, eredita in ritardo i miti della classe superiore. Così per esempio tra i “fighetti” sta arrivando soltanto ora la moda delle maxi moto e degli occhiali RayBan, delle scarpe a punta e dei pantaloni a vita alta. Legge poco in genere anche lui, non si interessa di politica ma ha come idolo Berlinguer perché dà sicurezza (“Panorama” 18 dicembre 1975, 103).

A questi due tipi si aggiunge il tipo impegnato, sempre presente alle manifestazioni, ai concerti, ai comizi, ai cinema d’essai. Frequenta raramente il bar, quasi mai va a ballare. “Oggi che i jeans sono diventati una divisa per tutti, si difende comprando Wrangler stinti, rattoppati, accoppiandoli con zoccoli e loden verde, sempre sbottonato. È la moda del falso dimesso: ogni capo deve sembrare vissuto e logorato dall’esperienza, e insieme casuale”. In realtà di casuale ha ben poco, tanto è vero che fra i ragazzi di sinistra si possono distinguere

tre sottotipi, ognuno con regole precise. Il tipo Pdup-Manifesto deve avere un maglione elegante, pantaloni di velluto a costa larga, un po’ lisi sulle ginocchia, occhialetti rotondi tipo Gramsci, scarpe scamosciate, quasi sempre la pipa, e almeno un libro e due quotidiani sotto il braccio. Il tipo figicì, invece, ha l’obbligo dei capelli corti, della camicia bianca e del maglioncino fuori moda. Deve portare anche la borsa di pelle tipo executive sotto il braccio e un pacchetto di MS in tasca. Il terzo tipo, quello alternativo, è più folkloristico, ma altrettanto definito: gonne lunghe stracciate, scialli e sciarpe con ogni clima, capelli lunghi, spettinati e ricciuti per le ragazze; camicioni scozzesi a colori sgargianti, pantaloni di tela tipo pigiama, cappelli di feltro sformato per i ragazzi (“Panorama” 18 dicembre 1975, 103).

Inoltre, su queste basi, da un’altra grande inchiesta Demoskopea-“Panorama” del 1978 emerge “il credo della nuova generazione italiana: fondato soprattutto su una voglia disperata di realizzare se stessi, di vivere secondo i propri desideri” (“Panorama” 14 febbraio 1978, 66). La famiglia, la coppia, il sesso, la religione, il lavoro per i giovani sono ancora valori, ma non con l’iniziale maiuscola, ossia rivisti, rivisitati in un modo nuovo, riposti in un quadro del tutto personale, che ai loro padri può sembrare addirittura provocatorio. Anche i giovani sono coscienti di vivere in un periodo di transizione: un momento in cui a una morale unica e consolidata si sono sostituite tante morali, in cui un sistema di valori ben definito ha lasciato il posto alla frantumazione. “Siamo dei viandanti”, spiega il filosofo neomarxista Massimo Cacciari, “che hanno abbandonato la casa, la dimora delle certezze e dei valori: il senso del viaggio non è nella meta, ma nella strada che facciamo”. E ciò sembra che la nuova generazione l’abbia ben compreso, tanto che: “i giovani intervistati riconoscono la propria crisi non danno però la sensazione di essere ripiegati su se stessi, oppure allo sbando, anzi: la loro è solo una crisi di crescenza”, aggiunge Fabris, docente di sociologia a Trento, e direttore della Demoskopea. Di fatto, alla domanda, se c’è qualcosa in cui i giovani continuano a credere, il 67% ha risposto affermativamente e ha indicato progressivamente come cose importanti l’indipendenza, l’autonomia la libertà (41,3%), l’amiciza e la fratellanza (35,6%) seguiti a larga distanza dall’impegno politico, l’amore, la sincerità, l’onestà (“Panorama” 14 febbraio 1978, 67-68).

Nel contempo, persiste al fondo l’insicurezza, che si radica in una situazione reale drammatica: la mancanza di lavoro. Specificamente:

È una preoccupazione che ritorna ossessiva e martellante in parecchie risposte dei ragazzi intervistati dalla Demoskopea. Ed esplode alla domanda più esplicita, “qual è per voi il problema più importante degli altri, quello che dovete risolvere prima di ogni altra cosa, quello che vi preoccupa di più”, dove quasi il 52% degli intervistati […] mette al primo posto il problema del lavoro (“Panorama” 14 febbraio 1978, 68).

È presente, sostanzialmente, la necessità di adattarsi a qualsiasi tipo di lavoro, e ciò costituisce in quel momento una nuova tendenza che concorre a sgretolare la convinzione in base alla quale il lavoro è il modo migliore per realizzare se stessi: una mistica che, inaugurata dall’etica protestante, è stata il motore dello sviluppo del capitalismo. Ma per i giovani di oggi ha cessato di essere un valore: cercano, spiega il filosofo Salvatore Veca, un lavoro per avere un reddito, per avere un posto nella società. Tuttavia sono decisi: deve essere un lavoro che non sporchi moralmente, che non rovini la qualità della vita, che lasci spazi alla realizzazione di se stessi. Per questo alcuni, imitando i figli dei fiori, rifiutano consciamente l’inserimento nell’industria, preferiscono ritagliarsi uno spazio nelle pieghe del sistema, solgendo lavori artigianali, quali per esempio la lavorazione del legno e del cuoio, la tessitura a telaio ecc., che garantiscono, insieme al guadagno, la libertà di organizzarsi la giornata come si desidera: “al fondo di questo modo diverso di intendere il lavoro c’è, infatti, quello che è il segno di questa generazione: il bisogno, prepotente e pressante, della felicità, la voglia di realizzare il proprio io” (“Panorama” 14 febbraio 1978, 68-69). In questa prospettiva, si consolida la persistenza dell’insieme di alcuni elementi fondanti dell’immaginario sociale giovanile già evidenziato a chiare lettere per quei giovani che negli anni Sessanta non hanno “fatto il Sessantotto” (Calanca 2008). Sotto questo profilo, è come un filo rosso ciò che lega il forte investimento esistenziale nel realizzare se stessi presente nei giovani degli anni Sessanta e presente in quella che viene definita nuova generazione, individuata negli anni Settanta. Specificamente, alla domanda se c’è qualcosa che ha un significato particolare, che si sente dentro e che è più importante di tutti, i ragazzi intervistati dalla Demoskopea hanno risposto ponendo al primo posto la felicità, il realizzare se stessi: “È un grido che parte dai giovani e che accomuna tutti, dalla maggioranza conformista alle avanguardie più radicali”. E per conoscere il loro modo di pensare, i loro valori, la spia era e rimane la musica, le canzoni:

Le ascoltano, le cantano, se le dedicano a vicenda dai microfoni delle radio libere, le ballano: le canzoni sono sempre con loro, scandiscono il ritmo della loro giornata. E sono proprio le parole delle canzoni preferite dai giovani la spia più efficace del loro modo di pensare, dei loro valori” (Calanca 2008, 74).

Sembra poi, anche in questo caso, che l’esigenza di conoscere il mondo giovanile, in realtà costituisca uno dei diversi modi di conoscere e capire il presente in cui si vive, tanto che in definitiva, ci si chiede se: “Si sta formando davvero fra questi giovani una nuova moralità destinata a spazzar via le vecchie costellazioni mentali, a dare un volto diverso alla società? È cominciata davvero quella che il filosofo Felix Guattari chiama “rivoluzione molecolare”? (Calanca 2008, 75). In questa ottica, le risposte non sono concordi. Numerosi sociologi avvertono che le nuove idee, i nuovi valori che si affacciano sulla scena della storia non si impongono immediatamente, che l’inerzia insita in ogni sistema consolidato da lungo tempo lavora in senso contrario e provoca notevoli ritardi. Altri, invece, sono più ottimisti. Ma, afferma Salvatore Veca: “la talpa del mutamento scava sempre”, e sostiene che “il nostro compito è quello di studiarla, scoprire il metodo con cui procede” (Calanca 2008, 75).

Nel complesso, il tentativo di comprendere la velocità dei cambiamenti avvenuti e che stanno avvenendo in quel momento all’interno del mondo giovanile, in realtà, sembra celare la difficoltà a codificare il divario tra vecchio e nuovo che, maturando nel più ampio scenario sociale, economico, morale e culturale, comporta di fatto, per tutto il decennio Settanta, una forte tensione polare tra lento e veloce, giungendo a costituire un elemento fondante dell’immaginario sociale collettivo di quel tempo. E ciò va a confluire nel tentativo non tanto di individuare le condizioni che fanno da sfondo al cambiamento veloce, quanto di evidenziare il contenuto dei cambiamenti stessi, nonché le modalità mediante cui essi si sono verificati. Sotto questo profilo, assume una fisionomia significativa il riconoscimento delle equivocità che avvolgono la vita italiana, per esempio nel decennio 1967-1977. Un decennio in cui “con una rapidità sconcertante” la vita del Paese si è trasformata, come si legge in un’ inchiesta pubblicata nel 1977 su “Oggi” dal titolo Come è cambiata la nostra vita. L’Italia in cui viviamo ci è cambiata sotto gli occhi con una rapidità sconcertante (“Oggi” 8 gennaio 1977, 19 ss).

E così, adesso, ovunque si vada e chiunque si incontri, la commiserazione, la paura e la rabbia confluiscono nel rimpianto e in un lamento qualunquista: “Che tempi! Dove andremo a finire? […] Ma ti ricordi dieci anni fa?” Il 1967 non è lontano, però sembra un’epoca che non ci appartiene più, tanto siamo cambiati. Dieci anni fa […] pieni di buonumore, un po’ sciocchi ma tranquilli. L’Italia cambiò e noi con lei. Abbiamo solo subito o eravamo preparati ad accettare il cambiamento perché inconsciamente eravamo stanchi dei vecchi schemi? Tutte e due le cose, perché il costume si trasforma quando chi si batte per trasformarlo incontra chi lo segue. Così l’attacco è arrivato su due fronti: dall’esterno, a livello conscio; dentro di noi, al livello inconscio. E tutto (famiglia, morale, cultura, lavoro) è stato abbattuto con la violenza di un ciclone. Sono stati dieci anni così intensi che spesso non abbiamo capito chi e che cosa ci hanno trascinati.

Tentando, dunque, di comprendere chi e cosa è cambiato in Italia, a una velocità sorprendente, il punto d’avvio è costituito dall’analisi della famiglia: “C’è un punto fermo, incontestabile, chiaro per tutti: la famiglia del 1977 non è la stessa del 1967”. E ciò lo si deduce, soprattutto, dalle nuove leggi che regolano i rapporti fra i coniugi: nel 1968 viene abolito l’articolo che punisce con la detenzione la donna adultera; nel 1971 viene liberalizzata la propaganda sugli anticoncezionali; nel 1974, dopo il referendum, il divorzio entra definitivamente nella storia italiana; nel 1975 viene sancito il nuovo diritto di famiglia, che stabilisce la parità fra i coniugi: diventano comproprietari, metà per ciascuno, dei beni acquistati dopo il matrimonio; la patria potestà diventa potestà di entrambi i genitori: i padri e le madri godono, quindi, degli stessi diritti e doveri nei confronti dei figli; la donna non perde più il cognome, ma aggiunge al suo quello dell’uomo. Si registra, poi, nell’inchiesta, che nel 1975 sono stati clebrati 374.364 matrimoni, 67 ogni 10.000 abitanti: risulta questo essere il quoziente di nuzialità più basso, registrato nel Paese negli ultimi 25 anni (“Oggi” 8 gennaio 1977, 21). Nel contempo, sono poi aumentate le domande di separazione coniugale: oltre 30.000 nel 1976 contro le 19.786 del 1970, mentre il quoziente dei matrimoni legalmente falliti è salito da 37 a 54 ogni 10.000 abitanti. Sono aumentati anche i matrimoni civili rispetto a quelli religiosi: nel 1971 su 404.464, le nozze civili furono il 4%; nel 1975 su 374.364 sono state l’8 per cento. Ma, al di là delle statistiche, si sostiene nell’inchiesta, la protagonista della trasformazione familiare è stata la donna. La donna è cambiata, una nuova ideologia femminile è entrata, dunque, “nelle case e molte donne incominciarono a rifiutare, o almeno a discutere, il ruolo della moglie tradizionale” (“Oggi” 8 gennaio 1977, 21). A ciò si affianca la constatazione in base alla quale non ci sono punti fermi dai quali discendono i nuovi rapporti fra i genitori e i figli:

Il cambiamento, infatti, è stato provocato da avvenimenti esterni che sono entrati con prepotenza nei nuclei familiari. Questi gli avvenimenti più importanti: la caduta del tabù del sesso; la divulgazione delle teorie sull’educazione permissiva; la contestazione studentesca e quindi una maggiore partecipazione dei giovani non solo alla vita sociale e politica del paese ma anche a quella della famiglia; l’aumento della scolarità; l’arrivo della droga (“Oggi” 8 gennaio 1977, 23).

Allargando poi lo sguardo sui mutamenti veloci avvenuti nella morale italiana, stando all’analisi dell’inchiesta, non si può trascurare l’impatto che procede dal considerare che certe “cose” e certi atteggiamenti costituivano tratti tipici della vita italiana anche prima degli anni Sessanta, ma che erano vissuti in “silenzio” e tenuti all’“oscuro”:

I giovani di oggi si baciano in pubblico? Si baciavano anche una volta, ma di nascosto. Si sfogliano le porno-riviste dal barbiere? Si leggevano anche prima ma con vergogna. I ragazzi e le coppie sposate si concedono troppa libertà sessuale? Si faceva l’amore anche negli anni Sessanta ma se ne parlava poco. La recente rivoluzione nella morale italiana ha soltanto portato alla luce i nostri segreti e i nostri peccati. […] Quando iniziarono gli anni Settanta, il comune senso del pudore non era più quello che, all’inizio degli anni Sessanta, ci aveva spinti a giudicare scandolosi film come La dolce vita e Rocco e i suoi fratelli. Era cambiato: avevamo voluto che cambiasse: perché? […] Con il dopoguerra è iniziata, in Italia, sia pure psicologica, per distruggere tutte le costrizioni che avevano soffocato il paese durante il regime fascista. Negli anni Sessanta il concetto di morale era ancora quello degli anni Trenta. Incominciava a tremare ma si era salvato. La nuova generazione, quella nata nel dopoguerra, l’ha abbattuto, trascianando anche i genitori (“Oggi” 15 gennaio 1977, 32-33).

A tale riguardo, un esempio banale, ma significativo, si sostiene, è il cambiamento dei padri quando nel 1968 inorridivano guardando i figli con i capelli lunghi, le camicie a fiori, i pantaloni stretti, gli stivaletti. Poi gli stessi padri, tre anni dopo, o per avvicinarsi ai figli, o per essere alla moda, o per convinzione, si sono fatti crescere i capelli, hanno indossato jeans e camicie a fiori: “Sotto quei capelli lunghi si nascondeva una nuova ideologia: i padri assorbirono la moda ma anche parte di quella ideologia” (“Oggi” 15 gennaio 1977). Ma accanto a questo, vi è la convinzione che già nel 1970 il concetto di morale era già cambiato, ma nessuno aveva codificato il cambiamento, tanto che:

Era nato un nuovo “comune sentimento del pudore”: nelle case si insinuava lentamente, quasi a livello inconscio. Entrò invece con prepotenza nel cinema, nella stampa, nel teatro e, in parte, anche nella televisione. Quanto più eravamo lenti nel’assorbire il nuovo processo ideologico tanto più il cambiamento si mostrava violento ai nostri occhi (“Oggi” 15 gennaio 1977, 34).

Da questo punto di vista, si constata che le conseguenze, ogni volta, sono state drammatiche e sproporzionate rispetto al caso concreto. Ossia, per esempio: “Un regista aveva osato troppo con le immagini sullo schermo? Facevamo la fila davanti al cinema perché volevamo vedere. All’uscita ci mostravamo scandalizzati: ci sembrava inconsciamente, di essere andati troppo avanti. Ascoltavamo magistrati, registi, scrittori che intervenivano sul caso. Intanto, un altro freno si era allentato”. Nel contempo, pure il linguaggio nei rotocalchi per la famiglia è cambiato: sono state eleminate le vecchie formule, quali per esempio “legati da tenera amicizia”, “Sentimenti legati”, “mamma in dolce attesa”, “arriva la cicogna in casa di…”. C’è stata, in sostanza, una rivoluzione nella morale italiana, scandita, stando ai dati dell’inchiesta, da alcuni tappe fondamentali, tra cui per esempio nel 1974 la comparsa del nudo integrale sui palcoscenici e nel cinema (“Oggi” 15 gennaio 1977,32). Ma anche la televisione è cambiata: “Abbiamo visto sui teleschermi La dolce vita, L’avventura, La notte, i film più vietati degli anni Sessanta. E poi le soubrettes: dieci anni fa, ballavano con le gambe interamente coperte da calze nere. Furono le gemelle Kessler le prime a liberarsene un sabato sera del 1968 in Studio uno. Le prime gambe televisive d’Italia diventarono un caso nazionale”. A ciò segue lo scalpore suscitato da Raffaella Carrà, quando nel 1973, in Canzonissima, si è presentata con un due pezzi che lasciava scoperto l’ombelico. “Siamo in un periodo di passaggio e paghiamo l’inevitabile scotto di ogni cambiamento. Ma la morale non è scomparsa. N’è ce n’è una nuova. È cambiato solo il concetto di morale. I ragazzi si baciano in pubblico, per la strada o nei parchi? Si baciavano anche una volta: di nascosto. La signora parla nei salotti della propria intimità coniugale? Erano le stesse cose che pensava prima, ma non osava dirle. La morale non è più sentita come una costrizione. Dopo la rivoluzione, ciascuna la interpreta secondo la propria personalità e la propria cultura. Vive senza falsi pudori, allo scoperto (“Oggi” 15 gennaio 1977, 36).

Nondimeno, appare rilevante la serie dei cambiamenti avvenuti nella cultura in ogni casa dopo la rivoluzione sociale, laddove, stando all’inchiesta in questione, in quel momento si registra una nuova e diversa esigenza di conoscenza, non soltanto per un naturale desiderio di conoscere, ma soprattutto per

passare senza troppe ferite attraverso gli sconvolgimenti della vita quotidiana. […] La nostra vita quotidiana si è trasformata con tale violenza che non abbiamo più voluto seguire gli avvenimenti passivamente: dovevamo capire cosa succedeva e perché succedeva. Non ci occupavamo di sindacalismo? Un bel giorno, ci siamo trovati coinvolti e abbiamo cercato di scoprire cosa fosse. Non ci occupavamo di politica? Il governo ci tartassava con le tasse e abbiamo voluto conoscere gli uomini che ce le imponevano. Il divorzio, la pillola, l’aborto, tutto ciò che è la nostra vita, lo discutevano e lo decidevano gli altri? Eravamo i diretti interessati e ci informammo per esprimere anche la nostra opinione. […] Ci svegliammo e, per difenderci dai soprusi o per capire meglio la realtà che si trasformava, cercammo di sapere” (“Oggi” 22 gennaio 1977, 54).

E questo per poter vivere come protagonisti, non come pecore. E di qui ognuno si è aggrappato alla fonte di cultura, d’informazione, che gli era più congeniale: per le riviste: siamo il paese europeo in cui si vendono più settimanali: trentadue copie ogni cento abitanti (“Oggi” 22 gennaio 1977, 55). I più venduti: “Grand Hotel” fra i fotoromanzi; “Sorrisi e canzoni” fra i televisivi; “Famiglia cristiana” e “Oggi” fra i familiari; “Panorama” fra i politici; “Annabella” fra i femminili. Per la narrativa il boom dell’anno è “Porci con le ali”, che ha venduto 235.000 copie; uscito nel 1975 “Lettera a un bambino mai nato” di Oriana Fallaci, vendendo 220 mila copie nel 1976 si avvicina verso il mezzo milione di tiratura complessiva, mentre tra i quotidiani il più diffuso è il “Corriere della sera” con tiratura 690.000 copie, vendita 572.000.

E in questo quadro, sembra maturare un parallelismo identitario tra i cambiamenti registrati nel costume italiano e il fenomeno del riflusso, così come viene codificato per esempio in un’inchiesta pubblicata su “Panorama” nel 1979, in cui si registra la prevalenza degli interessi privati sull’impegno politico, la voglia di divertirsi, il ritorno al consumismo, e dunque, un cambiamento del modo di vivere degli italiani: “Ma da dove viene la spinta? Dove porta? È una reazione passeggera o una svolta a destra?” (“Panorama” 2 gennaio 1979, 40). Sotto questo profilo, desiderio di evasione, prevalenza della sfera privata su quella politica, ossia rovesciamento della filosofia nata sulle barricate del ’68, fine della grande illusione della democrazia di base come strumento per rivoluzionare il rapporto cittadini-potere, costituiscono i tre aspetti di un fenomeno che ha investito l’Italia tra il 1976 e il 1978, e a cui uomini politici, osservatori del costume hanno dato un nome preciso: riflusso moderato. Specificamente, se misurata sui tempi di solito lenti dell’evoluzione del costume, si tratta di una svolta improvvisa: “in tal senso, sono passati poco più di due anni, infatti, dal 20 giugno 1976 quando decine di migliaia di italiani radunati spontaneamente davanti alla federazione del partito comunista, il grande vincitore delle elezioni, avevano inneggiato all’alba del nuovo giorno”. Secondo l’analisi di Indro Montanelli, era storicamente prevedibile “che alla sbornia ideologica del passato facesse seguito un periodo di riflusso” (“Panorama” 2 gennaio 1979, 40-41).

Considerato con preoccupazione, sia da sinistra che da destra il disimpegno politico è soprattutto evidente nella sinistra che nella prima metà degli anni Settanta ha dato il massimo contributo all’esigenza di partecipazione democratica dei cittadini e di ribellione al tradizionale ruolo di suddito passivo in cui si adagiava un gran numero di italiani. Ma la gente chiede soltanto più soldi da portare a casa (“Panorama” 2 gennaio 1979, 43). Nel contempo, si evidenzia che: “Per anni ci siamo trastullati nell’equivoco che il movimento studentesco rappresentasse tutti i giovani, che tutti i genitori la pensassero come quelli che mandavano i bambini all’asilo in corteo. In realtà la mitica massa ha guardato di buon occhio la grande ondata di rinnovamento, la voglia di demolire le strutture arcaiche, ma non si è mai sognata di diventare un esercito compatto ed entusiasta ansioso di passare la vita a leggere i da-tsebao sulla piazza Tien An Men. E a poco a poco è ritornata a quello che oggi si definisce il privato. Crede senz’altro al nuovo modello di sviluppo, ma in attesa che qualcuno dica chiaro come lo si possa attuare, si è accorta che un po’ più di soldi in tasca, un’assemblea di meno e un cinema in più non gli fanno certo rimordere la coscienza. E agisce di conseguenza” (“Panorama” 2 gennaio 1979, 43). Se da un lato, dunque, un aspetto del riflusso è l’allontanamento della politica, ve ne è contemporaneamente un altro di grande incidenza sul costume italiano, forse il più incisivo, dal momento che non fa che espandere ciò che era già presente fin dagli anni Sessanta, ossia “un nuovo modo di divertirsi, di vestirsi, di trascorrere il tempo libero, di vivere”. In particolare, si osserva, che se la coppia, la famiglia, il matrimonio in funzione dei figli erano stati aboliti con “decreto studentesco”, in quel momento gli stessi studenti, secondo 18 inchieste pubblicate dai settimanali più impegnati rispondono che sentono il bisogno di nuovo dell’amore, del romantico della fedeltà, della gelosia: “In famiglia si sta non bene, ma meglio che da soli” dice Lello 21 anni universitario milanese “Col vecchio discuti, t’incazzi, ma alla fine ragioni. E poi non hai l’angoscia di trovare i soldi per tirare fino a sera” agli intervistatori che registrano queste dichiarazioni si parano davanti non più i ragazzi vestiti da guerriglieri ma tanti piccoli Robert De Niro vestiti alla Marlon Brando (“Panorama” 2 gennaio 1979, 43). Nel contempo, non sono solo i giovanissimi a ritornare indietro. In tal senso: “mentre nella sinistra tradizionale ci si chiede se la febbre del sabato sera lo spirito alimentato dal film di John Travolta, non sia un fenomeno di rigurgito fascista, ogni fine settimana tre milioni di italiani dai 15 ai 40 anni, per nulla turbati dalle possibili interpretazioni politiche della loro scelta, invadono 3.500 balere, 500 delle quali aperte proprio quest’anno per assorbire l’aumento della domanda (“Panorama” 2 gennaio 1979, 44). Il punto fondante dell’analisi che emerge dall’inchiesta in esame, pare, al di là di una lettura ideologico-poltica, è la comprensione del modo in cui “Esattamente come la moda, altre attività ricreative un tempo considerate passatempi troppo disimpegnati hanno riacquistato accettabilità anche a sinistra, come per esempio il calcio” (“Panorama” 2 gennaio 1979, 45). Sotto questo profilo, sarebbe interessante indagare, in senso storico proprio quello che ci si chiede in quel momento, ossia: “Questa riscoperta del privato è solo un riflusso temporaneo, una reazione fisiologica a un’epoca di ubriacatura ideologica e di aspirazioni non realizzate, oppure una fuga dalla realtà? Si è formata in Italia quella che Forcella ha chiamato una generazione di “Nuovi indifferenti”? Il Pci il più grosso partito della sinistra sembra disposto di fronte al montare del riflusso moderato a fare un’autocritica: aveva giocato tutte le sue carte sulla partecipazione politica. […] Un membro del comitato centrale socialista afferma: “non ci siamo resi conto che gli interessi della gente si sono spostati dai rapporti di produzione, dai luoghi di lavoro, ad altri problemi: ecologia, energia nucleare, rapporti personali e umani” (“Panorama” 2 gennaio 1979, 46).

Rispetto a ciò è plausibile sostenere che fosse già in atto lo sgretolarsi delle ideologie politiche, la fine della politica delle ideologie, mentre avanzava inesorabilmente l’ideologia si del consumo, come è già stato ricostruito in senso storico, ma anche di quel Nuovo concepito nei termini di “duplice visione”, laddove le cose empiriche si sostituiscono all’astrazione, ma ciò si vede maggiormente mediante il mondo giovanile.

In definitiva, alla fine degli anni Settanta, si giunge, mediante un’inchiesta, a individuare le linee di una nuova antropologia giovanile, specifica della “Generazione del Boh!” – la tipica espressione di chi non sa cosa rispondere alle domande –, in cui gli elementi di coagulo generazionale sono ormai definitivamente circoscritti nell’atteggiamento verso il consumo: “La stessa libertà di consumare tanto strombazzata dalla cultura di massa che si trasforma per alcuni in esigenza di libertà assoluta” (“Panorama” 25 giugno 1979, 76). Forse è quella libertà che suscitava la novità, la passione per il nuovo, all’interno di quell’ideologia del consumo che induce ad affermare ancora oggi che dei Settanta “la magia di quegli anni, stava nel fatto che ogni prodotto che usciva era una novità, soprattutto nel settore giochi per bimbi/ragazzi, ma anche nei programmi televisivi, e così via discorrendo. Così tutto era un successo, ed era entusiasmo, dalle palline “click clac, a qualsiasi altro prodotto. Mi ricordo ancora con quale curiosità si guardavano in spiaggia, il “Going”, piuttosto che le famigerate (e micidiali) click clack” (www.pagine70/forum.it).

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