Andrea Francioni
Volendo azzardare in prima battuta un giudizio complessivo sulla vicenda della presenza italiana in Ecuador nella prima metà del XX secolo ci potremmo affidare alle parole del generale Alessandro Pirzio Biroli, che evocò l’immagine di “una cornice senza tela”. Ma come spesso accade nell’analisi storica, la sintesi non renderebbe giustizia al tema che Paolo Soave ha deciso di indagare, una ricerca che si avvale di un’accurata ed esaustiva ricognizione delle fonti primarie disponibili – reperite presso gli archivi diplomatici, economici e militari – e che permette di cogliere, astraendo dal caso particolare, alcune linee generali di condotta della politica estera italiana nel passaggio dall’età liberale al fascismo. L’Autore, pur non rifuggendo dal documentare le iniziative assunte sul piano economico, politico e militare, non è sopraffatto dai dettagli e dalle motivazioni contingenti – rischio che, data la natura monografica dello studio, non era facile da evitare – offrendo, tra l’altro, un inquadramento dell’azione italiana in America latina fra le due guerre mondiali in cui l’attenzione per la presenza nel Paese andino, piuttosto che esaurirsi in sé, avvalora la riflessione sullo scenario geopolitico complessivo, sul quale ovviamente incombevano come potenza di riferimento gli Stati Uniti, i cui rappresentanti in loco esercitarono un’azione di costante vigilanza sulle mosse italiane.
In un Paese nel quale non esistevano interessi precostituiti, fondati magari sulla presenza di quelle cospicue comunità di emigrati di origine italiana che si registravano altrove nel continente, le relazioni fra Roma e Quito si mantennero su due piani: quello dei tentativi di penetrazione economico-finanziaria nati nel contesto della collaborazione fra uomini che gravitavano intorno alla Banca commerciale e alle iniziative internazionali di Giuseppe Volpi; e quello diplomatico-militare, ambito nel quale l’elemento storicamente più rilevante fu la presenza di una missione militare italiana che, periodicamente rinnovata e adattata, operò in Ecuador ininterrottamente dal primo dopoguerra al secondo conflitto mondiale, rappresentando il dato di continuità sul fronte di rapporti bilaterali.
Avviati nel 1919 con la missione del tenente colonnello Benedetto Accorsi, il cui ricco programma di interventi nella “Repubblica impervia” fu sostanzialmente affossato dalla indisponibilità di Roma a concedere un ingente prestito governativo prima ancora che dall’opera d’interdizione della diplomazia americana, i tentativi italiani di penetrazione economica furono presto affidati all’iniziativa privata attraverso la costituzione nel 1921 della Compagnia italiana dell’Equatore (Cide), sodalizio nato sotto l’egida della Banca commerciale, al quale partecipavano la Banca italiana di sconto, la Società agricola commerciale industriale, oltre al gruppo Bombrini-Parodi Delfino. Il “Programma per una penetrazione italiana nell’Equatore” assegnava alla neo-costituita società “il compito di istituire nel Paese andino una banca con facoltà di emissione, secondo le leggi locali, ed una serie di aziende che, coordinate fra loro, avrebbero dovuto operare negli ambiti delle attività agricole, commerciali, nella realizzazione di opere pubbliche e nello sfruttamento delle risorse naturali” (p. 68). Un programma di ampio respiro che la Cide cercò di mettere in pratica avviando un’accurata ricognizione delle condizioni naturali, economiche e politiche ecuadoriane, condotta sul campo da una missione tecnica della quale facevano parte alcune delle personalità che avrebbero poi dato vita alle principali iniziative italiane: l’ingegner Oreste Jacobini, Leopoldo Parodi Delfino, l’agronomo Italo Paviolo, uomo di fiducia di Giuseppe Volpi.
La missione individuò i settori d’intervento e il governo di Quito si dimostrò più che disponibile a sostenere l’opera di valorizzazione concepita dai tecnici italiani, se non altro per sottrarsi alla già pervasiva influenza statunitense: segno inequivocabile dell’orientamento favorevole delle autorità ecuadoriane fu tra l’altro l’esito positivo del negoziato condotto in quegli stessi mesi dal colonnello Accorsi per l’invio nel Paese sudamericano di una missione militare – poi effettivamente costituita nella primavera del 1922 sotto il comando del generale Pirzio Biroli. Senza entrare nei dettagli, occorre tuttavia sottolineare che, pur elaborato nell’ambito di un’iniziativa privata, anche il complesso e oneroso programma della Cide non poteva essere realizzato senza un concreto appoggio governativo quanto meno sotto il profilo politico-diplomatico e, in mancanza di tale appoggio, dovette essere drasticamente ridimensionato: insomma, l’élite tecnica che operava in Ecuador per conto della Cide continuò a promuovere i suoi progetti di investimento – talvolta conseguendo risultati apprezzabili, come dimostra la costituzione alla fine del 1923 del Banco italiano di Guayaquil – ma il disimpegno di Roma impedì che questo sforzo si traducesse nell’instaurazione di più solidi vincoli politici bilaterali.
L’atteggiamento ufficiale confermava la validità, anche nella transizione al regime fascista, delle tradizionali direttrici, europea e mediterranea, della politica estera italiana, mentre la ridefinizione della politica economico-finanziaria alla metà degli anni Venti relegava in posizione ancora più marginale l’interesse per il Sudamerica. C’è senz’altro dell’ironia nel fatto che l’artefice della svolta fosse Giuseppe Volpi il quale, nella sua veste di ministro delle Finanze, impresse un nuovo corso ai rapporti italo-statunitensi: il passaggio fu sanzionato dalla firma, nel novembre 1925, dell’accordo Mellon-Volpi, che mise fine all’annosa vicenda dei debiti di guerra e garantì all’Italia il prestito – finanziato soprattutto dalla JP Morgan – per la stabilizzazione della lira. Paolo Soave evidenzia il nesso osservando che “l’instaurarsi di così stretti vincoli finanziari con gli Stati Uniti non solo rese improponibile qualsiasi investimento economico in America Latina, ed in particolare in Ecuador, dove la Morgan era l’interlocutore principale del governo locale per l’ipotetico salvataggio dell’economia nazionale, ma anche sconveniente la stessa ipotesi di trovarsi in qualche modo in competizione economica con gli americani in un Paese di loro interesse” (p. 108). Come si accennava, non mancarono anche in seguito segnali di attivismo – e in tal senso va letta la nascita a Guayaquil nel 1928 della Camera di commercio italiana per l’Equatore – tuttavia, conclude l’Autore, a questo punto “era del tutto venuta meno qualsiasi concezione organica riconducibile ad una autentica politica di penetrazione economica” (p. 125); si trattava di una scelta chiara e in certo modo assecondata dagli sviluppi internazionali, quando le ricadute della crisi economica del 1929 offrirono agli Stati Uniti l’opportunità di condizionare definitivamente i propri vicini latino-americani e al governo Mussolini l’occasione per ribadire la distanza da quell’ambito geopolitico.
I rapporti tra Roma e Quito rimasero quindi circoscritti, per volontà del regime, alla mera ufficialità e in tale contesto la missione militare rappresentò senza dubbio l’elemento di presenza più rilevante e duraturo, conseguendo fra l’altro innegabili successi specialmente nel campo dello sviluppo dell’aviazione ecuadoriana: non è un caso che fino al 1938 la voce principale del movimento commerciale tra i due paesi fosse rappresentata dalle forniture di materiale bellico italiano. Peraltro il libro documenta come l’influenza dei militari italiani rimanesse durante l’intero periodo di natura strettamente tecnico-professionale, anche in frangenti in cui gli sviluppi politici interni all’Ecuador avrebbero potuto autorizzare la speranza – o forse il timore – di aprire qualche spazio di manovra, per lo meno in chiave ideologico-propagandistica (per esempio all’epoca del golpe del generale Alberto Enriquez Gallo, di cui il capo della missione italiana, Giacomo Negroni, era il principale consigliere); e comunque si trattò di un’influenza destinata a soccombere nella competizione che, pure in questo settore, si innescò con gli americani nel corso degli anni Trenta.
Quanto il teatro sudamericano fosse periferico, al più strumentale rispetto al perseguimento degli obiettivi della politica estera italiana, risulta evidente anche dall’esame dell’episodica ripresa di interesse per il continente in coincidenza con la crisi etiopica. L’Ecuador, insieme all’Argentina, si trovò al centro della strategia fascista volta a creare all’interno della Società delle Nazioni un fronte contrario alle sanzioni, ma, come ben mette in luce l’Autore, si trattava di una politica di breve respiro, dettata dalla contingenza, non del segnale di un’inversione di tendenza: prova ne sia che in questo stesso frangente giunse a conclusione l’esperienza della Cide (1936) che, al netto dei più o meno improbabili progetti di valorizzazione concepiti da quell’élite tecnica, aveva alimentato per un quindicennio la fragile collaborazione italo-ecuadoriana. Infine, nell’imminenza di un conflitto nel quale la “Repubblica impervia” sarebbe stata sottoposta allo stringente controllo nordamericano in ossequio al principio della solidarietà continentale, a Roma la pratica sudamericana veniva definitivamente archiviata e anche a Quito maturò, nonostante uno stentato rinnovo della missione militare ancora all’inizio 1939, la decisione di una presa di distanza dal regime mussoliniano, culminata con la dichiarazione di neutralità all’indomani dell’ingresso in guerra dell’Italia.
Ribaltando l’immagine usata da Pirzio Biroli ricordata all’inizio, la vicenda dell’interesse italiano per l’Ecuador si presenta piuttosto come una tela priva di cornice, una tela affollata di progetti e iniziative concepite da personalità mosse da una sorta di “patriottismo economico” (p. 203), alla quale mancò, per approssimazione o condizionamenti internazionali, ma in sostanza per precise scelte strategiche, il sostegno di una cornice, di un chiaro indirizzo politico capace di definire le priorità e guidare l’azione sul campo dell’élite militare e tecnica; una vicenda destinata a rimanere, secondo la felice espressione dell’Autore, “una dimensione astratta della politica estera italiana” (p. 10).