Parlamento e sanità pubblica in Italia negli anni della ricostruzione (1945-1953)

Abstract

Il saggio analizza l’attività del Parlamento italiano nel settore della sanità pubblica tra la fine della seconda guerra mondiale e il 1953. Davanti all’instaurazione, nei paesi dell’Europa occidentale, di un moderno sistema di Welfare, inclusivo di un sistema sanitario nazionale gratuito (su tutti il caso inglese), l’Italia intraprese, per diverse ragioni, una strada lontana dai tratti universalistici assunti da quelle realtà. Malgrado i nobili principi enunciati dalla Costituzione, il nostro Paese offrì per molto tempo un panorama in campo sanitario ancora legato al passato e contraddistinto da uno schema fondato su numerosi enti mutualistici. In quest’ottica, l’articolo concentra l’attenzione soprattutto sulla nascita dell’Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica nel luglio 1945 e sulle principali misure legislative approvate dal Parlamento italiano, spesso però di secondaria importanza e tampone rispetto alle emergenze del momento.

Abstract english

The essay analyzes the activity of the Italian Parliament in the public health field between the end of the second world war and 1953. Despite the introduction, in the western European countries, of a modern Welfare system, with a free national health service (in particular, England), Italy took a different way for several reasons. Although the main principles contained in the Constitution, our country continued to have a health sector linked to the past and characterized by a scheme based on numerous mutual bodies. With this in mind, the article focuses on the set up of the High Commission for hygiene and public health in July 1945 and on the laws approved by the Italian Parliament, even if they were often of secondary importance and temporary respect to the emergencies of the moment.

di Massimiliano Paniga

Parlamento e sanità pubblica in Italia negli anni della ricostruzione (1945-1953)

Tra continuità e discontinuità: l’Italia del dopoguerra

L’eredità lasciata dalla politica corporativa fascista in campo sanitario, e non solo, fu piuttosto pesante. Essa aveva contribuito a creare un complesso schema assicurativo-previdenziale fondato su numerosi enti mutualistici, l’Inam era il più importante, con lo scopo di fornire cure mediche e ospedaliere a determinate categorie di lavoratori, familiari inclusi. Tale sistema segnò la nascita delle nuove istituzioni repubblicane, abbinato a un testo unico delle leggi sanitarie, emanato con regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, che non aveva fatto seguire quelle ampie riforme auspicate all’atto della sua promulgazione. D’altronde, la classe dirigente italiana era prevalentemente impegnata nell’opera di ricostruzione materiale del paese. Il conflitto aveva lasciato sul campo una gravissima situazione economico-sociale, con ingenti danni all’agricoltura, al patrimonio zootecnico e una produzione industriale scesa a un terzo rispetto all’anteguerra. A ciò, si aggiungeva l’urgenza di dotare l’Italia di un nuova Costituzione, dopo il coinvolgimento di casa Savoia nel regime fascista.

Se la drammaticità del contesto storico assorbiva gran parte delle preoccupazioni delle forze attive nel Cln, va pur detto che le stesse mostrarono una certa ritrosia nei confronti del cosiddetto piano Beveridge. Sotto il profilo ideologico e politico, nessun partito, in questi anni, lo prese mai seriamente a modello. Il Pci e il Psi ne contestavano il carattere conservatore e liberista perché non metteva in discussione i fondamenti dell’economia di mercato, che, per la cultura marxista, era ormai giunta al capolinea. Non si trattava tanto di una riluttanza all’idea di creare un servizio sanitario nazionale e gratuito, verso il quale, anzi, massimo era il sostegno, quanto di un rifiuto nell’inserire tale obiettivo in un quadro generale caratterizzato da un profilo universalista e interclassista, mentre le assicurazioni sociali dovevano in primo luogo rispondere ai bisogni e agli interessi della classe operaia (Paniga 2015, 251-264). La Dc, a sua volta, definiva il rapporto Beveridge un documento “dirigista, pianificatore e livellatore” (Bondioli 1950). L’unica, o quasi, cultura politica capace di fornire un’accoglienza favorevole al testo redatto dall’economista inglese fu quella del socialismo riformista, più incline ad assecondarne, sul piano dottrinario, gli assunti di base. Benché minoritari nel panorama politico nazionale, i riformisti ritenevano infatti necessario superare una concezione della sicurezza sociale ancorata alle categorie del lavoro dipendente, nella direzione di una graduale universalità delle prestazioni fornite dallo Stato.

In questo quadro, un elemento di novità in campo sanitario fu rappresentato dalla costituzione, con il decreto luogotenenziale 12 luglio 1945, n. 417, dell’Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica. Disciplinato nelle attribuzioni e nell’ordinamento dal successivo decreto n. 446 del 31 luglio 1945, e poi dal dlg 8 maggio 1948, n. 1204 e dal dpr 4 ottobre 1949, n. 695, l’Alto commissariato, posto alle dipendenze della presidenza del Consiglio, ereditava le competenze della soppressa Direzione generale della sanità pubblica creata presso il ministero dell’Interno nel 1888. Esso diventava il soggetto centrale a cui spettava la tutela della salute pubblica, il coordinamento e la vigilanza sulle organizzazioni sanitarie e sugli enti sorti con lo scopo di prevenire e combattere le malattie sociali, finendo per annettere i compiti esercitati dal Viminale ai sensi del testo unico del 1934. Ferme restavano, al contrario, le funzioni esercitate in ambito locale dai prefetti e dai comitati provinciali di assistenza e beneficenza. Sempre il decreto n. 446 conferiva alle dipendenze del neonato organismo l’Istituto superiore di sanità e il controllo sull’attività della Croce rossa, dell’Onmi e dell’Istituto di malariologia “Ettore Marchiafava”. Sul piano logistico, l’Alto commissariato si articolava in un segretariato generale, un gabinetto e 13 uffici: 2 per gli affari generali e del personale, 7 uffici tecnici con competenza sull’igiene pubblica, le malattie sociali, la produzione e la vendita dei farmaci e i servizi veterinari, 4 distaccati per i servizi dell’Unrra, la sanità marittima, le pensioni privilegiate, la disciplina delle acque minerali e degli stabilimenti per le cure termali. Non disponendo di una vera organizzazione periferica, accanto al prefetto, quale massima autorità sanitaria provinciale, agivano il medico provinciale e il consiglio provinciale di sanità, mentre in ambito comunale il sindaco e l’ufficiale sanitario.

Il decreto n. 446 venne preceduto da un vivace consiglio dei ministri sulle competenze da affidare all’Alto commissariato, la cui fisionomia si poneva a metà strada fra la semplice divisione ministeriale e la struttura propria di un dicastero. Se le sinistre spingevano per una modernizzazione del settore sanitario, introducendo elementi di razionalizzazione e coordinamento, l’ala governativa più moderata appariva preoccupata di non ledere eccessivamente gli interessi che nel medesimo aveva l’universo cattolico (Luzzi 2004, 116-117).

Il confronto politico in materia aveva già avuto un interessante anticipazione con il progetto di riforma ideato nel 1945 dall’igienista Augusto Giovanardi su incarico dalla consulta veneta di Sanità del Comitato di liberazione nazionale. Pur rimasto sulla carta e accolto con freddezza dagli igienisti italiani riunitisi a convegno a Firenze nell’ottobre 1946, il documento conteneva degli elementi innovativi, che unificavano i servizi di assistenza sanitaria, smarcandone l’azione dal potere prefettizio e garantendone una migliore distribuzione territoriale, con la creazione di una capillare struttura periferica e di un ministero della Sanità posto al vertice della piramide organizzativa (Cosmacini 1994, 109).

Maggior fortuna ebbe la relazione della V sottocommissione del ministero della Costituente, che rappresentò la base di partenza per la stesura dell’articolo 32 della Costituzione. I riferimenti alla salute come diritto soggettivo e interesse della collettività, insieme al rispetto della dignità umana in caso di determinate terapie, per fare degli esempi, finirono per trovare spazio nel testo fondamentale della repubblica italiana, la cui redazione materiale venne affidata, dopo le elezioni del 2 giugno 1946, a una commissione per la Costituzione, meglio nota col nome di “commissione dei 75”, a sua volta suddivisa in tre sottocommissioni sui diritti e doveri dei cittadini, sull’organizzazione costituzionale dello Stato e sui rapporti economici e sociali[1].

L’argomento fece il suo ingresso in commissione sabato 25 gennaio 1947, con il presidente Ruini che informò i presenti di aver officiato il più ristretto comitato di redazione (o “comitato dei 18”, dal numero dei suoi componenti), creato con lo scopo di coordinare e armonizzare i lavori delle sopracitate sottocommissioni, di prendere in esame le disposizioni relative alla tutela della salute e dell’igiene pubblica[2]. Il dibattito avvenne tre giorni più tardi e concernette un emendamento, presentato dagli onorevoli Paolo Rossi e Aldo Moro, sull’obbligatorietà dei trattamenti sanitari e la non ammissibilità di pratiche lesive della dignità umana. Il futuro segretario della Dc, malgrado la contrarietà del comitato di redazione, incline a un rinvio della questione alla legge ordinaria, riteneva la proposta un problema di libertà individuale, che doveva trovare una garanzia effettiva nella Costituzione. Quanto al divieto delle pratiche considerate dannose per la dignità umana, Moro, nel far riferimento ai casi di sterilizzazione, precisava come non si volesse “escludere il consenso del singolo a determinate pratiche sanitarie che si rendessero necessarie in seguito alle sue condizioni di salute, [ma] … soltanto vietare che la legge, per considerazioni di carattere generale e di male intesa tutela degli interessi collettivi, disponga un trattamento del genere”[3].

Del parere opposto erano gli onorevoli Giuseppe Grassi e Tito Nobili, che ritenevano la formula utilizzata dai due colleghi troppo restrittiva, se non addirittura “inutile e assurda”. Essi non respingevano a priori l’esistenza di casi in cui, per ragioni superiori di difesa della sanità collettiva, la legge potesse imporre determinate pratiche sanitarie, che l’emendamento escludeva. Era invece un errore fissare un limite eccessivamente rigoroso al legislatore. Occorreva ammettere delle possibilità di deroga. Messo ai voti, l’emendamento venne approvato, seppur con delle lievi modifiche introdotte dai proponenti, integrando l’articolo 26 (numerazione al momento provvisoria), che sarebbe stato sottoposto all’esame dell’Assemblea costituente in seduta plenaria:

La repubblica tutela la salute, promuove l’igiene e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessun trattamento sanitario può essere reso obbligatorio se non per legge. Sono vietate le pratiche sanitarie lesive della dignità umana[4].

La discussione generale del progetto di Costituzione della repubblica italiana ebbe inizio il 4 marzo 1947. La polemica venne subito accesa da Piero Calamandrei, che contestò la formulazione di quegli articoli sui rapporti etico-sociali, incluso quindi il numero 26, ritenuti nell’immediato inattuabili perché l’Italia, uscita stremata dal secondo conflitto mondiale, non avrebbe potuto tener fede a dei proclami talmente ambiziosi. Meglio sarebbe stato collocarli in un preambolo, “con una dichiarazione esplicita del loro carattere non attuale, ma preparatore del futuro”. Al contrario, il rischio, per il giurista toscano, era di provocare, senza naturalmente la deliberata intenzione, “una forma di sabotaggio della … Costituzione!”[5]. Un aspetto, quello della discrasia fra i principi conclamati nella Carta e la loro concreta applicazione nell’Italia del tempo, sottolineato pure dal vecchio Francesco Saverio Nitti, per cui la repubblica stava facendo promesse che chiaramente non sarebbe mai stata in grado di mantenere[6]. Vittorio Emanuele Orlando spinse le proprie osservazioni più avanti, propugnando addirittura la soppressione dell’intero articolo 26 in quanto esprimeva concetti ormai assodati per i quali potevano ritenersi sufficienti le misure contenute in altre disposizioni costituzionali[7].

Le risposte a Calamandrei, Nitti e al resto degli onorevoli sul punto più diffidenti non tardarono ad arrivare. Se nessuno poteva negare le stretture che comprimevano l’economia nazionale, altrettanto inoppugnabile era la necessità di includere nel testo quelle affermazioni e proiettarle nel futuro, adoperandosi affinché il legislatore potesse un giorno fare onore all’impegno sottoscritto in sede costituente. Un’esigenza dettata dalla convinzione, espressa, tra gli altri, dal cattolico Umberto Tupini e dal socialista Gustavo Ghidini, rispettivamente presidenti della prima e della terza sottocommissione, che l’Italia potesse superare con una relativa celerità le difficoltà del momento. Perché, queste le parole di Ugo Damiani, “se dovessimo pensare a vivere sempre in uno stato di disagio, la disperazione paralizzerebbe tutte le nostre energie”[8].

Nel merito, il dibattito sull’articolo 26 cominciò la mattina del 17 aprile. Dall’analisi dei resoconti parlamentari sembra trovare conferma, sin dalle prime battute, la considerazione di Alberto Mario Cavallotti, giovane medico eletto nelle file del Partito comunista, per cui il tema non suscitò in assemblea grande interesse. Forse perché stretta tra la famiglia e la scuola, tra l’indissolubilità o meno del matrimonio e la contesa sulla scuola statale e parificata, la tutela della salute finì per trovare uno spazio minore rispetto ad altri argomenti. La discussione occupò soltanto parti, e nemmeno tanto lunghe, di tre sedute plenarie e vide gli interventi di figure di secondo piano, in prevalenza appartenenti al gruppo medico parlamentare, costituito fra i 29 professionisti del settore eletti alla Costituente.

Le maggiori perplessità, frutto anche di equivoci, vennero destate dal secondo comma, che proibiva le pratiche sanitarie lesive della dignità umana. Contro la formulazione dell’articolo si scagliò il socialista Michele Giua. Docente di chimica all’Università di Torino, Giua riteneva inammissibile l’inserimento nella Costituzione di una norma simile, che aveva soltanto l’obiettivo di mascherare il divieto alle pratiche abortive. Se realmente la carta costituzionale, vietando le operazioni lesive della dignità della persona, avesse reso illegale l’intervento del chirurgo nel caso dell’aborto “la missione del medico diventerebbe più difficile e probabilmente invece di stabilire … un principio a sostegno della salute del popolo, noi stabiliremmo un principio che con la salute del popolo sarebbe in contrasto”. Il discorso di Giua aveva una valenza generale e mirava senza indugio all’applicazione dei nuovi ritrovati scientifici: “qualsiasi divieto si faccia per l’applicazione delle scienze è un divieto che si pone al progresso; è un arresto alla civiltà”[9].

Nemmeno le precisazioni fornite dal democristiano Corsanego, che si affrettò a spiegare quanto l’uso della dizione facesse soprattutto riferimento alle pratiche di sterilizzazione obbligatoria, largamente imposte agli ebrei nella Germania nazista, sortirono l’effetto di attenuare le resistenze provenienti da non pochi esponenti delle forze progressiste. Per il repubblicano Spallicci la dicitura andava semplicemente omessa. Non c’era alcuna necessità di inserire nella Costituzione un principio, il riferimento all’aborto o alla sterilizzazione era secondario, che andava regolamentato attraverso la legislazione ordinaria[10].

Ancora più dura la posizione di Alberto Mario Cavallotti, che non si limitò a reclamare modifiche al secondo comma, appoggiando la tesi di Spallicci, ma chiese la riscrittura dell’intero articolo, con una più marcata affermazione dell’opera preventiva in difesa della salute e un maggiore coraggio nel garantire le cure gratuite ai lavoratori (e non solo, come diceva il testo uscito dalla commissione, agli indigenti). Il discorso del medico perugino, fatto a nome del Partito comunista, fu piuttosto lungo e correlato da un’ampia panoramica sullo stato della salute pubblica in Italia, nella quale ebbe modo di affrontare il problema del tasso di mortalità infantile e dei malati di tubercolosi, situazioni a suo parere determinate dal basso tenore di vita delle classi lavoratrici e dalla mancanza di adeguate strutture assistenziali e ospedaliere. Il diritto alla salute diventava quindi il più importante di tutti perché, sempre per Cavallotti, investiva una serie di questioni diverse ma interconnesse: economica, sociale, etica e politica. La sua critica finì per concentrarsi sulle contraddizioni del settore sanitario-assistenziale, dove accanto alle istituzioni controllate dallo Stato esisteva una marea di organismi privati, spesso dal carattere religioso, che svolgevano un’attività di tipo benefico e caritatevole: “in regime di liberazione dal bisogno … questa assistenza paternalistica non deve più esistere”. Lo stesso concetto assicurativo conteneva in sé qualcosa di egoistico. La sicurezza sociale della popolazione doveva invece basarsi sul principio della solidarietà, che presupponeva la gratuità delle prestazioni sanitarie. Se si voleva garantire ai lavoratori e alle loro famiglie un servizio degno di un paese civile era essenziale che la sanità pubblica fosse pianificata e organizzata su basi radicalmente nuove, nonché disposta a impiegare gli strumenti messi a disposizione dalla scienza moderna. Malgrado gli esempi portati, dall’esperienza delle nazioni dell’Est a quella inglese e neozelandese, Cavallotti non propendeva per un modello generalizzato di assistenza, quanto piuttosto per un’estensione del sistema assicurativo ai lavoratori indipendenti e alle rispettive famiglie. Il piano Beveridge aveva numerosi aspetti condivisibili, ma le condizioni dell’Italia del tempo erano molto differenti e non consentivano l’applicazione di soluzioni similari[11].

I dubbi sull’articolo 26 erano tuttavia trasversali. In sede di esame degli emendamenti, iniziato il 24 aprile, fu un gruppo di deputati democristiani a presentare la richiesta di soppressione della norma. A loro modo di vedere il testo in discussione non era contraddistinto da alcuna originalità. Nessun diritto sociale o di libertà vi era affermato. Anzi, in Italia, pur nei limiti di bilancio “è sempre stata tutelata la salute e … promossa l’igiene”[12]. L’esatto contrario del pensiero del socialista Mario Merighi, che considerava a pieno titolo l’articolo 26 un diritto sociale, un requisito essenziale per la libertà dell’individuo. Che si dovesse affidare allo Stato, nei suoi organi centrali e periferici, il compito di garantire la salute delle persone, eliminando le dolorose disuguaglianze ancora esistenti fra i cittadini e la già citata confusione nel settore, era un intento molto sentito in numerosi scranni dell’emiciclo parlamentare, ma non tutti lo declinavano nell’identica maniera.

Nel complesso, gli emendamenti presentati in assemblea spaziavano dall’introduzione di qualche modifica formale al testo alla riproposizione di questioni già dibattute in sede di commissione. Un significato particolare, tanto da condizionare negli anni a venire il dibattito politico sulla sanità pubblica in Italia, venne assunto dall’esigenza di costituire un organismo centrale, autonomo e distinto dalle altre amministrazioni dello Stato, con il fine di superare la dispersione di risorse e mezzi e le molteplici interferenze in campo sanitario. Insomma, un ministero della Sanità, che favorisse un maggiore coordinamento e unitarietà di indirizzo in materia. A tal proposito, Giuseppe Caronia, medico democristiano, rilevava l’incompetenza del ministero dell’Interno, dove era concentrata buona parte dell’amministrazione sanitaria in Italia, e, sul territorio provinciale, del prefetto.

L’accenno al divieto di pratiche lesive della dignità individuale portò il cattolico Beniamino De Maria ad allargare il discorso sino a comprendere il problema della prostituzione. L’espressione inclusa nel progetto di Costituzione sarebbe rimasta inefficace se non fosse stata accompagnata dalla cancellazione di un fenomeno che costituiva “la più grave menomazione della persona umana”. Per De Maria, sul piano sociale, la prostituzione costituiva uno dei più tragici e desolanti aspetti della vita sessuale collettiva e dava luogo a un vasto e sterminato campo di infinite miserie, mentre su quello sanitario il rischio era rappresentato da un aumento e dalla diffusione delle malattie veneree. Il fatto che la prostituzione fosse vietata nella maggior parte dei paesi europei rafforzava nell’esponente democristiano la convinzione di combattere una “piaga sociale”, un marchio che inquinava il carattere morale della vita del popolo italiano[13].

Non avendo avuto il tempo di consultarsi in ordine ai vari emendamenti all’articolo 26, la commissione decise di mantenere il testo originario, lasciando all’Assemblea libertà di manovra nei confronti degli stessi. Così, al termine di una discussione non troppo lunga e senza eccessivi attriti, l’assemblea approvò, con alcune modifiche proposte soprattutto dall’onorevole Caronia, l’articolo, poi rivisto nella forma dal comitato di redazione prima della votazione finale nel dicembre 1947:

La repubblica tutela la salute come un fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana[14].

Il Consiglio e l’Istituto superiore di sanità

A poche settimane dallo svolgimento delle elezioni politiche del 1948, il vecchio socialista Ludovico D’Aragona rese pubblico il risultato dei lavori della commissione per la riforma della previdenza sociale, istituita presso il ministero del Lavoro nella primavera dell’anno precedente e di cui lo stesso D’Aragona era presidente. Il documento finale, composto da 88 mozioni, auspicava una rivisitazione del sistema previdenziale di stampo tendenzialmente universalista, con la progressiva unificazione dei numerosi enti creati durante il fascismo. Alla sanità venne dedicata l’attenzione di una sottocommissione, che invitava a estendere l’assicurazione di malattia a tutti i lavoratori, dipendenti e autonomi, e le prestazioni sanitarie ai familiari delle persone assicurate e ai pensionati. Si trattava di un piano molto ambizioso, malgrado escludesse quelle categorie di cittadini, disoccupati e sottoccupati, che forse più avevano bisogno di un simile intervento (Illuminati 1970, 28). Purtroppo il conflitto fra le varie anime del mondo del lavoro e la svolta centrista intrapresa dall’Italia in seguito alla consultazione del 18 aprile, con il durissimo scontro tra Dc e socialcomunisti, influirono in maniera negativa sulle possibilità di applicazione della riforma, dirottandone i contenuti su un binario morto.

La commissione D’Aragona costituì uno spartiacque molto importante nel processo di sviluppo della sanità italiana. Posta di fronte a un bivio tra una radicale modifica organizzativa e l’estensione dell’area di intervento della mutualità, la Democrazia cristiana, di gran lunga il partito con le maggiori responsabilità di governo, decise di optare per la seconda soluzione. Il partito di De Gasperi mostrò, del resto, sempre una certa ritrosia verso la completa nazionalizzazione dei servizi sanitari, testimoniata da alcune reazioni comparse sulla stampa al National Health Service Act. Esse cercavano soprattutto di rimarcare la differente impostazione che l’opposizione conservatrice, se al governo, avrebbe dato alla riforma: “I conservatori … avrebbero cercato di salvare il salvabile della libera e individuale iniziativa” (Bondioli 1950). Sull’evoluzione del sistema sanitario italiano pesarono pure forti e cristallizzati interessi particolaristici e le notevoli difficoltà economiche del dopoguerra. Ezio Vigorelli, esponente socialdemocratico per anni in prima linea nella battaglia per l’instaurazione di un sistema di welfare in Italia, considerava pressoché impossibile l’importazione tout court del modello inglese (questo non escludeva misure, peraltro mai approvate, che andassero in quella direzione). L’intervento del legislatore venne così indirizzato verso soluzioni circoscritte e dall’impronta non di rado emergenziale. Mancò un progetto complessivo di riforma, che almeno riducesse la disorganicità della macchina mutualistica e la natura dispersiva di molte prestazioni assistenziali (Luzzi 2004, 134-140). Sebbene la relazione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria parli di “un fervore di riforme anche nel campo dell’igiene e della sanità pubblica … dopo il 1945” (Ferri 1953, 182), le esigenze di una moderna salvaguardia della salute vennero sacrificate, privilegiando un sistema ispirato a criteri di semplice assicurazione di malattia, nel solco della vecchia mutualità, con il diritto alla tutela della salute che restò correlato non all’essere cittadino, ma alla capacità lavorativa della singola persona (Cosmacini 1994, 113).

L’attenzione del governo si concentrò in prevalenza su alcuni provvedimenti legati da un lato alla governance sanitaria e dall’altro alla risoluzione dei bisogni più immediati sul fronte dell’igiene e della salute pubblica. In relazione all’assetto amministrativo del settore, oggetto dei provvedimenti dell’esecutivo furono il Consiglio superiore di sanità e l’Istituto superiore di santità, due organismi all’apparenza analoghi, ma dotati di competenze differenti. Mentre il primo, istituito con la legge 20 marzo 1865, era un soggetto di natura tecnica e consultiva, con responsabilità di vigilanza sulle pratiche mediche e farmaceutiche, il secondo, di più recente data, essendo nato nel 1936, era un ente di diritto pubblico, contraddistinto da una fisionomia marcatamente scientifica per le sue funzioni di ricerca e sperimentazione nel campo della sanità pubblica.

Urgente appariva soprattutto la ricostituzione del Consiglio superiore di sanità, a quasi quattro anni dalla conclusione del conflitto, che ne aveva interrotto l’attività. Infatti, il decreto 30 ottobre 1943, n. 2/B aveva sospeso l’applicazione delle norme richiedenti il parere di organi consultivi e tecnici finalizzati all’emanazione di provvedimenti legislativi. Per ovviare a questo inconveniente il decreto luogotenenziale 22 marzo 1945, n. 136 aveva costituito una commissione centrale di sanità, peraltro mai entrata in funzione, con le medesime attribuzioni affidate, dalla legge e dai regolamenti vigenti, al Consiglio superiore di sanità. Di fronte, quindi, alla mancanza di un organo da affiancare all’azione dell’Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi decise di presentare in Senato, il 2 agosto 1948, un disegno di legge che prevedeva la ripresa dell’attività del Consiglio superiore di sanità, di cui modificava la composizione dopo i lunghi anni della dittatura. Due erano i criteri che animavano l’iniziativa: ricondurre il collegio alle caratteristiche prevalentemente sanitarie, evitando, com’era successo con il passare del tempo, di inserire troppi elementi non di natura tecnica e mantenere la tradizionale prevalenza della medicina preventiva su quella curativa, in linea con le esigenze funzionali del Consiglio, chiamato a esprimere pareri in prevalenza su progetti e opere igienico-sanitari[15].

L’avvio della discussione del provvedimento, il 30 settembre 1948 presso la commissione Igiene e Sanità di palazzo Madama, mise in evidenza in maniera piuttosto palese le ragioni del ritardo nell’approvazione di una simile misura. Il dibattito venne monopolizzato dalle polemiche sulle modalità di composizione del consesso, con i senatori che si confrontarono attorno all’opportunità di inserire questa o quella categoria professionale. La controversia sulla fisionomia da assegnare al Consiglio superiore di sanità mal celava il tentativo di allargare la sfera d’influenza, e di conseguenza il potere politico, dei vari ordini professionali, attraverso l’operato parlamentare di quei rappresentanti che finirono per diventare quasi dei veri e propri portavoce di precise istanze corporative, a partire da quella medica. Non furono quindi una sorpresa le dimensioni che assunse l’organo al termine della discussione al Senato: 52 membri complessivi, di cui 22 specialisti (14 i dottori di medicina e chirurgia), 4 rappresentanti delle organizzazioni professionali e 26 di amministrazioni, enti e istituti[16].

Il testo venne trasmesso all’XI commissione Lavoro e Previdenza sociale della Camera nel gennaio successivo e il relatore Zaccagnini, nel raccomandarne ai colleghi l’approvazione senza introdurre alcuna modifica, vista l’urgenza del provvedimento, toccò un altro dei punti nodali della questione. Proprio l’impellente necessità della misura, rendeva, a suo parere, impossibile introdurre in campo sanitario una riforma radicale, che avrebbe richiesto un lasso di tempo troppo ampio, incompatibile con le scadenze del disegno di legge in discussione. Eppure non tutti concordavano con la fretta invocata dall’esponente democristiano:

mi pare che questa esigenza di decisione rapida non ci sia. L’Alto commissariato per la sanità è andato avanti per questi quattro anni senza il Consiglio; e se dovesse procedere così ancora per pochi mesi non sarebbe un gran danno[17].

Queste le parole del socialista Nicola Perrotti, già alto commissario per l’igiene e la sanità pubblica fra il febbraio 1947 e il maggio 1948. Nel complesso, erano le sinistre a chiedere un allungamento dei tempi del dibattito per consentire un riordino delle funzioni del Consiglio e una diversa modalità di designazione dei rappresentanti. Dal loro punto di vista, la proposta governativa mostrava troppe similitudini con il sistema precedente, senza mutarne lo spirito. Per allontanarsi in maniera netta dalla legge del 1934 bisognava, in primo luogo, scardinare il principio che prevedeva una nomina dei membri calata dall’alto, cioè attraverso un decreto del presidente della Repubblica dietro proposta del presidente del Consiglio. La maggior parte dei componenti doveva essere eletta dalle rispettive organizzazioni professionali, così da permettere la diretta partecipazione alla vita dell’Alto commissariato e un ordinamento più democratico di quest’ultimo. Osservazioni di tal natura non erano però riserva esclusiva delle opposizioni. Esse fecero breccia pure in alcuni esponenti della maggioranza, come il democristiano Giuseppe Caronia, che preferiva anticipare alla questione una complessiva revisione dei compiti del Consiglio superiore di sanità, finendo per appoggiare la richiesta di sospensiva dell’esame del disegno di legge presentata da Perrotti. Per il governo concentrare l’attenzione sulle funzioni dell’organo consultivo, ritardando l’approvazione del provvedimento, avrebbe, nei fatti, condotto a una riforma sanitaria, che, al momento, non appariva opportuna. In tal senso, molto esplicite fu la dichiarazione dell’alto commissario Mario Cotellessa:

una regolamentazione delle funzioni del Consiglio superiore della sanità porterebbe a una riforma, che non mi sembra possa essere considerata oggi, in sede di discussione del presente disegno di legge[18].

L’istanza di Perrotti venne quindi rigettata dalla commissione, che poté passare alla discussione degli articoli, accantonando l’ipotesi di una, peraltro velleitaria e remota, riforma del settore, che riservò a Zaccagnini e Cotellessa la sorpresa di un testo emendato rispetto a quello giunto dal Senato della repubblica. La variazione più importante riguardava il numero dei medici condotti, elevati da uno a quattro[19]. Sul punto però il secondo passaggio a palazzo Madama registrò la netta contrarietà dei senatori. L’aumento dei medici condotti venne infatti giudicato un errore. Non si capivano le ragioni per cui questa categoria dovesse avere una rappresentanza superiore alle altre. La necessità di porvi rimedio era amplificata dal fatto che, per molti, quella di Montecitorio era stata una decisione affrettata e poco ponderata. Alla fine, prevalse una soluzione mediana, che non sconfessava interamente l’operato dei deputati, ma ne correggeva il tiro, riducendo a due i delegati dei medici condotti[20]. La misura venne confermata dalla Camera nella seduta-lampo dell’11 marzo 1949, dove si levarono le lamentele di Perrotti, Cucchi (Pci) e Cornia (Psli), che criticarono la mancanza di democraticità del provvedimento, rinnovando il voto contrario delle rispettive formazioni politiche[21].

Che la partita sulla composizione del Consiglio superiore di sanità non fosse terminata lo si capì quando De Gasperi presentò in Parlamento, nella primavera del 1952, altri due ddl di revisione della legge 21 marzo 1949, n. 101. Più del provvedimento n. 2606, che prevedeva l’inclusione del direttore generale dell’edilizia statale e convenzionata, come una delle conseguenze del decentramento delle attribuzioni consultive spettanti all’Amministrazione sanitaria in materia di opere pubbliche di carattere igienico[22], assumeva una certa rilevanza il disegno di legge n. 2381, che implementava il Consiglio con altri tre elementi: un dottore in veterinaria, un direttore di macello di grande centro e il capo del servizio veterinario dell’Esercito[23]. Anzi, durante la discussione in aula venne accetta la proposta di elevare ulteriormente il numero dei componenti, portando a due i rappresentanti dei direttori di farmacia e dei dottori in chimica. Entrambe le iniziative furono approvate pressoché senza opposizione. Alla Camera il solito Perrotti colse l’occasione per ricordare la necessità di una maggiore investitura democratica dei membri e di una più vasta riforma del settore, ma, questa volta, decise di associarsi al voto del resto dei deputati[24]. Il Consiglio superiore di sanità lievitò, pertanto, dai 54 componenti del 1949 sino a 60, equamente distribuiti nelle tre sezioni in cui era suddiviso lo stesso.

Diverso il discorso per l’Istituto superiore di sanità, che, seppur condizionato dagli eventi militari, continuò a funzionare anche durante gli anni del conflitto. Il provvedimento, presentato dal capo del governo e dal ministro del Tesoro Vanoni, mirava a completare l’ordinamento dell’istituto, ancora vincolato alle disposizioni contenute nel decreto 17 ottobre 1941, n. 1265. In particolare, si prevedeva la formazione di un comitato amministrativo e uno scientifico della durata ciascuno di un triennio e nominati dal presidente del Consiglio su proposta dell’alto commissario per l’igiene e la sanità pubblica. Proprio il passaggio alle dipendenze di quest’ultimo dell’istituto costituiva uno degli aspetti più significativi del ddl, in coerenza con il trasferimento dei servizi sanitari dal ministero dell’Interno all’Alto commissariato, attuato dai decreti luogotenenziali n. 417 e 446 del 1945.

Il provvedimento venne inizialmente esaminato dall’XI commissione Igiene e Sanità del Senato. Essa stilò una relazione, redatta materialmente dai democristiani Caporali e De Bosio, dalla quale emerse un giudizio molto lusinghiero sull’attività della struttura diretta dal prof. Domenico Marotta. Fu per il rilievo attribuito all’opera dell’istituto, che il dibattito del disegno di legge venne spostato in assemblea[25]. Una semplice approvazione in commissione in sede legislativa appariva troppo riduttiva per una misura del genere. Per la verità, un’autentica discussione non ci fu. Ciò che contava era il formale passaggio in aula. Il ddl trovò infatti un’accoglienza positiva, tanto da venir ratificato all’unanimità nella seduta del 29 aprile 1952[26].

Qualche osservazione venne invece mossa dall’altro ramo del Parlamento, e precisamente dalla commissione Affari interni, riunitasi il 6 giugno 1952. Alle parole del relatore Riva seguirono le dichiarazioni di alcuni deputati, che espressero delle preoccupazioni in merito alla composizione dei comitati, al regime dei controlli, alla scelta di creare una commissione di disciplina per il personale, ecc. Tuttavia, a parte quattro voti contrari, la grande maggioranza dei presenti accolse l’invito di Riva e dell’alto commissario per l’igiene e la sanità pubblica Giovanni Battista Migliori di approvare il provvedimento nella medesima forma in cui era stato ricevuto dal Senato[27].

Più interessanti appaiono invece le osservazioni mosse al disegno di legge n. 1517, depositato in Parlamento nei mesi precedenti, che assegnava 350 milioni di lire all’Istituto superiore di sanità per il completamento dello stabilimento finalizzato alla produzione su scala industriale della penicillina. Nel gennaio 1947 era stato attribuito all’Italia, dal governo Usa e tramite i fondi Unrra, un contributo dell’identico importo per l’installazione dell’impianto. La costruzione dell’edificio e dei relativi servizi accessori avevano reso necessario lo stanziamento di un ulteriore concorso finanziario, questa volta interamente a carico dello stato italiano (Taroni 2014, 639-662). Ecco allora il motivo del ddl firmato da De Gasperi e dal ministro del Tesoro Pella, illustrato alla commissione Igiene e Sanità del Senato da Francesco De Bosio il 22 febbraio 1951. E fu proprio palazzo Madama il luogo in cui venne concentrata la discussione. Pur senza contestare l’entità dello stanziamento, diversi senatori, quasi tutti medici chirurghi e/o docenti universitari, chiesero ulteriori delucidazioni sull’ultimazione dei lavori, sulla tipologia degli impianti e, in generale, sull’attività svolta dall’istituto. Si trattava di capire meglio come sarebbero stati spesi questi soldi. A tal proposito, il socialista Pieraccini, in uno vivace scambio di battute con l’alto commissario aggiunto per l’igiene e la sanità pubblica Aldo Spallicci, chiese un rinvio del dibattito per consentire alla commissione di visitare gli stabilimenti e vedere sul posto lo stato di avanzamento delle opere[28].

L’aspetto centrale della questione era però un altro. Le sinistre, tranne alcune eccezioni individuali, decisero di sostenere il provvedimento non solo per evidenti ragioni di natura scientifica e per gli scopi assistenziali ad esso legati, ma anche perché vedevano l’applicazione, sia pure a titolo sperimentale di impianto-pilota, di un principio fondamentale, quello della produzione diretta e controllata di penicillina da parte dello Stato. Numerosi furono gli interventi di esponenti comunisti e socialisti volti a rivendicare, e in talune circostanze a enfatizzare, questo elemento, che avrebbe potuto, sempre dal loro punto di vista, svolgere una funzione calmieratrice sul mercato nazionale della penicillina. Da qui a prospettare il compito per lo Stato di produrre medicinali in genere il passo fu breve. Dovette allora intervenire la Democrazia cristiana ad arrestare queste improbabili, se non illusionistiche, fughe in avanti, riportando le sinistre nell’alveo del ddl governativo. Sgomberato il campo dagli equivoci, De Bosio ricordò ai colleghi il carattere di “eccezionale urgenza” rivestito dal disegno di legge e la necessità di una sua rapida approvazione, cosa che avvenne a larga maggioranza e dopo aver respinto la proposta di sospensiva di Pieraccini[29].

Alla Camera, invece, non ci fu praticamente dibattito. Giusto il tempo di consentire al relatore Bartole di esporre, durante la seduta del 14 marzo 1951 della commissione Igiene e Sanità, i punti qualificanti del provvedimento, compresa la stima, una volta completati i lavori, sulla produzione giornaliera di penicillina e sulla durata del ciclo produttivo, e di ottenere il sostegno dell’alto commissario Cotellessa. Alla fine, il ddl ricevette l’unanimità dei consensi, diventando la legge 29 marzo 1951, n. 289[30].

Un quadro immutato

Il ristretto raggio di azione del governo nell’ambito della sanità pubblica trova conferma se spostiamo l’attenzione ai problemi quotidiani della popolazione. L’assenza di un disegno globale di riforma indirizzò la maggioranza centrista verso l’approvazione di misure secondarie e tampone rispetto alle emergenze del momento. Entrano in questa categoria lo stanziamento di 450 milioni di lire per la cura e l’assistenza ai poliomelitici, l’utilizzo di fondi Erp, quasi 4,5 miliardi, in attività interessanti la lotta antimalarica in Sardegna, la concessione di un miliardo per l’esecuzione di lavori di ripristino e integrazione delle attrezzatura tecniche degli istituti specializzati nella cura dei tubercolotici, ecc.

Proprio la tubercolosi costituiva un’epidemia ancora pericolosa, non tanto sul piano della mortalità, fortunatamente regredita a valori molto simili al periodo prebellico, quanto sul fronte della morbilità, che manteneva indici piuttosto elevati e preoccupanti. La malattia, nonostante l’uso degli antibiotici, non aveva smesso di manifestarsi come un flagello sociale, raggiungendo proporzioni endemiche soprattutto tra la popolazione meno abbiente e infantile.

Furono queste le ragioni di fondo che spinsero alcune deputate comuniste, affiancate dalle socialiste Giuliana Nenni e Rosa Fazio Longo, e un gruppo di esponenti democristiani a depositare alla Camera, a distanza di tre anni l’una dall’altra, due proposte di legge per la protezione della popolazione scolastica, considerata la più esposta alla tubercolosi, con percentuali di contagio di poco inferiori a quelle riscontrate fra i giovani lavoratori. In effetti, la legislazione italiana era contraddistinta da una carenza di misure generali nel campo della profilassi della tubercolosi, specie nei confronti degli scolari. Non erano previste disposizioni volte a eludere l’insorgere della malattia o almeno a garantire la sicurezza personale a chi era immune. Esisteva soltanto una copertura assicurativa contro il rischio della tubercolosi, circoscritta ai maestri e ai direttori delle scuole elementari e operativa al manifestarsi della patologia.

Le due iniziative, accompagnate da un considerevole numero di interrogazioni e interpellanze sull’argomento, avevano diversi punti di contatto, a cominciare dai riferimenti costituzionali, per entrambe quell’articolo 32 che affidava alla repubblica il compito di tutelare la salute, considerata un diritto fondamentale dell’individuo e della collettività. Comune era l’intento di instaurare una norma protettiva che, oltre ad accertare lo stato di salute di ogni insegnante e scolaro, separasse i sani dai malati, isolando i punti di contagio con accertamenti continui e regolari. La proposta delle sinistre, impegnate nel sottolineare il dovere dello Stato di proteggere la salute degli alunni e dei maestri, regolamentava però la materia in modo più organico e definitivo. Tra le differenze, un trattamento economico, per chi risultava affetto da tubercolosi, che poteva essere erogato per un anno (e corrispondente all’intera retribuzione nei primi sei mesi e al 50% in quelli successivi) contro i sei mesi massimi previsti dal progetto democristiano[31]. Malgrado un concorso finanziario statale dall’entità non certo notevole, le due proposte di legge rimasero ferme presso la commissione Lavoro e Sanità della Camera. Per Luciana Viviani solo la soddisfazione di svolgere la relazione in assemblea durante la seduta pomeridiana del 1° aprile 1952[32].

Identica sorte subirono altre proposte di legge. Fra queste, l’iniziativa della senatrice socialista Giuseppina Palumbo, che avanzò l’idea di istituire in ogni comune o consorzio di comuni un servizio di assistenti sanitarie visitatrici con il compito di accertare, mediante lo strumento della visita domiciliare, le condizioni ambientali delle persone bisognose e organizzare le relative operazioni assistenziali, i controlli e gli interventi profilattici, nonché di svolgere azione educativa e divulgatrice delle fondamentali norme igieniche. La figura dell’assistente sanitaria visitatrice esisteva in Italia dal 1919 e sebbene avesse avuto un certo sviluppo nell’ultimo decennio, la sua presenza sul territorio nazionale contava meno di 3.300 unità, in buona parte concentrate nei grandi agglomerati urbani e con un’attività rivolta a tutti i rami delle istituzioni a carattere igienico-sanitarie. Diventava allora prioritario incrementarne il numero e veicolarne l’operato verso quel servizio di zona che “si è subito rilevato e si va più affermando come il servizio tipico dell’A.S.V. quello che meglio interpreta e traduce in atto l’essenza della sua funzione”. Era importante che un simile sistema si allargasse soprattutto ai centri minori e alle aree più depresse dell’Italia meridionale e insulare. La proposta di legge aveva però l’obiettivo di andare oltre la semplice estensione territoriale del servizio. Se la salute dei popoli, nelle parole di Giuseppina Palumbo, era “una condizione fondamentale per il loro sviluppo e il civile progresso”, a pieno titolo l’assistente sanitaria visitatrice di zona doveva essere considerata “un incaricato di pubblico servizio” ai sensi dell’art. 359 del codice penale. Certo, la stessa Palumbo era perfettamente consapevole dei limiti di un progetto che non aveva evidenti ambizioni riformatrici, ma voleva soltanto fornire un contributo affinché le disposizioni costituzionali potessero diventare una realtà concreta, assicurando una capillare tutela della salute pubblica[33].

Fine, quest’ultimo, che si proponevano Maria Maddalena Rossi e Mary Tibaldi Chiesa, prime firmatarie dei pdl n. 715 e n. 1000, depositati alla Camera fra il luglio e il dicembre 1949. La deputata comunista concentrava l’attenzione sulla salvaguardia della salute delle madri, da realizzare attraverso sia l’istituzione di un servizio di vigilanza ostetrica presso gli uffici sanitari provinciali sia l’introduzione di nuove tecniche mediche, a partire dal cosiddetto “parto indolore”, che consisteva nel somministrare un analgesico alle donne per permettere loro di dare alla luce il figlio in condizioni di massima serenità, evitando le frequenti difficoltà fisiche e psichiche legate a quel delicato momento. La repubblicana Tibaldi Chiesa intendeva, invece, riprodurre in Italia l’esperienza dei consultori prematrimoniali vigente in alcuni paesi europei. L’idea era quella di promuovere una forma di profilassi, volontaria, gratuita e segreta, per le giovani coppie, nell’ottica di una migliore coscienza delle norme igienico-sanitarie e una crescita serena della comunità familiare, adeguatamente posta al riparo dalle malattie infettive ed ereditarie più note[34] (si veda anche: Minesso 2016, 104-108).

Ma la più interessante era l’iniziativa presentata da un drappello di onorevoli comunisti e socialisti, volta a estendere l’assistenza sanitaria a una vasta platea di bisognosi. A sovrintendere l’intero progetto stavano, anche qui, gli articoli 32 e 38 della Costituzione, dai quali veniva fatto discendere il diritto all’assistenza per i meno abbienti. Secondo i proponenti, l’impossibilità per il bilancio italiano di supportare una riforma che applicasse alla popolazione un’assicurazione generale contro le malattie non poteva paralizzare ogni azione in questo campo. Anzi, ciò doveva imporre l’adozione di misure transitorie, capaci di affrontare le punte più acute del problema. Sul fronte delle prestazioni sanitarie gratuite, la cui gestione era affidata in piena autonomia ai Comuni, il progetto di legge prevedeva un allargamento della cerchia dei beneficiari sino a comprendere altri 5 milioni di cittadini. La cifra si ricavava da una delimitazione dei criteri attraverso i quali le persone venivano ammesse a questa forma di assistenza e che prevedevano un reddito annuo complessivo inferiore a 240.000 lire, elevato di 50.000 lire per ogni componente della famiglia, moglie compresa.

Un ulteriore aspetto della proposta era l’introduzione di un onere contributivo per lo Stato. Si trattava di un importo modesto, circa 16 miliardi, equivalente a un terzo dell’impegno finanziario a carico dei Comuni e inferiore rispetto a molti paesi europei. Se si considerava l’assistenza sanitaria come un servizio sociale, il costo sarebbe dovuto gravare quasi interamente sulle casse statali. Tuttavia, la preoccupazione dei proponenti era di realizzare pienamente le misure avanzate e, per fare questo, acconsentirono rimanesse sulle spalle dei Comuni, almeno quelli non in deficit di bilancio, una consistente fetta della spesa. Per compensare una simile situazione, i senatori firmatari inserirono nel testo una serie di disposizioni per rendere più economico il servizio e la sua gestione[35].

Garantita l’assistenza sanitaria ai ceti meno abbienti, rimaneva un ampio settore di cittadini che, pur superando i limiti di reddito sopra citati, avevano cespiti estremamente modesti ovvero inferiori, o al massimo coincidenti, con il minimo vitale. La situazione della finanza pubblica non consentiva di elevare le soglie di reddito fissate, alfine di comprendere queste categorie nell’assistenza sanitaria gratuita, né le condizioni economiche delle stesse permettevano di assoggettarle a una normale contribuzione per l’assicurazione contro le malattie. Gli esponenti comunisti e socialisti trovarono allora la soluzione nell’istituzione di una forma di assicurazione facoltativa contro le malattie, alla quale sarebbero stati ammessi i cittadini che si trovavano entro una determinata fascia di reddito. A carico dello Stato veniva posta una parte dei contributi, che per gli assicurati ammontavano all’1,5% sul totale del reddito, mentre l’amministrazione era affidata all’Inam tramite un’apposita gestione separata. Dai calcoli effettuati, la platea coinvolta dal provvedimento si aggirava attorno ai 6,5 milioni di cittadini, con un esborso statale di 16 miliardi.

Nel complesso, la proposta interessava 11,5 milioni di persone e portava ad oltre 31 milioni i componenti di nuclei familiari coperti da una forma di assistenza sanitaria. Essa non esauriva il problema, ma tracciava alcune importanti direttive. All’entrata in vigore della legge l’esecutivo avrebbe inoltre dovuto predisporre un piano per la costruzione di nuovi ospedali e per l’ammodernamento di quelli esistenti, nel tentativo di raggiungere, in ogni provincia, un rapporto di almeno 6 posti-letto per ogni 1.000 abitanti.

La conclusione della prima Legislatura repubblicana però spense le già remote probabilità di approvazione dell’iniziativa parlamentare, palesando le debolezze del sistema sanitario italiano e la sua lontananza dalle originali esperienze di welfare continentali. Se la Gran Bretagna, i paesi scandinavi ed altri dell’Europa occidentale potevano vantare, seppur con modalità differenti, percentuali molto alte di copertura della popolazione dal rischio di malattia, in Italia, tra assicurati e iscritti agli elenchi dei poveri, si raggiungeva una cifra di poco superiore ai 23 milioni di persone, pari al 49,8% dei residenti sul territorio nazionale. Il sistema vigente escludeva pertanto da qualunque prestazione sanitaria la maggioranza della popolazione: artigiani, professionisti, piccoli proprietari agricoli e commercianti, parte dei pensionati e dei disoccupati. L’assistenza elargita dagli istituti assicurativi variava notevolmente per la forma, la durata e l’intensità. Nelle stesse categorie di assicurati e dei loro familiari esistevano non poche difformità. Ancora più gravi erano le carenze del servizio sanitario fornito dai Comuni. Molto era infatti lasciato alla discrezionalità delle singole amministrazioni locali, che avevano ampia libertà nella scelta dei criteri da adottare per stabilire i destinatari delle prestazioni. Per la verità, a causa delle rilevanti difficoltà finanziarie, i Comuni erano costretti a ridurre al minimo il numero dei beneficiari e il volume dell’assistenza, spesso circoscritta alla generica. L’assistenza sanitaria non era soltanto insufficiente, ma aveva registrato una progressiva contrazione con il trascorrere del tempo, passando dai 4,5 milioni di iscritti negli elenchi dei poveri del 1932 ai 3,7 milioni del 1945. Per non parlare degli ospedali generali, gestiti in buona parte dai Comuni e dalle opere pie, alla prese con la cronica mancanza di posti-letto, soprattutto nel Meridione e nelle isole[36].

Tutti limiti evidenziati dagli atti della commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria, pubblicati all’inizio della seconda legislatura repubblicana. La relazione redatta dal segretario della Camera dei deputati Paolo Ferri, per restare all’ambito locale, sottolineava la mancanza per molti Comuni e Province di un aggiornato regolamento sanitario, che andava di pari passo con l’assenza di un regolamento generale sanitario a livello nazionale. I pochi ritocchi subiti dal testo unico del 1934 riguardavano l’ordinamento e le attribuzioni dell’amministrazione sanitaria, specie degli uffici che esercitavano la propria attività, al centro e alla periferia, con estrema lentezza e farraginosità (Ferri 1953, 192). Nelle parole di Ferri, ciò doveva condurre a un deciso intervento dello Stato per aggiornare la legislazione sanitaria e adeguarla alle disposizioni contenute nell’art. 32 della Costituzione. Niente di nuovo quindi rispetto alla maggioranza dei discorsi che alimentavano il dibattito politico in materia. L’estensore del rapporto non faceva alcun riferimento alla possibilità, anche futuribile e adeguatamente calata nel contesto della realtà italiana, di realizzare un moderno sistema sanitario nazionale. Parlava solo di un ordinamento da modificare secondo “una sempre più perfetta e duttile rispondenza dei suoi servizi alle reali e più urgenti necessità di tutte le categorie sociali della popolazione” (Ferri 1953, 193).

Leggermente più ambizioso, invece, il risultato a cui era giunta, circa due anni prima, un’apposita commissione interna all’Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica nominata con lo scopo di studiare delle proposte di riforma. Accanto a osservazioni di carattere generale sugli aiuti finanziari alle zone meno privilegiate, sul personale e la sua preparazione, il documento finale riproponeva l’istituzione di un ministero della Sanità, che assicurasse l’unità di indirizzo e il giusto sviluppo dei servizi igienico-sanitari del paese (Ferri 1953, 192-193). Un orizzonte verso il quale spingeva ormai da tempo la classe medica, che imputava gran parte delle sofferenze del settore alla mancanza di un simile organismo (Bonanno 1948, Maccolini 1948, Galimberti 1950). Il traguardo verrà tagliato qualche anno più tardi, nel marzo 1958, e costituirà soltanto una tappa, seppur importante, del lungo e faticoso cammino di ammodernamento del sistema sanitario italiano.

 

Biografia

Massimiliano Paniga è assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Milano. Si occupa di storia contemporanea e di storia delle istituzioni ed è autore di diverse pubblicazioni in tema di welfare ed enti locali. Di recente, ha pubblicato: Mario Berlinguer. Avvocato, magistrato e politico nell’Italia del Novecento, Milano, Franco Angeli, 2017.

Biography

 Massimiliano Paniga is a post-doctoral researcher at the University of Studies of Milan. He deals with contemporary history and history of institutions and he’s the author of several publications on the Welfare state and local authorities. He has recently published: Mario Berlinguer. Avvocato, magistrato e politico nell’Italia del Novecento, Milan, Franco Angeli, 2017.

 

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[1]. Archivio storico della Camera dei deputati, archivi della transizione, Assemblea costituente, commissione per la Costituzione, segreteria della commissione, norme interne per il funzionamento della commissione, b. 72.

[2]. Atti parlamentari (d’ora in avanti, Ap), Assemblea costituente, commissione per la Costituzione, seduta plenaria del 25 gennaio 1947.

[3]. Ap, Assemblea costituente, commissione per la Costituzione, seduta plenaria del 28 gennaio 1947.

[4]. Ibidem.

[5]. Ap, Assemblea costituente, discussioni, seduta del 4 marzo 1947.

[6]. Ap, Assemblea costituente, discussioni, seduta del 19 aprile 1947.

[7]. Ap, Assemblea costituente, discussioni, seduta del 23 aprile 1947.

[8]. Ap, Assemblea costituente, discussioni, sedute del 5 e dell’8 marzo 1947.

[9]. Ap, Assemblea costituente, discussioni, seduta del 17 aprile 1947.

[10]. Ap, Assemblea costituente, discussioni, seduta del 21 aprile 1947.

[11]. Ap, Assemblea costituente, discussioni, seduta del 22 aprile 1947.

[12]. Ap, Assemblea costituente, discussioni, seduta del 24 aprile 1947.

[13]. Ibidem.

[14]. Ibidem.

[15]. Ap, Senato della repubblica, I legislatura, disegni di legge e relazioni, doc. n. 48.

[16]. Ap, Senato della repubblica, I legislatura, XI commissione Igiene e Sanità, seduta del 30 settembre 1948.

[17]. Ap, Camera dei deputati, I legislatura, XI commissione Lavoro e Previdenza sociale, seduta del 19 gennaio 1949.

[18]. Ap, Camera dei deputati, I legislatura, XI commissione Lavoro e Previdenza sociale, seduta del 19 gennaio 1949.

[19]. Ibidem.

[20] Ap, Senato della repubblica, I legislatura, XI commissione Igiene e Sanità, seduta del 4 febbraio 1949.

[21]. Ap, Camera dei deputati, I legislatura, XI commissione Lavoro e Previdenza sociale, seduta dell’11 marzo 1949.

[22]. Ap, Camera dei deputati, I legislatura, disegni di legge e relazioni, doc. n. 2606.

[23]. Ap, Senato della repubblica, I legislatura, disegni di legge e relazioni, doc. n. 2381.

[24]. Ap, Camera dei deputati, I legislatura, XI commissione Lavoro e Previdenza sociale, seduta del 1° ottobre 1952; Ap, Senato della repubblica, I legislatura, XI commissione Igiene e Sanità, seduta del 30 ottobre 1952; Ap, Camera dei deputati, I legislatura, XI commissione Lavoro e Previdenza sociale, seduta del 19 dicembre 1952.

[25]. Ap, Senato della repubblica, I legislatura, XI commissione Igiene e Sanità, seduta del 19 ottobre 1951.

[26]. Ap, Senato della repubblica, I legislatura, discussioni, seduta del 29 aprile 1952.

[27]. Ap, Camera dei deputati, I legislatura, I commissione Affari interni, seduta del 6 giugno 1952.

[28]. Ap, Senato della repubblica, I legislatura, XI commissione Igiene e Sanità, seduta del 22 febbraio 1951.

[29]. Ibidem.

[30]. AP, Camera dei deputati, I legislatura, XI commissione Lavoro e Previdenza sociale, seduta del 14 marzo 1951.

[31]. AP, Camera dei deputati, I legislatura, disegni di legge e relazioni, docc. n. 144 e n. 2120.

[32]. AP, Camera dei deputati, I legislatura, discussioni, seduta del 1 aprile 1952.

[33]. Ap, Senato della repubblica, I legislatura, disegni di legge e relazioni, doc. n. 992.

[34]. Ap, Camera dei deputati, I legislatura, disegni di legge e relazioni, docc. n. 715 e n. 1000.

[35]. Ap, Senato della repubblica, I legislatura, disegni di legge e relazioni, doc. n. 2828.

[36]. Ibidem.