Andrea Giovanni Noto
Le celebrazioni per il ventennale della caduta del Muro di Berlino hanno riportato sotto i riflettori dei media e dell’opinione pubblica la vicenda complessa e stimolante di una porzione d’Europa, quella centro-orientale, posta per quasi mezzo secolo sotto la cappa oppressiva e liberticida del comunismo sovietico e restituita alla libertà democratica proprio grazie agli avvenimenti scaturiti da quello “storico” 9 novembre 1989.
Nonostante tale processo di eventi, ulteriormente avvalorato dalla fine dell’Urss nel 1991 e dagli ingressi recentissimi nell’Unione Europea di molti paesi che erano parte integrante di quel blocco (la Lettonia, la Lituania, l’Estonia, la Slovenia, l’Ungheria, la Polonia, la Repubblica Ceca e la Repubblica Slovacca nel 2004, la Romania e la Bulgaria nel 2007), abbia contribuito indubbiamente ad abbattere certe barriere e a riavvicinare le due metà d’Europa, d’altro canto hanno continuato e continuano a permanere nella visione di noi “occidentali” alcuni stereotipi, pregiudizi e luoghi comuni riguardanti quest’area contraddistinta da marcate identità e peculiarità.
Proprio la necessità di favorire una conoscenza più chiara di una realtà dalla più che millenaria tradizione ed evoluzione storica, rendendola maggiormente accessibile a un pubblico non di soli specialisti, sta alla base del recente volume scritto da Pasquale Fornaro per i tipi della Rubbettino e intitolato, per l’appunto, emblematicamente L’“altra” Europa. Temi e problemi di storia dell’Europa orientale.
Il libro, infatti, costituisce un’interessante selezione di alcuni saggi di tipologia differente e di vario ordine cronologico – alcuni inediti, altri di difficile reperibilità in quanto editi all’estero o pubblicati ormai da qualche anno in volumi di Autori Vari, in Atti di convegni o in riviste specializzate – riproposti quasi integralmente, eccezion fatta per piccole aggiunte e necessari aggiornamenti bibliografici, e riuniti in un’opera unitaria. I diversi contributi, frutto di studi e del lavoro di ricerca condotti dall’Autore, fra i massimi studiosi del settore, in particolare dell’area centro-orientale europea nei secoli XIX e XX, consentono di mettere a fuoco una serie di tematiche e questioni attinenti all’intricato mosaico costituito dai popoli dell’Europa orientale in età contemporanea: il forte e radicato senso di identità nazionale, una religiosità vissuta spesso come fattore di affermazione e di difesa di tale aspetto identitario, il rapporto sbilanciato tra città e campagna, la permanenza di determinate “tare” ereditarie – di impronta zarista, asburgica o ottomana – nelle strutture del potere e nelle dinamiche della vita produttiva e associata (pp. 5-6).
A premessa necessaria di tali riflessioni storiografiche, però, Fornaro ribadisce nel primo saggio l’importanza di sfatare certe concettualizzazioni erronee e taluni “miti” persistenti al fine di giungere a una corretta definizione del concetto di Europa orientale, un’entità geostorica comprendente al suo interno almeno tre grandi regioni (una centro-orientale, rappresentata orientativamente da popoli appartenenti fino al 1918 all’impero austro-ungarico, una sud-orientale, che ha subito per secoli la dipendenza politica dell’impero ottomano, mantenendo in prevalenza la religione ortodossa e instaurando un rapporto particolare con la cultura e le religioni islamiche, una terza occupata dalle popolazioni slavo-orientali della “Grande Russia”, dell’Ucraina e della Bielorussia e oscillante tra cristianità bizantina e mondo asiatico) e che sicuramente a partire dallo scisma d’Oriente del 1054 è andata sviluppando una sua originale storia, dando vita a concezioni religiose, filosofiche, politiche e istituzionali nettamente separate da quelle del mondo occidentale.
Tra le grossolane generalizzazioni, che si richiamano nel loro complesso alla pretesa superiorità o centralità dell’Occidente europeo, viene ricordata, ad esempio, quella consolidatasi grazie al contesto geopolitico del secondo dopoguerra di ritenere nazioni ed etnie differenti dell’Europa dell’est come facenti parte di una singola e uniforme entità storico-politica e, nel contempo, di un’indistinta e omogenea massa di popoli tutti riconducibili a una mitica “Slavia” o a una Russia imperiale o all’Unione Sovietica; viene messo in risalto, inoltre, il ricorso frequente e per certi versi indiscriminato al termine “balcanizzazione” per identificare a livelli più generali una situazione di degrado socio-politico, fatta di instabilità, arretratezze e conflitti irrisolti, quasi connaturata ai popoli che vivono in quell’area e la mancata volontà di risalire all’inizio relativamente recente (albori del XIX secolo) di tale “dramma”. E ancora si sottolinea la paradossale percezione, anch’essa ascrivibile a ragioni geopolitiche, da parte del mondo capitalista di Stati quali Grecia e Turchia come più “occidentali” rispetto ad altri situati al di là della “cortina di ferro” ma risultanti in realtà molto più vicini all’Europa occidentale per coordinate geografiche (si pensi alla Jugoslavia) o per legami storico-politici e socio-culturali (è il caso dell’Ungheria e della Cecoslovacchia) (pp. 11-12).
Centro d’indagine privilegiato del volume risulta la regione danubiana, analizzata nelle sue diverse componenti nazionali e nelle sue relazioni con l’Italia.
Vengono così esaminati i progetti politici e le strategie diplomatiche attuati durante il periodo risorgimentale tra il nostro paese e i Principati Danubiani di Moldavia e Valacchia per l’affermazione del diritto di tali popoli all’indipendenza. Un cammino ricco di indubbie affinità e analogie, a partire dalle comuni matrici latine più volte richiamate da una vasta pubblicistica, sia di parte italiana che romena, pronta a sostenere con vigore l’idea di un destino indissolubilmente collegato e di vincoli di sangue tanto forti da essere in grado di vincere le barriere rappresentate dai molti secoli di separazione religiosa e di diversità politico-sociale. In quest’ottica acquista particolare valore l’identica funzione svolta, durante il “decennio di preparazione”, da Torino e Bucarest nell’accogliere esuli e importanti spiriti liberali del tempo e nel fungere da veri e propri centri catalizzatori di un processo di maturazione della coscienza nazionale, al pari della favorevole disposizione nei confronti della causa romena di personaggi noti come Marco Antonio Canini, Cesare Correnti e soprattutto del Conte di Cavour, uno dei più tenaci e autorevoli sostenitori, fin dal congresso di Parigi seguito alla guerra di Crimea, dell’opportunità improrogabile di creare uno Stato romeno indipendente e fra i primi a congratularsi con il colonnello Alexandru Cuza per la sua contemporanea elezione a gospodar di Moldavia e Valacchia nel 1859, un momento risolutivo sulla strada dell’unificazione romena (pp. 69-85).
Viene tratteggiata, inoltre, la difficile e tumultuosa situazione del primo dopoguerra nei paesi degli ex imperi centrali, divisi tra slancio nazionalistico e capacità di coesione delle classi dirigenti locali da un lato e prospettiva rivoluzionaria dietro l’esempio dell’Ottobre rosso dall’altro, che condusse in Austria, Ungheria e Baviera ad esperienze rivoluzionarie effimere, ora sterili e male organizzate come a Vienna dove la dottrina dell’“austromarxismo” improntata alla fedeltà alle istituzioni democratico-parlamentari unita a un forte riformismo sociale risultò facilmente vincente rispetto all’alternativa bolscevica, ora più consistenti come a Monaco e in Baviera dove si costituirono due Repubbliche dei Consigli estremamente deboli che furono spazzate via con estrema facilità ed altrettanto notevole spargimento di sangue, ora molto significative e importanti come nel caso magiaro dove venne instaurata la Repubblica dei Consigli, destinata a restare in vita per quattro mesi fino al 1° agosto 1919, quando l’occupazione di Budapest da parte delle truppe romene avrebbe segnato la caduta del governo guidato dal comunista Béla Kun (pp. 113-125).
Un altro contributo del libro si inserisce nel clima conflittuale del primo dopoguerra per delineare l’orientamento della politica estera mussoliniana al riguardo delle controversie tra le nazionalità del bacino danubiano. L’Italia, infatti, in virtù dell’impostazione “attivistica” voluta dal Duce nei primi anni del suo governo, non esitò a porsi su una posizione di mediazione tra le parti sulla base di un principio di equidistanza in grado di far pervenire a soluzioni in qualche modo soddisfacenti per tutti. A prescindere dalla sincerità o dal pragmatismo che in quel momento dettavano tale atteggiamento, certamente dovuto quanto meno in parte ad esigenze di aumento del consenso interno tramite la presentazione all’opinione pubblica nazionale di un’Italia forte e autonoma in campo internazionale, lo Stato italiano mirò a realizzare un sistema di alleanze e di equilibri alternativo a quello della Piccola intesa, su cui si estendeva l’egemonia della Francia con la quale persisteva una certa tensione, provvedendo ad appoggiare il revisionismo magiaro e bulgaro, ad assistere materialmente le organizzazioni terroristiche macedone e croata, a cementare ulteriormente i buoni rapporti con la Romania, seppur nella speranza di sottrarla al significativo condizionamento di Parigi.
A precise ragioni di studio e di ricerca corrisponde, poi, la forte insistenza su uno specifico Paese del mondo danubiano, esattamente l’Ungheria, che a parere dell’Autore costituisce “una delle esperienze storiche più emblematiche, relativamente almeno agli ultimi 160 anni, in fatto di ascesa e crollo di un modello ‘autonomo’ di Stato nazionale nell’ambito dei sistemi politici e delle ideologie di volta in volta dominanti in questa parte del continente”, per via della sua paradigmatica capacità di concentrare nel caso particolare tutte le grandi aspirazioni, delusioni, contraddizioni ed aspettative dei piccoli e medi popoli dell’Europa centro-orientale (p. 6).
Tra gli aspetti più topici, ad esempio, va ravvisato indubbiamente il fitto intreccio di rapporti e intese fra magiari e italiani, mossi dalla comune volontà di opposizione all’Impero austriaco, negli anni che vanno dal 1848, all’indomani della rotta di Custoza, al 1866, anno della terza guerra di indipendenza e preludio alla firma dell’Ausgleich avvenuta l’anno successivo, in direzione della predisposizione di una massiccia offensiva antiasburgica, mediante l’insistente attività dei rappresentanti diplomatici piemontesi Alessandro Monti e Marcello Cerruti da una parte e Kossuth e gli emigrati politici ungheresi dall’altra. Una stagione di intense collaborazioni e cocenti delusioni, trattata da Fornaro anche in una sua precedente monografia intitolata Risorgimento italiano e questione ungherese (1849-1867), che ebbe le manifestazioni più concrete e alte nell’adesione della legione italiana alla difesa armata della repubblica di Kossuth nel 1849 e nella partecipazione della legione ungherese all’epopea dei Mille, e che trovò forse la sua più emblematica rappresentazione proprio nella figura del grande leader magiaro, espressione di alti ideali e di fiera intransigenza pagati a duro prezzo con il lungo e volontario esilio a Torino (pp. 51-68).
Cessate le illusioni rivoluzionarie e il sogno indipendentistico, è la data dell’Ausgleich a segnare convenzionalmente l’inizio della storia dell’Ungheria contemporanea, la quale, per un buon cinquantennio, vivrà di momenti esaltanti come le celebrazioni per il Millenium (l’anniversario della mitica “conquista della patria”, avvenuta alla fine del IX secolo, ad opera delle tribù capeggiate da Árpád), ma nello stesso tempo di forti contraddizioni e storture causati dal permanere di molti tratti caratteristici delle società di ancien régime: la preponderanza della nazionalità magiara su quelle minori, prive di uguali diritti, appartenenti al Regno d’Ungheria; il perpetrarsi delle gerarchie tradizionali e delle regole stabilite da una ristretta èlite di potere, ancorata saldamente alle proprie posizioni di privilegio; la sopravvivenza di un sistema economico tardo-feudale incentrato sul dominio di pochi magnati della terra, sull’assenza di una vera e propria borghesia urbana e sull’esistenza di numerosi piccoli proprietari terrieri con appezzamenti irrisori o improduttivi e di una vastissima moltitudine di contadini nullatenenti, mal pagati e senza molti diritti, sulle cui drammatiche condizioni di vita getterà luce una certa produzione di stampo letterario, cronachistico, sociologico, diplomatico del tempo (pp. 101-111).
Contraddizioni e storture che andranno ad aggravarsi nel ventennio tra le due guerre mondiali, sia sul fronte sociale, quando rispetto al mondo occidentale colpevole degli equilibri stabiliti a Versailles e alla svolta rivoluzionaria intrapresa dal mondo russo la nazione ungherese intraprenderà la strada dell’isolamento (pp. 127-137), sia sul fronte politico, con l’avvento dell’“ambiguo” regime autoritario dell’ammiraglio Horthy, assimilabile per taluni aspetti al fascismo mussoliniano ma divergente da questo per differenze strutturali e per un suo inserimento formale nel libero sistema delle istituzioni parlamentari (pp. 139-156).
Un ultimo gruppo di saggi, infine, esplora argomenti di contenuto eterogeneo ma di grande interesse per via della loro attualità o della possibilità di portare a conoscenza del grande pubblico problematiche e personaggi poco noti: l’impegno progressista dell’intellettuale russo Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, “organico” e suggestivo interprete del grande spirito di rinnovamento che pervade le nuove generazioni della società zarista dell’epoca delle riforme attraverso la sua attività di critico letterario e di attento teorico in campo politico, sociale ed economico della Russia del suo tempo (pp. 21-50); la straordinaria analogia di idee tra Giuseppe Mazzini e Tomáš G. Masaryk, che è possibile cogliere attraverso gli scritti principali dell’uomo politico e intellettuale ceco dove si nota una sorprendente insistenza su espressioni e concetti usati dal democratico genovese quali nazione, patria, democrazia, religione, educazione nazionale, fratellanza, umanità (pp. 87-99); l’analisi di una questione drammatica e controversa, tutt’altro che risolta al giorno d’oggi, come quella del Kosovo, luogo sacro per serbi ed albanesi che ne rivendicano l’appartenenza, vero e proprio crocevia ed emblema della martoriata area balcanica (pp. 241-252); un’utile e densa rassegna – suddivisa per paesi – dei numerosi contributi aventi per oggetto l’Europa centro-orientale nella sua interezza o nelle sue differenti componenti nazionali editi in Italia negli anni Venti e Trenta del secolo scorso da ampi settori della storiografia e della pubblicistica, degnamente rappresentati dall’attività dell’Istituto per l’Europa Orientale e dall’omonima rivista “L’Europa Orientale” che ruotavano intorno alle significative personalità dei fondatori Amedeo Giannini, Giovanni Gentile, Giuseppe Prezzolini, Umberto Zanotti-Bianco, Francesco Ruffini, Nicola Festa (pp. 185-222); lo sconvolgente tema della riproduzione del fenomeno dello stalinismo nei paesi di “democrazia popolare” e della figura del “piccolo padre” sovietico in quella della maggior parte dei leader dei vari partiti comunisti al potere negli anni posteriori al 1945, dagli “eterodossi” Enver Hoxha in Albania e Tito in Jugoslavia agli “ortodossi” Klement Gottwald e Antonín Novotný in Cecoslovacchia, Todor Živkov in Bulgaria, Władysław Gomułka in Polonia, Mátyás Rákosi e János Kádár in Ungheria, Walter Ulbricht nella Repubblica Democratica Tedesca, Nicolae Ceauşescu in Romania (pp. 223-240).